Sul discrimine tra violazione di norme di norme di diritto ed errata valutazione della quaestio facti
di Valentina Baroncini, Professore associato di Diritto processuale civile presso l'Università degli Studi di Verona Scarica in PDFCass., sez. lav., 11 dicembre 2024, n. 31910, Pres. Di Paolantonio, Est. Casciaro
[1] Impugnazioni – Ricorso per cassazione – motivi di ricorso – violazione di norme di diritto.
Il vizio di violazione di norme di diritto si verifica quando il provvedimento impugnato consiste in un’erronea ricognizione interpretativa della norma astratta, mentre l’errata valutazione della situazione concreta è una questione di valutazione del giudice di merito censurabile, in sede di legittimità, per vizio di motivazione. La differenza tra le due ipotesi è che solo la seconda è influenzata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa.
CASO
[1] Un medico chirurgo proponeva avverso l’ASL di Frosinone domanda di cessazione delle condotte illecite e vessatorie da lui subite, con correlato demansionamento e dequalificazione, e conseguente condanna al risarcimento del danno, patrimoniale e non, patito a causa delle medesime.
In particolare, l’attore denunciava: i) la sistematica esclusione dalle liste dei chirurghi di sala operatoria, dove veniva incluso saltuariamente e come secondo o terzo operatore; ii) l’impiego come primo operatore soltanto in interventi chirurgici di scarsa o media difficoltà o in interventi di piccola chirurgia ambulatoriale; iii) l’esclusione dalle liste operatorie nei giorni di programmazione straordinaria di interventi di elezione con assegnazione continua ad attività extra-operatorie nelle medesime giornate; iv) l’assegnazione a turni di pronta disponibilità notturna come primo operatore in media una volta a mese e della costante assegnazione al turno di reperibilità pomeridiano dove di rado si verificavano interventi in urgenza.
L’adito Tribunale di Cassino accoglieva la domanda attorea e, per l’effetto, accertata l’illegittimità del comportamento mobbizzante tenuto dalla ASL di Frosinone condannava quest’ultima al risarcimento del danno patrimoniale da dequalificazione professionale subito dall’attore, nonché al risarcimento del danno non patrimoniale patito dal medesimo.
La decisione veniva impugnata dall’ASL convenuta dinanzi alla Corte d’Appello di Roma la quale, in integrale riforma della pronuncia di primo grado, e poggiando su alcuni principi affermati da Cass., 2 marzo 2018, n. 4986, rigettava integralmente le domande attoree.
In particolare, la Corte di merito escludeva, sulla scorta delle risultanze istruttorie, che vi fosse stata una esclusione mirata dell’attore dagli interventi chirurgici, essendosi piuttosto verificata una distribuzione non paritaria degli stessi tra tutti i medici in servizio (avendo il primario sostanzialmente privilegiato nella programmazione degli interventi i componenti che avevano lavorato con lui nel reparto da cui proveniva). Inoltre, rilevava che i prospetti riepilogativi e le tabelle prodotte dall’attore attestassero una frequenza di interventi idonea a escludere che lo stesso avesse eseguito un numero di interventi nettamente inferiore rispetto a quello che gli sarebbe spettato se gli interventi medesimi fossero stati ripartiti in modo paritario fra tutti i medici in servizio. Da ultimo, non riteneva emergere né una volontà di emarginazione dell’attore, ma semmai di favoreggiamento di alcuni medici, né un demansionamento nell’assegnazione di altri compiti rientranti nel suo bagaglio di conoscenze specialistiche.
Avverso la decisione di secondo grado l’attore proponeva ricorso per cassazione fondato su due motivi, ritenuti entrambi inammissibili, nella loro formulazione, dalla Suprema Corte.
Con il primo motivo l’attore ha denunciato, ai sensi dell’art. 360, n. 3), c.p.c., la violazione degli artt. 2087 e 2103, 1°co., c.c., 63 del d.P.R. n. 761/1979, 15 del d.lgs. n. 502/1992, 2 del d.lgs. n. 165/2001, 7 e 17 del c.c.n.l. Area Dirigenza Medico-Veterinaria del S.S.N. del 3.11.2005 e 7 c.c.n.l. Area Dirigenza Medico-Veterinaria del S.S.N. del 17.10.2008. In particolare, il ricorrente, evidenziato che lo stesso giudice d’appello aveva ritenuto provata la sottoutilizzazione del ricorrente nonché la mancanza di trasparenza nella assegnazione degli incarichi, ha assunto che detti elementi dovessero portare a ritenere illecita la condotta e a ravvisare nei fatti quanto meno un demansionamento professionale; ha inoltre osservato che la liceità della condotta non poteva essere affermata comparando la propria posizione con quella dei dirigenti parimenti demansionati; ha rilevato, infine, che l’attività operatoria fosse il momento più qualificante del lavoro del chirurgo e ciò potesse essere ritenuto fatto notorio, con la conseguenza che non poteva essere esclusa l’ingiustificata mortificazione della professionalità del dirigente che dalla attività operatoria era stato arbitrariamente escluso.
Con il secondo motivo di ricorso, il ricorrente ha denunciato, ai sensi dell’art. 360, n. 5), c.p.c., omesso esame circa un fatto o punto decisivo della controversia oggetto di discussione fra le parti, rilevabile nel ragionamento e nell’iter logico-giuridico seguito dal giudice d’appello che non avrebbe considerato le risultanze dei registri di sala operatoria e delle tabelle riepilogative degli interventi chirurgici eseguiti dal ricorrente come primo e secondo operatore; le tabelle allegate, prosegue il ricorrente, erano state definite dalla Corte territoriale “poco significative ai fini che ora interessano” con l’inconsistente spiegazione che non riportavano le percentuali degli interventi eseguiti da tutti gli altri medici in servizio; così opinando, la Corte territoriale avrebbe ignorato la “misera e mortificante media annua rispettivamente di n. 1 intervento importante, di n. 20 interventi di media difficoltà e di n. 13 interventi semplici”, con un media di interventi di molto inferiore a quella generale di 87 pro capite contro i soli 37 pro capite del ricorrente.
SOLUZIONE
[1] La Suprema Corte, come anticipato, ha dichiarato inammissibili entrambi i motivi di ricorso proposti.
In relazione al primo motivo, la Cassazione rileva come nella specie, il ricorrente, pur denunciando nella rubrica la violazione di plurime disposizioni di legge e contrattuali, nella sostanza mirasse a censurare la ricostruzione fattuale compiuta dal giudice del merito che, preso atto dei principi enunciati, sulla base di quel quadro normativo, da Cass. n. 4986 del 2018, ha escluso che nel caso in esame ricorressero, in concreto, le condizioni richieste per la tutela risarcitoria. Sempre richiamando la pronuncia di Cass. n. 4986 del 2018, la Corte distrettuale ha rilevato che nell’impiego pubblico contrattualizzato non trova applicazione per la dirigenza medica l’art. 2103 c.c., perché gli incarichi dirigenziali, in quanto ritenuti dal legislatore equivalenti esprimono la medesima professionalità, sicché il dirigente medico non ha un diritto soggettivo a svolgere interventi qualitativamente e quantitativamente equivalenti a quelli affidati ad altri dirigenti della medesima struttura né a quelli da lui svolti in passato, fermo restando che lo stesso non può essere lasciato in una condizione di sostanziale inattività né assegnato a svolgere funzioni che esulino del tutto dal bagaglio di conoscenze specialistiche posseduto (Cass., 7 ottobre 2013, n. 22789; Cass., 20 aprile 2022, n. 12623); nella specie, le scelte aziendali erano state condizionate, secondo i giudici di secondo grado, da una maggior fiducia, derivante da antica consuetudine professionale, nei confronti di alcuni dei medici del reparto, e non anche da volontà di mortificare la personalità dell’attore, che, comunque impiegato in attività ambulatoriale, di guardia medica e anche chirurgica, non era rimasto in uno stato di inattività né assegnato a funzioni svilenti il suo bagaglio di conoscenze specialistiche. La Cassazione riconosce, peraltro, che la motivazione del provvedimento di seconde cure si rivela in un singolo passaggio ambigua, ma il ricorrente, a tal riguardo, ha omesso di formulare un’espressa censura ex artt. 360, n. 4), e 132, c.p.c., denunciante vizio di motivazione.
In relazione al secondo motivo, la Cassazione evidenzia come la sua stessa formulazione lasci trapelare che il giudice d’appello abbia preso in esame il fatto (frequenza e importanza degli interventi chirurgici) attribuendo ad esso una lettura differente rispetto a quella propugnata dal ricorrente, il che colloca la censura sul piano dell’apprezzamento fattuale rientrante nel dominio esclusivo del giudice del merito.
QUESTIONI
[1] La questione affrontata dalla Cassazione attiene, sostanzialmente, alla definizione del discrimine intercorrente tra la violazione delle norme di diritto e la censura della ricostruzione di fatto operata dal giudice di merito.
Tale questione è stata affrontata nella soluzione del primo motivo di ricorso, proposto a norma dell’art. 360, n. 3), c.p.c.
È opportuno ricordare che tale norma consente di impugnare per cassazione le sentenze pronunciate in grado d’appello o in unico grado per violazione o falsa applicazione di norme di diritto, oltreché (come avvenuto nel caso di specie) dei contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro.
Con maggiore precisione, mediante tale motivo è possibile censurare la soluzione che il giudice di merito ha dato alla questione di diritto riguardante il rapporto giuridico oggetto del processo, essendo possibile lamentare ogni possibile tipo di errore giuridico. In particolare, le espressioni violazione o falsa applicazione di norme di diritto, utilizzate dalla norma in discorso, descrivono i due momenti in cui si articola il giudizio di diritto effettuato dal giudice di merito, ossia, da un lato, la ricerca e l’interpretazione della norma regolatrice del caso concreto e, dall’altro, l’applicazione della norma stessa al caso concreto, una volta correttamente individuata e interpretata. In relazione al primo momento, il vizio (violazione di legge) si identifica nella erronea negazione o affermazione dell’esistenza o inesistenza di una norma di legge o nell’attribuzione alla stessa di un contenuto che non attiene alla fattispecie in essa delineata; con riguardo al secondo momento, il vizio (falsa applicazione di legge) si risolve o nel sussumere la fattispecie concreta sotto una norma non idonea a regolarla, ovvero nel trarre dalla norma applicata conseguenze giuridiche che contraddicono la sua corretta interpretazione (sul punto, M. De Cristofaro, sub art. 360 c.p.c., in C. Consolo (diretto da), Codice di procedura civile. Commentario, Milano, 2018, II, 1480).
In ogni caso, è preclusa alla Suprema Corte la possibilità di valutare la corretta soluzione data dal giudice del merito alle questioni di fatto, fatte salve le ipotesi di denuncia di inadeguatezza della motivazione del provvedimento impugnato.
In relazione a tale aspetto, la Suprema Corte ha correttamente ricordato che il vizio di violazione di norme di diritto consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie normativa astratta e, quindi, implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di una errata ricostruzione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione, ma nei limiti fissati dalla disciplina applicabile ratione temporis; il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi è segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (tra le tante, Cass., 12 settembre 2016, n. 17921; Cass., 11 gennaio 2016, n. 195; Cass., 30 dicembre 2015, n. 26110).
Decidendo il secondo motivo di ricorso proposto, la Cassazione ricorda, poi, che l’art. 360, n. 5), c.p.c., nel testo ratione temporis applicabile, risultante dalle modifiche apportate dal d.lgs. n. 40/2006, consente di denunciare in sede di legittimità l’omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un “fatto controverso e decisivo per il giudizio”, che si differenzia dal “punto” perché riguarda un fatto vero e proprio e, quindi, un fatto principale, ex art. 2697 c.c. (cioè costitutivo, modificativo, impeditivo o estintivo) o anche un fatto secondario (cioè un fatto dedotto in funzione di prova di un fatto principale), purché controverso e decisivo (in tal senso Cass., 8 settembre 2016, n. 17761); conseguentemente, non è possibile invocare il controllo sulla motivazione, consentito dal richiamato art. 360, n. 5), c.p.c., per sollecitare la Corte a un’autonoma propria valutazione delle risultanze degli atti di causa, perché l’esame delle prove, la decisione sull’attendibilità e la concludenza delle stesse, la scelta fra le risultanze probatorie di quelle ritenute più idonee a dimostrare i fatti in discussione sono riservati al giudice del merito e il giudice di legittimità non può effettuare una revisione del ragionamento decisorio, posto che il potere conferitogli dal legislatore si arresta qualora il fatto, nel senso sopra indicato, sia stato preso in esame e la motivazione sia priva di aspetti di incoerenza e di illogicità.
Centro Studi Forense - Euroconference consiglia