Sul contrasto insanabile fra motivazione e dispositivo nel rito del lavoro
di Michele Ciccarè Scarica in PDFCass., Sez. VI, 15 settembre 2016, n. 18134
Impugnazioni civili – condizioni dell’impugnazione – interesse ad impugnare – soccombenza sulla sola base del dispositivo in materia di lavoro – sussistenza (C.p.c.: art. 100; 429; 430)
Impugnazioni civili – ricorso per cassazione – contrasto insanabile fra motivazione e dispositivo – errore materiale sentenza – esclusione – nullità della sentenza ex art. 360 n. 4 c.p.c. – sussistenza (C.p.c.: art. 156, 161, 287, 360)
[1] Il soggetto interessato ad impugnare la decisione è esclusivamente colui che, sulla base del dispositivo, risulta formalmente soccombente (fattispecie in cui si lamentava un contrasto insanabile fra motivazione e dispositivo).
[2] Il contrasto fra motivazione e dispositivo, quando è tale da non rendere identificabile la reale portata del provvedimento, costituisce causa di nullità della sentenza da farsi valere con gli ordinari mezzi d’impugnazione (nel caso di specie, ai sensi dell’art. 360, n. 4, c.p.c.).
CASO
[1] [2] Veniva instaurata una controversia in materia di lavoro fra il DRAFD di Messina ed alcuni suoi dipendenti.
L’Ente, rimasto soccombente in primo grado, proponeva appello; ad ogni modo, quest’ultimo veniva rigettato sulla base del dispositivo.
Veniva dunque avanzato dal DRAFD un motivo di ricorso per cassazione ex art. 360, n. 4, c.p.c., sostenendo la nullità della sentenza d’appello per contrasto insanabile fra motivazione e dispositivo. Nello specifico, il ricorrente affermava che, nonostante il dispositivo formalmente sfavorevole, la motivazione dei giudici di gravame accoglieva interamente le ragioni dell’appellante.
SOLUZIONE
[1] Innanzitutto, i giudici di legittimità chiariscono che, nei casi in cui venga censurato un contrasto insanabile fra motivazione e dispositivo nel rito del lavoro, l’impugnazione principale può essere proposta soltanto dal soggetto formalmente soccombente sulla base della statuizione, a prescindere dal tenore delle argomentazioni utilizzate nella motivazione successivamente depositata dal giudice.
[2] Ciò chiarito, la Suprema Corte accoglie per manifesta fondatezza il suddetto motivo di ricorso, rinviando la causa alla Corte di appello di Messina, in diversa composizione.
Rilevano i giudici di legittimità che dalla lettura della sentenza oggetto di impugnazione, non è consentito individuare l’effettiva portata della statuizione del giudice, in quanto il contrasto fra motivazione e dispositivo può definirsi irriducibile alla luce della complessiva interpretazione del provvedimento.
QUESTIONI
[1] La posizione della Suprema Corte su tale questione preliminare è espressione dell’orientamento assolutamente dominante in materia di lavoro.
Infatti, è stato chiarito come nei casi di contrasto fra motivazione e dispositivo, la mancata impugnazione della sentenza nei termini comporta il passaggio in giudicato delle statuizioni contenute nel dispositivo, il quale, acquistando pubblicità con la lettura in udienza ex art. 429 c.p.c., cristallizza la tutela giurisdizionale esercitata ed è idoneo a prevalere sulle motivazioni depositate in seguito ex art. 430 c.p.c.
Da tali rilievi, discende dunque che l’interesse ad impugnare la decisione spetta unicamente alla parte la cui domanda risulta formalmente rigettata in dispositivo, in quanto solo in capo ad essa conseguirebbero gli effetti pregiudizievoli del passaggio in giudicato della sentenza (così, ex multis, Cass., 20 maggio 2016, n. 10453; Cass., 16 luglio 2015, n. 14899; Cass., 12 febbraio 2015, n. 2818; Cass., 27 giugno 2012, n. 10747; Cass., 3 giugno 2010, n. 13484; Cass., 21 giugno 2005, n. 13325; Cass., 8 novembre 2001 n. 13839; Cass., 14 giugno 1990, n. 5794).
[2] Il dictum della Suprema Corte su tale seconda questione si pone in armonia con l’orientamento giurisprudenziale dominante, stando al quale il vizio è integrato quando risulta oggettivamente impossibile individuare il concreto comando giudiziale, per assoluto contrasto fra parte motiva e dispositiva del provvedimento (così Cass., 11 luglio 2014, n. 15990; Cass., 23 maggio 2011, n. 11299; Cass., 23 maggio 2011, n. 11299; Cass., 17 dicembre 2008, n. 29490; Cass., 2 luglio 2007 n. 14966).
Nello specifico, tali ipotesi non costituiscono né causa d’inesistenza della decisione emanata, né errori soggetti a correzione ex art. 287 c.p.c., bensì fattispecie di nullità ex art. 156, co. 2, c.p.c. (recentemente Cass., 12 febbraio 2015, n. 2818; già in passato, Cass., 6 novembre 2002, n. 15586; Cass., 6 aprile 2000, n. 4304; Cass., 18 febbraio 1998, n. 1733). per cui tale vizio di nullità
Viceversa, qualora sussista una sostanziale coerenza fra motivazione e dispositivo, risultando evidente la presenza di discrasie dovute ad errore meramente materiale (ad esempio, sul quantum liquidato o sull’intestazione delle parti), il procedimento d’impugnazione diviene inammissibile, dovendo la parte interessata richiedere la correzione dell’errore ex art. 287 c.p.c. (così Cass., 4 febbraio 2000, n. 1255).