Sulla censurabilità, in Cassazione, dell’utilizzo del fatto notorio ad opera del giudice di merito
di Valentina Baroncini, Professore associato di Diritto processuale civile presso l'Università degli Studi di Verona Scarica in PDFCass., sez. II, 22 agosto 2018, n. 20896, Pres. Armano – Est. Positano
[1] Prova civile – Poteri (o obblighi) del giudice – Fatti notori – Assunzione di una nozione di notorietà inesatta – Censurabilità in sede di legittimità per violazione di legge – Sussistenza – Discrezionalità del giudice di merito nel ricorrere alla massima di esperienza – Sindacabilità in sede di legittimità – Limiti. (Cod. proc. civ., artt. 115, 360)
In tema di prova civile, in sede di legittimità è censurabile per violazione di legge l’assunzione da parte del giudice di merito di una inesatta nozione di fatto notorio – da intendere come fatto conosciuto da uomo di media cultura, in un dato tempo e luogo – e non anche il concreto esercizio del suo potere discrezionale di ricorrere alla massima di esperienza, che può essere censurato solo per vizio di motivazione.
CASO
[1] Nell’ambito di una controversia in materia di diritto bancario, due contitolari di un conto corrente convenivano in giudizio l’istituto di credito presso il quale tale conto era acceso domandando, nei confronti dello stesso, la condanna alla restituzione di una somma di denaro ingiustamente richiesta, alla cancellazione del proprio nome dalla Centrale Rischi Finanziaria nonché al risarcimento dei danni morali e materiali subiti.
Il Tribunale di Foggia rigettava le domande proposte per mancata dimostrazione, da parte degli attori, dei fatti costitutivi delle proprie pretese, nonché del danno asseritamente subito. Tale sentenza veniva impugnata dagli attori innanzi alla Corte d’Appello di Bari, la quale, ugualmente, provvedeva per il rigetto del gravame.
Avverso tale sentenza, i soccombenti proponevano ricorso per cassazione, articolato in dodici motivi. Quello in rilievo nella presente sede è il decimo, col quale i ricorrenti hanno dedotto la violazione dell’art. 115 c.p.c., in relazione all’art. 360, n. 5), c.p.c., «per violazione dei principi in materia di prova legale, costituita dal fatto notorio, poiché i pregiudizi lamentati rientravano fra le nozioni di comune esperienza»: in particolare, secondo i ricorrenti, la posizione professionale di uno di essi (dottore commercialista e revisore dei conti) nonché la rilevanza costituzionale dei diritti violati sarebbero stati sufficienti a «riconoscere un danno patrimoniale sulla base di massime di esperienza».
SOLUZIONE
[1] La Suprema Corte dichiara inammissibile tale motivo – e, dunque, esclude la possibilità di affermare l’esistenza di un danno in re ipsa, sulla base della professionalità e onorabilità di uno dei due ricorrenti – ricordando come, in sede di legittimità, sia possibile censurare, per violazione di legge, l’utilizzo del fatto notorio solo sub specie di doglianza alla nozione di notorietà assunta dal giudice di merito, rimanendo preclusa, viceversa, la possibilità di censurare il concreto esercizio, da parte dello stesso, del suo potere discrezionale di ricorrere al fatto notorio, potendo tale doglianza integrare soltanto un vizio di motivazione.
QUESTIONI
[1] La questione centrale attorno cui ruota la decisione sul motivo in esame attiene alla censurabilità, in sede di cassazione, dell’utilizzo del fatto notorio da parte del giudice di merito.
A tal riguardo, la posizione assunta nel provvedimento in commento si allinea a quella assolutamente dominante. Secondo tale orientamente è deducibile, quale error in iudicando ex art. 360, n. 3), c.p.c., per violazione dell’art. 115, secondo comma, c.p.c. e della nozione di notorietà ivi racchiusa, l’ipotesi in cui il giudice, erroneamente, qualifichi come notorio un fatto che, in realtà, notorio non è. Diversa, viceversa, è la censura che voglia investire la scelta stessa del giudice di merito di far ricorso alla notorietà: tale operazione, infatti, attiene all’esercizio di un potere discrezionale allo stesso riservato, il cui esercizio, positivo o negativo, non è sindacabile in sede di legittimità (in giurisprudenza, fra le tante, Cass., 3 marzo 2017, n. 5438; Cass., 29 novembre 2011, n. 25218; Cass., 18 luglio 2011, n. 15715; Cass., 10 settembre 2010, n. 19283; si vis, V. Baroncini, Il regime processuale del fatto notorio, in Riv. dir. proc., 2016, 351 ss.).
Nel caso di specie, i ricorrenti non hanno contestato l’assunzione, da parte delle corti territoriali, di una nozione di fatto notorio errata – e tale, pertanto, da illegittimamente escludere dal novero della notorietà fatti, quali la professionalità e onorabilità di uno dei ricorrenti, da qualificare all’opposto come notori -, bensì la circostanza che, detti giudici, non abbiano ritenuto di considerare tali fatti quali notori e, sulla base di ciò, riconoscere la sussistenza di un danno patrimoniale: tale doglianza, secondo l’orientamento poco sopra ricordato, non può infatti essere fatta valere sub specie di violazione di legge ex art. 360, n 3), c.p.c., bensì esclusivamente tramite le vie del vizio di motivazione, ovviamente laddove tale scelta non appaia adeguatamente argomentata dal giudice di merito.
Sul punto può comunque apparire utile ricordare un diverso orientamento secondo il quale l’errata dichiarazione di notorietà di un fatto equivale all’affermazione dell’esistenza del fatto medesimo sulla base di un mezzo di accertamento palesemente inesistente, con conseguente nullità della sentenza così pronunciata, nullità veicolabile quale motivo di cassazione ex art. 360, n. 4), c.p.c., e dunque come error in iudicando de iure procedendi (sul punto si rinvia a B. Zuffi, sub art. 115, in C. Consolo (diretto da), Codice di procedura civile, Milano 2013, I, 1409).
Come osservato dalla sentenza in commento, il vizio denunciato – ossia, la scelta compiuta dal giudice di merito di non considerare determinati fatti quali notori, e porli a base dell’accertamento del danno subito dagli attori – avrebbe dovuto essere correttamente veicolato nelle forme del vizio motivazionale, ovviamente laddove i giudici territoriali non avessero provveduto ad argomentare esaurientemente tali scelte.
Un’ultima osservazione può essere svolta con riguardo alla sovrapposizione terminologica che il provvedimento, a più riprese, effettua tra fatto notorio e massime di esperienza, nozioni utilizzate quali termini del tutto fungibili. La confusione pare originata dallo stesso tenore dell’art. 115, secondo comma, c.p.c., che fa testuale riferimento non al fatto notorio bensì alle «nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza». Tali due concetti, invero, non paiono perfettamente sovrapponibili, essendo il secondo di essi (le «nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza») idoneo a ricomprendere, oltre ai fatti notori stricto sensu intesi, anche le leggi logiche, scientifiche e naturali universalmente riconosciute, capaci in quanto tali di guidare il processo inferenziale su cui si fonda il ragionamento del giudice, ossia, appunto, le massime di esperienza. Dovrebbe allora risultare più chiara la differenza intercorrente tra le due categorie: le massime di esperienza attengono alla formazione del ragionamento giudiziale – ad esempio, quali regole idonee a fondare il libero convincimento del giudice nella valutazione delle prove a norma dell’art. 116 c.p.c. -, e, come tali, appartengono antropologicamente alle capacità cognitive e intellettuali del giudicante; mentre i fatti notori – cui sono da ricondurre quelli rilevanti nel caso di specie -, ineriscono, all’opposto, all’estensione dei facta probanda.