Utilizzo di fatture per operazioni soggettivamente e oggettivamente inesistenti e frode fiscale: l’onere probatorio gravante sull’Amministrazione finanziaria
di Asia Bartolini, Dottoressa in Legge Scarica in PDFCass. civ., Sez. V, Ordinanza, 24/07/2024, n. 20487
Parole chiave: frode fiscale – onere probatorio – massima diligenza possibile e buona fede – Agenzia delle Entrate – avviso di accertamento – fatture – operazioni soggettivamente inesistenti – costi indeducibili.
Massima: “In materia di contestazioni relative all’utilizzazione di fatture per operazioni soggettivamente inesistenti, l’Amministrazione finanziaria ha l’onere di dimostrare, anche solo in via indiziaria, la consapevolezza del contribuente che l’operazione si inseriva in una frode fiscale. Tale dimostrazione deve basarsi su elementi oggettivi e specifici, idonei a mettere in guardia un imprenditore onesto e mediamente esperto circa l’esistenza della frode. Incombe sul contribuente l’onere di provare di aver agito in buona fede e con la massima diligenza esigibile”.
Disposizioni applicate: artt. 19, 21, 23, 28 e 54 del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633; art. 2 del D.Lgs.
10 marzo 2000, n. 74; art. 2697 c.c,; artt. 51 e 95 del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917; art. 39 del
D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600; artt. 36 e 61 del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546; art. 132 c.p.c.
La vicenda trae origine dalla notifica di un avviso di accertamento per IRES, IRAP e IVA relative all’anno di imposta 2006, da parte dell’Agenzia delle Entrate, nei confronti della società Print Point S.r.l..
In particolare, tramite l’avviso di accertamento emesso veniva contestata l’utilizzazione di fatture per operazioni soggettivamente inesistenti da parte di Print Point, nonché per recuperi minori concernenti la ritenuta indeducibilità di alcuni costi (spese di marketing, ad esempio).
Avverso tale avviso di accertamento, la Print Point proponeva ricorso innanzi alla Commissione tributaria provinciale di Parma, la cui sentenza veniva appellata da parte dell’Agenzia delle Entrate presso la Commissione tributaria regionale dell’Emilia-Romagna, la quale, tuttavia, rigettava l’impugnazione.
La Commissione tributaria respingeva l’appello sulla base delle seguenti motivazioni: 1) l’Erario non aveva fornito la prova che la società contribuente “sapeva o avrebbe dovuto sapere che l’operazione posta in essere, a monte, rientrava in una frode fiscale“; b) i verificatori avevano accertato che le transazioni si erano svolte, anche se con soggetti diversi da quelli indicati in fattura; c) il compenso dell’amministratore era stato corrisposto e dichiarato dal percettore; d) le spese di marketing erano state sostenute, sebbene la fattura sia stata emessa dal fratello del legale rappresentante della Print Point; e) le spese relativa all’automobile e ai quadri erano giustificate, rispettivamente, dallo svolgimento dell’attività aziendale e dalla necessità di dare decoro ai locali aziendali.
Pertanto, l’Agenzia delle Entrate proponeva ricorso per Cassazione – il quale veniva accolto dalla Suprema Corte – mentre Print Point non si costituiva in giudizio.
In primo luogo, l’Agenzia delle Entrate deduceva la violazione e falsa applicazione degli artt. 19, 21, 23, 28 e 54 del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, dell’art. 2 del D. Lgs. 10 marzo 2000, n. 74 e dell’art. 2697 cod. civ., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., per avere la Commission tributaria erroneamente ritenuto non raggiunta la prova indiziaria della conoscenza o conoscibilità in capo alla società contribuente, della esistenza di una frode IVA.
La Suprema Corte, nel ribadire un consolidato orientamento giurisprudenziale, ha ricordato che “l’Amministrazione finanziaria, la quale contesti che la fatturazione attenga ad operazioni soggettivamente inesistenti, inserite o meno nell’ambito di una frode carosello, ha l’onere di provare, anche solo in via indiziaria, non solo l’oggettiva fittizietà del fornitore ma anche la consapevolezza del destinatario che l’operazione si inseriva in una evasione dell’imposta; la prova della consapevolezza dell’evasione richiede che l’Amministrazione finanziaria dimostri, in base ad elementi oggettivi e specifici non limitati alla mera fittizietà del fornitore, che il contribuente sapeva o avrebbe dovuto sapere, con l’ordinaria diligenza in rapporto alla qualità professionale ricoperta, che l’operazione si inseriva in una evasione fiscale”.
Nel caso di specie, in particolare, l’Amministrazione finanziaria aveva fornito numerosi elementi indiziari non solo relativi alla fittizietà dei fornitori, ma anche riguardanti la conoscenza o conoscibilità della frode IVA effettuata da Print Point (vendita sottocosto dei beni, frequenti rapporti commerciali tra interponenti e interposti, ad esempio).
Con il secondo motivo, l’Agenzia delle Entrate contestava alla Commissione tributaria regionale di aver erroneamente ritenuto la legittimità della deduzione del compenso dell’amministratore, erogato in data 13/02/2007 e non già entro il 12/01/2007, con conseguente violazione del principio di cassa “allargato”.
Sul punto, la Cassazione, ritenendo il motivo fondato, ha sostenuto che “in caso di pagamento del compenso dell’amministratore di società di capitali a mezzo di bonifico bancario, il relativo importo è deducibile, secondo il principio cd. di cassa allargato, nell’esercizio in cui le somme sono accreditate al beneficiario senza che rilevi la data della disposizione o della valuta”; la Corte, pertanto, he ritenuto che il compenso dell’amministratore erogato da Print Point in data successiva al 12/01/2007, sia indeducibile.
La Corte, poi, nel ritenere anche il terzo motivo formulato dall’Amministrazione finanziaria come fondato, ha sottolineato un importante principio in punto di onere probatorio gravante sull’Agenzia delle Entrate in caso di contestazioni per l’utilizzo di fatture relative a operazioni oggettivamente inesistenti: in tal caso, infatti, ha affermato la Corte, l’Agenzia delle Entrate non ha l’onere di dimostrare la mala fede del contribuente, bensì solo quello di provare – sempre in maniera indiziaria e presuntiva – che l’operazione non è mai stata posta in essere; grava sul contribuente, prosegue la Corte, l’onere di provare l’effettiva esistenze delle operazioni contestate.
Nel caso di specie, nonostante le diverse prove indiziarie fornite dall’Agenzia delle Entrate, la Commissione tributaria aveva invece dato valore ad elementi del tutto priva di efficacia probante, tra cui, a titolo esemplificativo, la regolare corresponsione del compenso.
Infine, accogliendo anche il quarto motivo di ricorso presentato dall’Amministrazione finanziaria, la Cassazione ha dichiarato come la motivazione della sentenza impugnata non fosse idonea ad esplicare
la ratio decidendi del Giudice e, dunque, come fosse nulla; ciò, in quanto – alla luce di un affermato orientamento giurisprudenziale – la sentenza deve dirsi affetta da “error in procedendo“, poiché, benché graficamente esistente, non rende percepibile il fondamento della decisione, recante argomentazioni inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal Giudice per la formazione del proprio convincimento.
Per tutto quanto premesso, la Corte ha accolto il ricorso, cassando la sentenza impugnata e rinviando alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado dell’Emilia-Romagna, in diversa composizione.
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