21 Febbraio 2023

Il vizio di omessa pronuncia tra deducibilità in sede di gravame e riproponibilità della domanda in separato giudizio

di Valentina Baroncini, Professore associato di Diritto processuale civile presso l'Università degli Studi di Verona Scarica in PDF

Cass., sez. VI, 1° dicembre 2022, n. 35382, Pres. Ferro – Est. Vella

[1] Processo civile – Omessa pronuncia su una domanda – Alternativa di far valere l’omissione in sede di gravame o di riproporre la domanda in separato giudizio (artt. 112, 346 c.p.c.)

Massima: “In caso di omessa pronuncia su una domanda (nel caso di specie quella di rimborso delle spese, distinta e autonoma rispetto a quella di liquidazione del compenso spettante all’avvocato), e sempre che non ricorrano gli estremi di un assorbimento della questione pretermessa ovvero di un rigetto implicito (non prospettato né nel provvedimento impugnato né nell’originario decreto del giudice delegato, il quale prende anzi in esame esclusivamente l’istanza «di liquidazione dei compensi professionali») la parte ha la facoltà alternativa di far valere l’omissione in sede di gravame o di riproporre la domanda in separato giudizio, poiché la presunzione di rinuncia ex art. 346 c.p.c. ha valore meramente processuale e non anche sostanziale, sicché, riproposta la domanda in separato giudizio, non è in tale sede opponibile la formazione del giudicato esterno”.

CASO

[1] All’interno di una procedura di fallimento, un avvocato proponeva istanza di rimborso delle spese anticipate in quattro giudizi nei quali aveva rappresentato e difeso la curatela fallimentare, essendo rimasto il precedente provvedimento di liquidazione dei compensi privo di statuizione sulla medesima richiesta.

Il giudice delegato, nonostante il parere favorevole del curatore, rigettava tale istanza, affermando che il provvedimento decisorio avente ad oggetto il diritto del professionista alla corresponsione dei compensi, in mancanza di reclamo, fosse divenuto definitivo per tre di essi, mentre nel quarto l’avvocato aveva proposto reclamo senza spiegare alcun motivo di gravame in ordine all’omessa liquidazione delle spese, con riguardo alla quale doveva desumersi aver prestato acquiescenza.

Avverso tale provvedimento, l’avvocato proponeva reclamo ex art. 26 l.fall., che veniva però rigettato dall’adito Tribunale di Roma. In particolare, il Tribunale riteneva che il sistema della procedura fallimentare fosse strutturato nel senso di prevedere che le decisioni del giudice delegato potessero essere oggetto di giudiziale gravame, ma ciò entro ristretti termini di natura decadenziale (tenuto conto dell’attributo loro espressamente conferito di perentorietà) di modo da contemperare le esigenze giustiziali individuali con quelli di stabilità, certezza e celerità del pertinente iter procedimentale: ratio che verrebbe radicalmente frustrata laddove si consentisse che istanze promosse innanzi al giudice delegato e non accolte possano essere meramente reiterate e ciò quale facoltà alternativa alla proposizione di reclamo ex art. 26 l.fall. avverso la precedente decisione che non aveva loro dato accesso e riconoscimento.

L’avvocato proponeva, pertanto, ricorso per cassazione, affidato a un unico motivo deducente violazione o falsa applicazione degli artt. 112 e 346 c.p.c., nonché 1720 c.c., in combinato disposto con gli artt. 25, comma 1, n. 6), e 26 l.fall., per non avere il Tribunale considerato l’autonomia della domanda di compenso rispetto a quella di rimborso delle spese anticipate, speculare all’autonomia dei rispettivi diritti, nonché il valore meramente processuale della presunzione di rinuncia di cui all’art. 346 c.p.c., non essendovi alcuna norma che comprima il diritto di difesa in relazione alla scelta del creditore del fallimento di proporre impugnazione ex art. 26 l.fall. o riproporre la domanda non esaminata.

SOLUZIONE

[1] La Suprema Corte giudica fondato il ricorso per cassazione proposto.

A sostegno della propria decisione, il provvedimento richiama la consolidata giurisprudenza di legittimità che, in caso di omessa pronuncia su una domanda (nel caso di specie quella di rimborso delle spese, distinta e autonoma rispetto a quella di liquidazione del compenso spettante all’avvocato), e sempre che non ricorrano gli estremi di un assorbimento della questione pretermessa ovvero di un rigetto implicito – non prospettato né nel provvedimento impugnato né nell’originario decreto del giudice delegato (il quale prende anzi in esame esclusivamente l’istanza «di liquidazione dei compensi professionali») – accorda alla parte la facoltà alternativa di far valere l’omissione in sede di gravame o di riproporre la domanda in separato giudizio, poiché la presunzione di rinuncia ex art. 346 c.p.c. ha valore meramente processuale e non anche sostanziale, sicché, riproposta la domanda in separato giudizio, non è in tale sede opponibile la formazione del giudicato esterno.

Secondo la decisione in commento, la motivazione spesa dal tribunale nel decreto impugnato, ispirata alle peculiari esigenze di celerità della procedura fallimentare, può ben essere giustificata in relazione a domande non accolte, mentre rispetto a quelle per le quali non vi sia stata alcuna pronuncia merita conferma l’orientamento consolidato della Cassazione, peraltro conforme anche ad esigenze di economia processuale, poiché la riproposizione dell’istanza (sulla quale per una svista il giudicante non si sia pronunciato) risulta più immediata e meno dispendiosa, in termini di risorse della giustizia, rispetto al mezzo impugnatorio.

Conseguentemente, la Suprema Corte cassa il decreto impugnato e, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, decide il ricorso nel merito ex art. 384, 2°co., c.p.c., con condanna del fallimento intimato al rimborso in favore dell’avvocato delle spese dallo stesso anticipate nell’interesse della procedura fallimentare.

QUESTIONI

[1] La questione sottoposta alla Cassazione attiene ai rimedi esperibili dalla parte di fronte al vizio di omessa pronuncia in cui sia incorso il giudice e, in particolare, se la stessa sia onerata di far valere detto vizio tramite l’impugnazione del provvedimento ovvero se possa, in alternativa, riproporre la domanda in un nuovo giudizio, non ostandovi la presunzione di rinuncia posta dall’art. 346 c.p.c.

Anzitutto, è noto come il vizio di omessa pronuncia configuri una violazione del disposto di cui all’art. 112 c.p.c., nella parte in cui impone al giudice di «pronunciare su tutta la domanda», e che tale vizio sia destinato a trovare il suo terreno elettivo di configurazione nei processi c.d. oggettivamente complessi.

Specie nella dottrina più risalente – espressasi, in particolare, in relazione alla disciplina apprestata dal c.p.c. del 1865 – era discussa l’identificazione del rimedio spendibile avverso il vizio di omessa pronuncia, in particolare se, oltre alla possibilità di esperire il mezzo di impugnazione offerto alla parte, fosse sempre aperta anche la strada parallela della riproposizione in un nuovo giudizio della domanda non decisa dal giudice (in senso contrario, F. Carnelutti, Effetti della cassazione per omessa pronunzia, in Riv. dir. proc. civ., 1938, 68 ss.; a favore della parallela possibilità di riproposizione, G. Cristofolini, Omissione di pronunzia, in Riv. dir. proc. civ., 1938, 98 ss.).

Nel vigore del codice attuale, le posizioni raggiunte sul tema dalla giurisprudenza di legittimità sembrano consolidate.

La Suprema Corte, cioè, pacificamente afferma come, al cospetto di un vizio di omessa pronuncia del giudice, la parte sia libera di scegliere se impugnare il provvedimento viziato, sì da ottenere in seconde cure la decisione indebitamente omessa in primo grado, ovvero riproporre la domanda non decisa in un nuovo e separato giudizio, per ottenere in tale nuova sede la tutela giurisdizionale ingiustamente mancata (tra le tante, Cass., 2 maggio 2018, n. 10406; Cass., 7 marzo 2016, n. 4388; Cass., 11 giugno 2008, n. 15461; Cass., 16 maggio 2006, n. 11356).

Ciò che tali pronunce si premurano di chiarire, inoltre, è che laddove la parte scelga di rimediare al vizio di omessa pronuncia in cui sia incorso il giudice di primo grado tramite la proposizione di appello avverso la sentenza viziata, essa parte sarà tenuta a formulare uno specifico motivo di appello, non essendo a tal fine sufficiente limitarsi a un’attività di mera riproposizione ex art. 346 c.p.c. che, come noto, è attività da riferire alle domande rimaste legittimamente assorbite in primo grado (e non su cui sia mancata la decisione del giudice, in violazione dell’art. 112 c.p.c.).

Ancora, la Cassazione chiarisce come, in tali fattispecie, la circostanza per cui la parte rinunci a esperire gravame nei confronti della sentenza viziata non osti alla proponibilità della domanda non decisa in un separato giudizio, in quanto la rinuncia implicita alla pretesa derivante dal mancato esperimento del gravame avrebbe valore meramente processuale e non sostanziale, con la conseguenza per cui, all’interno del nuovo giudizio, non potrebbero essere fondatamente opposte né una preclusione derivante dalla mancata impugnazione della precedente sentenza, né una preclusione da giudicato sulla domanda (tra le più recenti, Cass., 2 agosto 2019, n. 20879; in precedenza, già Cass., 4 giugno 2010, n. 13614).

Il provvedimento in commento si inserisce nell’orientamento qui richiamato, confermandone la piena vigenza anche all’interno dell’ordinamento concorsuale (sul tema, può senz’altro rinviarsi al lavoro di M. Montanari, Omessa pronuncia e decisione implicita in sede di verificazione dello stato passivo, in Il fallimento, 1996, 1157 ss.), conseguentemente accordando alla parte che aveva proposto una domanda rimasta non decisa (quella di rimborso delle spese anticipate dall’avvocato) di scegliere se riproporla ovvero impugnare (nel caso di specie, a mezzo di reclamo ex art. 26 l.fall.) il provvedimento viziato.

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