30 Aprile 2024

Ricorso per cassazione: la deduzione della violazione dell’art. 115 c.p.c.

di Valentina Baroncini, Avvocato e Ricercatore di Diritto processuale civile presso l'Università degli Studi di Verona Scarica in PDF

Cass., sez. I, 27 marzo 2024, n. 8289, Pres. Ferro, Est. Amatore

[1] Ricorso per cassazione – Violazione dell’art. 115 c.p.c. – Decisione sulla base di prove non introdotte dalle parti.

In tema di ricorso per cassazione, per dedurre la violazione dell’art. 115 c.p.c., occorre denunciare che il giudice, in contraddizione espressa o implicita con la prescrizione della norma, abbia posto a fondamento della decisione prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli (salvo il dovere di considerare i fatti non contestati e la possibilità di ricorrere al notorio), mentre è inammissibile la diversa doglianza che egli, nel valutare le prove proposte dalle parti, abbia attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività valutativa consentita dall’art. 116 c.p.c.

CASO

[1] Alcune creditrici presentavano domanda di insinuazione al passivo di una impresa individuale fallita richiedendo, in particolare, il risarcimento dei danni conseguenti all’inadempimento del contratto di associazione in partecipazione con essa stipulato.

Il giudice delegato pronunciava l’esclusione di tale credito dallo stato passivo, con decreto che veniva opposto a norma dell’art. 98 l.fall.

L’adito Tribunale di Milano, rigettando l’opposizione confermava l’esclusione dallo stato passivo, rilevando, in particolare, la mancanza di prova del grave inadempimento, da parte della debitrice, al predetto contratto associativo.

Tale provvedimento veniva conseguentemente fatto oggetto di ricorso per cassazione mediante il quale, per quanto di interesse nella presente sede, veniva dedotta violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. “per aver il Tribunale posto a fondamento della decisione le prove addotte dalle parti e il comportamento del debitore nell’esecuzione del contratto”; in particolare, le ricorrenti censuravano il provvedimento impugnato laddove “ripercorrendo i fatti di causa, avrebbe fatto riferimento a circostanze processuali insussistenti, peraltro obliterando numerosi e consistenti produzioni documentali”.

SOLUZIONE

[1] La Suprema Corte ha ritenuto inammissibile il motivo, nella sua formulazione.

Oltre alla carenza di autosufficienza del ricorso, la Cassazione rileva come, nel caso di specie, le ricorrenti, sotto l’egida applicativa del vizio di violazione e falsa applicazione di legge, abbiano preteso un nuovo esame della fattispecie concreta, senza però prospettare alcun profilo di erronea interpretazione ovvero falsa applicazione di una norma di legge.

Conseguentemente, il ricorso per cassazione proposto viene dichiarato inammissibile.

QUESTIONI

[1] La questione affrontata dalla Cassazione attiene ai limiti e alle modalità di censura, operata davanti al giudice di legittimità, dell’art. 115 c.p.c., in relazione a quanto prescritto dal successivo art. 116.

La prima norma richiamata, come noto, disciplina il c.d. principio dispositivo istruttorio, comandando al giudice di porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti, salvi i casi in cui, in via del tutto eccezionale, la legge gli riconosce poteri istruttori d’ufficio; è sempre fatta salva, peraltro, la possibilità di porre a fondamento della decisione i fatti non specificamente contestati dalla parte costituita, nonché quelli c.d. notori.

Il successivo art. 116 c.p.c., viceversa, disciplina il c.d. libero apprezzamento del giudice, consentendo a tale soggetto di valutare le prove acquisite secondo il suo prudente apprezzamento, salvo che la legge qualifichi un determinato mezzo di prova come legale, conseguentemente riconoscendogli un determinato valore probatorio (di efficacia pienprobante, ovvero di mero argomento di prova, a norma del 2°co. della norma).

Alla luce di ciò, è evidente che censurare davanti alla Cassazione la violazione dell’una o dell’altra norma assume un significato del tutto differente: per dedurre la violazione dell’art. 115 c.p.c., infatti, occorre denunciare che il giudice, in contraddizione espressa o implicita con la prescrizione della norma, abbia posto a fondamento della decisione prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli (salvo il dovere di considerare i fatti non contestati e la possibilità di ricorrere al notorio), mentre è inammissibile la diversa doglianza che egli, nel valutare le prove proposte dalle parti, abbia attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività valutativa consentita dall’art. 116 c.p.c. (Cass., sez. un., 30 settembre 2020, n. 20867; Cass., 9 giugno 2021, n. 16016).

Nel caso di specie, come accennato, le ricorrenti hanno preteso un nuovo esame della fattispecie concreta, senza prospettare alcun profilo di erronea interpretazione ovvero falsa applicazione di una norma di legge: solo in tal modo lo scrutinio della Cassazione, all’interno del giudizio, sarebbe stato legittimi (così, Cass., 5 febbraio 2019, n. 3340; Cass., 13 ottobre 2017, n. 24155).

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