Vendita dei beni di consumo e animali domestici
di Mirko Faccioli, Avvocato e Professore associato di diritto privato Scarica in PDFCass. civ., sez. II, 25 settembre 2018, n. 22728 – Pres. Matera – Rel. Lombardo
[1-2] Contratto di compravendita – Vendita di animali – Disciplina della vendita dei beni di consumo – Applicabilità – Condizioni e limiti (Cod. civ., artt. 1490, 1492, 1496; Cod. cons., artt. 3, 128, 130, 132)
[1] La compravendita di animali da compagnia o d’affezione, ove l’acquisto sia avvenuto per la soddisfazione di esigenze della vita quotidiana estranee all’attività imprenditoriale o professionale eventualmente esercitata dal compratore, è regolata dalle norme del codice del consumo, salva l’applicazione delle norme del codice civile per quanto non previsto.
[2] Nella compravendita di animali da compagnia o d’affezione, ove l’acquirente sia un consumatore, la denuncia del difetto della cosa venduta è soggetta, ai sensi dell’art. 132 cod. cons., al termine di decadenza di due mesi dalla data di scoperta del difetto
CASO
[1-2] La controversia decisa dalla Suprema Corte trae origine dal contratto di compravendita di un cane intercorso tra una società ed una persona fisica che, qualche tempo dopo l’acquisto, tramite l’esecuzione di un esame TAC scopriva la presenza nell’animale di una grave cardiopatia congenita e provvedeva a comunicare tale circostanza alla controparte con lettera inviata nove giorni dopo l’esame e giunta a destinazione dopo ulteriori cinque giorni.
Successivamente l’acquirente adiva le vie giudiziarie chiedendo la parziale restituzione del prezzo e il risarcimento del danno, ma vedeva le proprie pretese respinte tanto in primo quanto in secondo grado per non avere rispettato il termine di otto giorni dalla scoperta previsto dall’art. 1495 cod. civ. per la denuncia dei vizi della cosa venduta.
SOLUZIONE
[1-2] L’esito dei due giudizi di merito viene ribaltato in sede di legittimità sulla scorta del riconoscimento dell’applicabilità, alla vendita di animali d’affezione, della disciplina sulla vendita dei beni di consumo ora contenuta negli artt. 128 ss. cod. cons. (d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206), ma invero introdotta nel nostro ordinamento già dal d.lgs. 24 febbraio 2002, n. 24 (di attuazione della dir. 1999/44/CE) tramite l’innesto nel tessuto codicistico degli artt. 1519-bis ss., successivamente abrogati.
L’art. 132, comma 2, cod. cons. infatti prevede che i vizi – rectius, i «difetti di conformità» – del bene debbano essere denunciati al venditore entro due mesi dalla scoperta, ovverosia entro un termine ben più lungo di quello previsto dal codice civile e che nella fattispecie in esame era stato ampiamente rispettato dall’acquirente.
Per giungere a questo esito ermeneutico, di segno opposto rispetto alla tesi propugnata tanto dal Tribunale quanto dalla Corte d’Appello sulla scorta dell’art. 1496 cod. civ., gli Ermellini mettono in evidenza che gli animali sono considerati «beni» (mobili) da una nutrita serie di disposizioni codicistiche e sono, di conseguenza, senz’altro suscettibili di rientrare nell’ampia definizione di «bene di consumo» offerta dall’art. 128, comma 2, cod. cons., che al riguardo parla, per la precisione, di «qualsiasi bene mobile».
Per quanto poi concerne l’art. 1496 cod. civ., ritiene la Suprema Corte che questo debba essere interpretato alla luce del principio, desumibile dagli artt. 135, comma 2, cod. cons. e 1469-bis cod. civ., secondo cui «esiste […], nell’attuale assetto normativo della disciplina della compravendita, una chiara preferenza del legislatore per la normativa del codice del consumo relativa alla vendita ed un conseguente ruolo “sussidiario” assegnato alla disciplina codicistica (relativa tanto al contratto in generale che alla compravendita): nel senso che, in tema di vendita di beni di consumo, si applica innanzitutto la disciplina del codice del consumo (art. 128 e segg.), potendosi applicare la disciplina del codice civile solo per quanto non previsto dal codice del consumo».
Affinché la disciplina consumeristica sia applicabile alla vendita di animali è ovviamente necessario, come opportunamente precisa la Suprema Corte, che i contraenti di volta in volta considerati rivestano le qualifiche soggettive all’uopo richieste dalla legge e, in particolare, che l’acquirente possa essere considerato «consumatore» ai sensi dell’art. 3, lett. a), cod. cons., che precisamente designa come tale «la persona fisica che agisce per scopi estranei all’attività imprenditoriale, commerciale, artigianale o professionale eventualmente svolta». Si tratta di una qualifica che, secondo la costante giurisprudenza di legittimità, spetta solamente alle persone fisiche che concludono il contratto per soddisfare esigenze della vita quotidiana di natura personale o familiare, come tali estranee all’esercizio della propria attività professionale o imprenditoriale così come a scopi con quest’ultima connessi: ciò che, per l’appunto, può sicuramente dirsi, secondo la pronuncia in esame, anche di colui che acquista un c.d. animale da compagnia (o d’affezione).
QUESTIONI
[1-2] La soluzione elaborata – a quanto consta per la prima volta in sede di legittimità – da Cass. n. 22728/2018 (per un’analisi della quale v. pure M. Pittalis, L’animale domestico è un “bene di consumo”?, in Quotidiano giur. Pluris, 1° ottobre 2018, p. 2 ss.) trova ampio riscontro in dottrina, nella quale tende a prevalere un’interpretazione particolarmente ampia della nozione di «bene di consumo» fondata sul riconoscimento della tassatività dell’elencazione dei beni esclusi dalla nozione medesima (quelli oggetti di vendita forzata o comunque venduti secondo altre modalità dalle autorità giudiziarie, anche mediante delega ai notai; l’acqua e il gas, quando non confezionati per la vendita in un volume delimitato o in quantità determinata; l’energia elettrica) contenuta nello stesso art. 128, comma 2, cod. cons. (v., tra gli altri, F. Bocchini, La vendita di cose mobili. Artt. 1510-1536, in Il Codice Civile. Commentario, fondato da P. Schlesinger e diretto da F.D. Busnelli, 2a ed., Milano, 2004, p. 348; A. Ciatti, L’ambito di applicazione, in Le garanzie nella vendita dei beni di consumo, a cura di M. Bin e A. Luminoso, in Trattato di diritto commerciale e di diritto pubblico dell’economia, diretto da F. Galgano, Padova, 2003, p. 123; R. Carleo, Art. 1519-bis, 2° comma, lett. b), in Commentario sulla vendita dei beni di consumo, a cura di S. Patti, Milano, 2004, p. 46 s.).
Ragionando in questa prospettiva, quindi, diversi studiosi della disciplina della vendita dei beni di consumo ritengono che tale disciplina si applichi senz’altro alla compravendita di animali vivi (così anche F. Rolfi, Note in tema di garanzia per i vizi nella vendita di animali, in Corr. mer., 2005, p. 167, e A. Maniàci, Vendita di animali: vizi, difetti e rimedi, in Contratti, 2004, p. 1127, ove ulteriori riferimenti di dottrina conforme), pur dividendosi circa il ruolo da riservare all’art. 1496 cod. civ.: secondo alcuni, quest’ultimo dovrebbe comunque trovare spazio anche nel nostro ambito, sicché la disciplina sulla vendita dei beni di consumo troverebbe applicazione solo in via residuale rispetto alle leggi speciali in materia o, in mancanza, agli usi locali (F. Bocchini, La vendita di cose mobili, cit., p. 343; E. Corso, Della vendita dei beni di consumo. Art. 1519 bis – 1519 nonies, in Commentario del codice civile Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 2005, p. 22); secondo un’altra opinione, invece, l’art. 1496 cod. civ. verrebbe messo fuori causa dagli artt. 128 ss. cod. cons. in quanto costituenti la disciplina generale valevole per i difetti di conformità di ogni bene di consumo (A. Ciatti, L’ambito di applicazione, cit., p. 124 s.).
Proprio in sede di commento della sentenza che ci occupa tale soluzione è stata, tuttavia, revocata in dubbio facendo leva su due ordini di argomenti fondati sull’interpretazione sistematica della disciplina degli artt. 128 ss. cod. cons. (M. Pittalis, L’animale domestico, cit., p. 4).
Da un primo punto di vista si è affermato che la nozione di «bene di consumo» dovrebbe essere individuata anche sulla scorta della parte dell’art. 128 cod. cons. che equipara alla vendita «tutti gli altri contratti comunque finalizzati alla fornitura di beni di consumo da fabbricare o da produrre»: alla luce di questo rilievo, quindi, si dovrebbe circoscrivere la nozione in parola ai soli beni suscettibili di essere fabbricati o prodotti, ciò che non parrebbe potersi affermare con riguardo agli animali (i quali verrebbero semmai «allevati», come si esprime l’art. 2135 cod. civ.). In secondo luogo è stato, poi, osservato come sembri difficilmente poter operare, nel contesto qui considerato, il diritto del consumatore al ripristino della conformità del bene mediante sostituzione di cui all’art. 130 cod. cons., in quanto ogni animale sarebbe caratterizzato, pur nell’ambito della stessa specie, da «una propria individualità ed indole che lo distingue[rebbe] da tutti gli altri».
In conclusione di questo ragionamento, quindi, si dovrebbe riconoscere che gli artt. 128 ss. cod. cons. non presentano il carattere di «legge speciale» (sugli animali) rispetto al codice civile necessario per poter prevalere su quest’ultimo ai sensi dell’art. 1496 del medesimo.
Al di là del profilo, finora considerato, concernente l’applicabilità della disciplina della vendita dei beni di consumo agli animali, della sentenza in esame merita di essere inoltre sottolineato il passaggio in cui si sostiene l’esistenza, nel sistema, di «una chiara preferenza del legislatore per la normativa del codice del consumo relativa alla vendita ed un conseguente ruolo “sussidiario” assegnato alla disciplina codicistica (relativa tanto al contratto in generale che alla compravendita)» facendo leva sulle disposizioni degli artt. 135, comma 2, cod. cons. e 1469-bis cod. civ.: si tratta, infatti, di un’affermazione di principio potenzialmente assai rilevante e che, se venisse fatta propria dalla giurisprudenza successiva, potrebbe avere importantissime ricadute sulla risoluzione delle numerose e delicate questioni sollevate dal problema del coordinamento tra codice civile e disciplina consumeristica (per un approfondimento al riguardo, v. M. Faccioli, Gli artt. 1469-bis c.c. e 38 c. cons.: il coordinamento tra le norme del codice civile e la disciplina di tutela del consumatore, in Studium Iuris, 2012, p. 840 ss.; T. dalla Massara, La «maggior tutela» del consumatore: ovvero del coordinamento tra codice civile e codice del consumo dopo l’attuazione della direttiva 2011/83/UE, in Contr. e impr., 2016, p. 743 ss.).