13 Ottobre 2020

Sul regime della rilevabilità dei vizi conseguenti alla violazione dei divieti di prova testimoniale ex art. 2725 c.c.

di Massimo Montanari, Professore ordinario di Diritto processuale civile e di diritto fallimentare – Università degli Studi di Parma Scarica in PDF

Cass., Sez. Un., 5 agosto 2020, n. 16723 Pres. Mammone – Rel. Scarpa

Procedimento civile – Istruzione probatoria – Contratti per i quali è richiesta la forma scritta ad probationem – Divieto di prova testimoniale – Violazione – Rilevabilità d’ufficio della conseguente nullità – Esclusione (C.C. artt. 1967, 2721, 2725; C.p.c. art. 157)

[1] L’inammissibilità della prova testimoniale di un contratto che deve essere provato per iscritto, ai sensi dell’art. 2725 c.c., comma 1, attenendo alla tutela processuale di interessi privati, non può essere rilevata d’ufficio, ma deve essere eccepita dalla parte interessata prima dell’ammissione del mezzo istruttorio; qualora, nonostante l’eccezione d’inammissibilità, la prova sia stata egualmente assunta, è onere della parte interessata opporne la nullità secondo le modalità dettate dall’art. 157 c.p.c., comma 2, rimanendo la stessa ritualmente acquisita, senza che detta nullità possa più essere fatta valere in sede di impugnazione.

CASO

[1] All’origine del provvedimento in epigrafe è la compravendita di una partita di frutta, che aveva portato all’emissione di due distinte fatture commerciali, una soltanto delle quali regolarmente evasa dall’acquirente. Avverso il decreto ingiuntivo ottenuto da parte venditrice ai fini del saldo dell’altra fattura, era stata, però, proposta opposizione ai sensi dell’art. 645 c.p.c., sfociata nella revoca del contestato provvedimento monitorio sulla base del rilievo di una sopravvenuta risoluzione consensuale del contratto, per effetto della quale l’importo del credito inizialmente vantato dall’ingiungente era stato ridotto in misura corrispondente a quella della fattura dianzi integralmente pagata.

Soccombente nel primo grado del giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, parte creditrice ha visto però riconosciute le proprie ragioni in appello: dove, riqualificata la dedotta fattispecie di risoluzione consensuale del contratto nei termini di un autentico negozio transattivo, come tale  suscettivo di prova solamente per iscritto, giusta le previsioni dell’art. 1967 c.c., s’è concluso nel senso che, dell’accordo che sarebbe intercorso tra le parti in vista della decurtazione del prezzo originariamente pattuito, era mancata la prova, visto che gli accertamenti compiuti al riguardo nella fase di prime cure si erano fondati esclusivamente su deposizioni testimoniali.

La pronuncia è stata fatta oggetto, allora, di ricorso per cassazione, per il cui tramite è stato denunciato, prima di ogni altro, l’errore in cui sarebbe incorsa la Corte di merito nel procedere al rilievo ex officio della nullità e conseguente inutilizzabilità delle prove testimoniali acquisite in primo grado, senza che nessuna doglianza o eccezione, la parte interessata alla loro esclusione, avesse sollevato al riguardo, così al momento dell’ammissione come a quelli della successiva assunzione e della formulazione dei motivi di appello. Ed è stato proprio ravvisando in questa gli estremi della «questione di massima di particolare importanza» ex art. 374, 2° comma, c.p.c., nonché osservando la sussistenza di contrasti, sul punto, a livello della giurisprudenza delle sezioni semplici, che la Seconda Sezione civile, originariamente investita del ricorso, ha ritenuto, con ordinanza interlocutoria 20 dicembre 2019, n. 30244, di disporne la trasmissione al Primo Presidente in vista della rimessione, poi effettivamente avvenuta, alle Sezioni unite.

SOLUZIONE

[1] Nell’occasione che ha dato luogo alla pronuncia in commento, le Sezioni unite sono state chiamate a misurarsi con la tradizionale impostazione sceveratrice in tema di conseguenze della violazione dei divieti di prova testimoniale  relativi ai contratti per i quali la legge impone un vincolo di forma scritta: impostazione ai termini della quale a) laddove quel vincolo sia posto come condizione di validità sostanziale del contratto (forma scritta c.d. ad substantiam o ad sollemnitatem), allora la prova testimoniale indebitamente assunta deve ritenersi affetta da nullità assoluta, rilevabile ex officio in ogni stato e grado del procedimento; b) mentre nei casi in cui, come è per il contratto di transazione,  detto vincolo sia istituito a fini meramente istruttòri (forma scritta ad probationem tantum), deve sempre parlarsi di nullità ma a carattere relativo, rilevabile soltanto a séguito di tempestiva eccezione della parte interessata, nei modi e limiti di cui all’art. 157, 2° comma, c.p.c. (v. spec. Cass., 8 gennaio 2002, n. 144; Cass., 12 maggio 1999, n. 4690; ma cfr. pure Cass., 25 giugno 2014, n. 14470; Cass., 30 marzo 2010, n. 7765; Cass., 20 febbraio 2002, n. 3392; in dottrina, per ogni altro, L.P. Comoglio, Le prove civili, 2a ed., Torino, 2004, 430).

L’esigenza di mobilitare sul punto il supremo consesso è stata avvertita, dalla predetta ordinanza interlocutoria n. 30244/2019, in relazione, soprattutto, alla divergente posizione espressa, in motivazione, da Cass., 14 agosto 2014, n. 17986, ove si è assunto che il consueto approccio dicotomico alla questione, radicato essenzialmente su considerazioni metagiuridiche inerenti alla differente natura degli interessi coinvolti, trascurerebbe il dato della concentrazione della disciplina della prova testimoniale dei contratti per i quali è richiesta la forma scritta all’interno di un’unica norma, quale l’art. 2725 c.c.: norma  il cui tenore testuale sarebbe tale da rendere trasparente l’intento del legislatore di normare in maniera assolutamente sovrapponibile le due fattispecie, visto, in particolare, che la regola, enunciata nel 1° comma con riguardo alle ipotesi di forma scritta richiesta ad substantiam, di apertura alla prova testimoniale nei soli casi di perdita incolpevole del documento contrattuale, si trova identicamente riprodotta a livello del 2° comma, con riferimento alle ipotesi di forma scritta richiesta ad probationem tantum (per l’applicabilità di un regime uniforme ai vizi della prova per testes assunta in violazione dei divieti in discorso, v. anche Cass., 8 marzo 1997, n. 2101; Cass., 23 agosto 1986, n. 5143).

Al supremo organo nomofilattico non è, però, costata un grave sforzo la sconfessione di questa prospettiva ermeneutica alternativa. Agevole, infatti, è stato a quel fine osservare che: aa) se la nullità della prova testimoniale relativa a contratti soggetti al vincolo della forma scritta ad substantiam non è che la proiezione, sul piano processuale, della sanzione di nullità che colpisce, sul piano sostanziale, il contratto per vizio di forma ex art. 1325, n. 4, c.c., così che il regime proprio di questa – in termini di  rilevabilità d’ufficio senza limiti temporali di sorta – abbia necessariamente ad estendersi a quella; bb) la violazione dei precetti di forma scritta ad probationem ha rilevanza meramente processuale e non può produrre conseguenze diverse da quelle che derivano – in termini di comminatoria di una sanzione di nullità relativa e sanabile – dall’inosservanza della restante generalità dei divieti di prova testimoniale, segnatamente, di quelli ex art. 2721 ss. c.c. Ben lungi dal potersi apprezzare soltanto come il portato di considerazioni metagiuridiche inerenti alla differente natura degli interessi coinvolti, la divaricazione dei regimi di nullità di cui si è finora discorso riposerebbe dunque, all’opposto, su un saldo fondamento sistematico e non potrebbe certo essere obliterata in nome di un dato puramente formale come quello per cui, si tratti di forma scritta imposta ad substantiam come ad probationemj tantum, gli afferenti limiti di prova testimoniale si trovano tutti congiuntamente collocati all’interno del medesimo art. 2725 c.c.

Nella logica argomentativa seguita dalle Sezioni unite, che la nullità affettante le prove testimoniali raccolte in spregio alle regole che esigono la forma scritta del contratto solamente ad probationem abbia a ricadere, a differenza di quanto non avviene ove lo scritto sia richiesto ad sollemnitatem, entro l’orbita applicativa dell’art. 157, 2° comma, c.p.c., così da ammetterne il rilievo da parte del giudice soltanto in forza di tempestiva doglianza di parte, si regge chiaramente sul presupposto che sia quella la disciplina che deve ricevere applicazione a fronte della violazione dei comuni divieti della prova per testes. Il supremo consesso ha giudicato opportuno sottoporre a verifica anche questo presupposto: ma le risultanze di tale verifica hanno visto confermati i princìpi tradizionalmente recepiti in materia.

Non solo, infatti, ha ritenuto, la Corte, di non doversi discostare da quel dogma, della natura disponibile dei divieti in questione siccome posti nell’interesse esclusivo delle parti contendenti, in nome del quale si giustifica, a guisa di autentico corollario, la professata applicabilità, nella specie, dell’art. 157, 2° comma, c.p.c.; ma neppure essa Corte è venuta a mettere in discussione il consueto modo di declinare la disciplina ivi racchiusa nelle fattispecie in rassegna, come tale da imporre alla parte, che quei divieti voglia fare proficuamente valere, di opporsi in via preventiva all’ammissione della prova e, qualora la prova sia stata egualmente assunta, di denunciarne la nullità nella prima istanza o difesa successiva, a pena della sanatoria del vizio e dell’impossibilità di dedurlo in sede impugnatoria (cfr. Cass., 15 febbraio 2018, n. 3763; Cass., 19 settembre 2013, n. 21443; Cass., 3 aprile 1999, n. 3287; Cass., 21 ottobre 1993, n. 10433).

Ribadito questo insegnamento e tradottolo in termini consonanti alla regola di inammissibilità della prova testimoniale dei contratti per i quali è sancito l’onere della forma scritta ad probationem tantum, la decisione finale è stata fatalmente di accoglimento del ricorso esperito, con rinvio della controversia alla fase di merito.

QUESTIONI

[1] Quella offerta dalle Sezioni unite al problema della qualificazione, sub specie di nullità assoluta piuttosto che relativa, dei casi di trasgressione delle regole che esigono la somministrazione per iscritto della prova di determinati contratti, si profila chiaramente come soluzione a rime obbligate, nel momento in cui l’organo nomofilattico è venuto a prestare la sua piena (e acritica) adesione all’antico, ma inossidabile, verbo della natura disponibile delle norme limitative della prova testimoniale e della loro non riconducibilità a ragioni di ordine pubblico.

Che l’occasione fosse propizia per una revisione funditus di quel postulato, in consonanza con quanto autorevole dottrina ha da lungi auspicato (v., in particolare, E.T. Liebman, Manuale di diritto processuale civile, Principi, 8a ed., a cura di V. Colesanti ed E. Merlin, Milano, 2012, 384, che con riguardo al divieto della prova testimoniale dei contratti oltrepassanti una certa soglia di valore [art. 2721 c.c.] – ma in termini perfettamente riferibili anche agli altri limiti legali posti all’impiego di quel mezzo istruttorio –, osservava che «le giustificazioni che si danno di solito al divieto [leggi: superiore attendibilità della prova scritta] porterebbero logicamente a ritenerlo inderogabile e il fatto che si giudichi diversamente potrebbe indicare il poco favore che incontra la limitazione posta dalla legge»), era forse illusorio aspettarselo. Ma assodato ciò, e assodata, dunque, l’indole relativa delle nullità derivanti dalla violazione delle regole di cui sopra e dagli altri divieti di prova testimoniale, era lecito almeno sperare in un autonomo riesame, senza vincoli o condizionamenti di sorta da parte della precedente elaborazione giurisprudenziale, del modo in cui correntemente si ritiene che quella nullità debba essere fatta valere.

E invece no, le Sezioni unite hanno riproposto par pari, senza un minimo supplemento di riflessione, la regola, da sempre imperante, del duplice onere di eccezione, dapprima dell’inammissibilità e poi, in quanto egualmente acquisita, della nullità della prova testimoniale raccolta in spregio di uno degli afferenti divieti.

Valutata sotto questo distinto profilo, la sentenza non può non andare incontro a un giudizio critico. Perché è evidente che, nell’eccezione di inammissibilità della prova che sia formulata a monte della sua ammissione, implicita è l’eccezione di nullità della prova cui, a séguito del rigetto di quella prima eccezione, il giudice avesse a dar corso, sì da renderne inutile l’espressa riproposizione nella prima difesa successiva. Né si dica che in questo modo sarebbe pregiudicato l’interesse della parte, originariamente oppostasi alla prova, all’acquisizione della medesima, una volta che ne abbia reputato gli esiti come vantaggiosi (in ordine all’esigenza di tutelare questo interesse, cfr. Cass. n. 21443/2013, cit.), giacché, trattandosi di nullità relativa, nulla impedirebbe alla parte di rinunciare all’eccezione formulata al riguardo, magari astenendosi dal reiterarla all’atto della precisazione delle conclusioni.

La regola giurisprudenziale in discorso si presta ad essere letta anche in una direzione speculare a quella appena considerata, ossia nel senso che a nulla varrebbe sollevare l’eccezione di nullità della prova una volta che questa sia stata esperita, quando ne sia mancata, in precedenza, l’eccezione di inammissibilità. In questi termini si è espressa, in particolare, Cass., 3 aprile 1999, n. 3287, là dove, in motivazione, s’è detto che la prova «deve ritenersi legittimamente acquisita al processo quando sia stata eseguita senza opposizione delle parti». Alla mancata opposizione delle parti all’ammissione della prova si attribuisce, dunque, il significato di tacita rinuncia ad opporne la futura nullità: il che lascia alquanto perplessi, perché, se la legge ammette che la rinuncia ad opporre la nullità di un determinato atto processuale possa risultare anche da comportamenti concludenti (art. 157, 3° comma, c.p.c.), si deve però trattare di comportamenti incompatibili con la volontà di far valere il vizio inficiante l’atto, come non è assolutamente a dirsi nel caso di specie, dove la mancata opposizione all’ammissione della prova  non è certo univocamente ricollegabile all’intento di lasciare aperte le porte del giudizio allo strumento istruttorio in questione (ed invero, per la non desumibilità della rinuncia tacita ex art. 157, 3° comma, c.p.c. da contegni meramente omissivi, cfr. R. Oriani, voce Nullità degli atti processuali. I) Diritto processuale civile, in Enc. giur. Treccani, XXI, Roma, 1990, 12).