Sui rimedi esperibili in caso di omessa liquidazione delle spese nel dispositivo
di Enrico Picozzi Scarica in PDFIl presente contributo dà conto del contrasto, rilevato dalla Seconda Sezione e la cui soluzione è stata rimessa alle Sezioni Unite, relativo ai rimedi di cui la parte può avvalersi per colmare l’omessa liquidazione delle spese nel dispositivo della pronuncia.
- La questione processuale sollevata da Cass., sez. II, 11 settembre 2017, n. 21048
Con l’ordinanza n. 21048 dell’11 settembre 2017, la Seconda Sezione della Suprema Corte torna ad occuparsi della problematica riguardante l’individuazione del giusto mezzo da utilizzare per colmare l’omessa liquidazione delle spese in dispositivo, richiedendo al Primo Presidente di valutare l’opportunità di una pronuncia a Sezioni Unite sulla questione. Sul punto, infatti, il Collegio dà atto dell’esistenza di un contrasto, che può così riassumersi: da un lato, stando ad un primo filone di pronunce (cfr. Cass., sez. I, 7 ottobre 2014, n. 21109; Cass., sez. III, 29 luglio 2014, n. 17221; Cass., sez. III, 19 febbraio 2013, n. 4021), la mancata determinazione delle spese nel dispositivo della sentenza integrerebbe una violazione del principio di cui all’art. 112 c.p.c., rimediabile solamente attraverso l’esperimento dei mezzi di impugnazione. Dall’altro lato, invece, seguendo una più articolata posizione giurisprudenziale (cfr. Cass., sez. VI-2, 27 luglio 2016, n. 15650; Cass., sez. II, 24 luglio 2014, n. 16959, annotata adesivamente da A. Carrato, in Corr. giur., 2015, 674 e ss.), l’omissione giudiziale sarebbe emendabile per via del più celere procedimento di correzione degli errori materiali, ogniqualvolta la stessa venga a coincidere con una statuizione a carattere normativamente obbligato, in quanto conseguenza di una volontà, già formata ed espressa nella parte motiva del provvedimento, che lascerebbe ben pochi spazi alla discrezionalità del giudice. Si pensi, ad esempio, al tipico caso in cui questi, dopo aver chiarito che le spese vanno accollate alla parte totalmente soccombente, ometta, per mera dimenticanza, di provvedervi oppure vi provveda solamente in parte, liquidando le spese ed i diritti del difensore, ma non anche i suoi onorari (per quest’ultimo caso, cfr. Cass., sez. I, 4 settembre 2009, n. 19229).
- L’omessa pronuncia sull’istanza di distrazione ex art. 93 c.p.c.
Ad uno sguardo più attento, gli orientamenti appena descritti non esprimono un vero e proprio contrasto, disponendo gli stessi di autonomi e differenti campi di applicazione. In questa direzione e muovendo dalla premesse accolte dalla posizione favorevole all’ammissibilità del procedimento di correzione, sembra possibile scorgere una serie di casi, nei quali il ricorso ai mezzi di impugnazione, per rimediare all’omessa regolamentazione delle spese, si rivelerebbe eccessivamente dispendioso.
Anzitutto, si pensi all’ipotesi in cui il giudice tralasci involontariamente di disporre la distrazione delle spese invocata dal difensore della parte vittoriosa (cfr. Cass., S.U., 7 luglio 2010, n. 16037, annotata da A. Carrato, in Corr. giur., 2010, 1168 e ss.).
La fattispecie, a ben vedere, si presta ad un duplice ordine di distinzioni: aa) il giudice, pur mancando di pronuciarsi sul punto, ben potrebbe aver espresso parere favorevole all’istanza de qua, all’interno della motivazione; bb) il giudice, d’altra parte, potrebbe pure non avervi fatto alcun riferimento. In entrambi i casi, ad ogni modo, l’interposizione dei mezzi di impugnazione per rimediare alla lacuna parrebbe ultronea, giacchè la statuizione giudiziale sulla richiesta di distrazione si configura anch’essa come pronuncia normativamente obbligata, sottratta a qualunque forma di sindacato giudiziale (salva la previsione di cui all’art. 93, co. 2, c.p.c.).
Ad analoghe conclusioni, sembra inoltre potersi pervenire pure rispetto all’ipotesi in cui il giudice abbia rigettato l’istanza di distrazione (cfr. Cass. sez. III, 30 gennaio 2012, n. 1301) oppure abbia liquidato le spese a favore della parte risultata vittoriosa e non del suo difensore antistatario. A fronte di queste due ultime eventualità, infatti, la sostanza delle cose non sembra destinata a mutare: il giudice deve semplicemente limitarsi ad accertare se sussiste o meno la richiesta in discorso, contenente la dichiarazione di aver anticipato le spese e non riscosso l’onorario. Se quest’ultimo presupposto ricorre, il non aver disposto la distrazione configura una mera svista materiale e non un vizio di attività o di giudizio, essendo la relativa pronuncia presidiata da una sorta di “vincolo di accoglimento” (tesi già autorevolmente avanzata da S. Satta, in Commentario al Codice di Procedura Civile, I, 1969, 313 e ss.).
2.1 (Segue) Altri casi di omissione rimediabili in via di correzione
Al fine di meglio intendere quanto si è venuti esponendo nell’ambito del precedente paragrafo, si può indicare un’ulteriore fattispecie di applicazione del procedimento di correzione in luogo degli ordinari mezzi di impugnazione, ovvero quella concernente l’omessa statuizione sulla domanda di restituzione di quanto versato in adempimento della sentenza di primo grado, poi riformata in appello (cfr. Cass., sez. I, 12 febbraio 2016, n. 2819, annotata da F. Godio, in Corr. giur., 2016, 993 e ss.).
L’ipotesi, seppur oggettivamente distinta da quelle più sopra esaminate, sembrerebbe potersi risolvere sulla base del medesimo percorso logico giuridico.
Più distesamente, la situazione cui si fa riferimento è quella in cui il giudice, dopo aver integralmente riformato il provvedimento di prime cure, tralasci di pronunciarsi sulla consequenziale domanda di restituzione, sebbene la parte vittoriosa abbia allegato di aver pagato la somma e/o adempiuto la prestazione, per cui in origine era stata condannata. Ma, per contiguità di fattispecie, si pensi pure al caso in cui il giudice, dopo aver rigettato la domanda oppure aver dichiarato estinto il processo per rinuncia o per inattività, non disponga la cancellazione della trascrizione della domanda giudiziale ex art. 2668, co. 2, c.c. (Cass. sez. VI-2, 19 gennaio 2015, n. 730; Cass., sez. VI-3, 30 maggio 2013, n. 13715). Ora, se si volge l’attenzione alla natura delle pronunce omesse, non si può non intravedere nella stesse i caratteri che, in precedenza, si è visto appartenere all’omessa liquidazione delle spese nel dispositivo come pure alla mancata pronuncia sull’istanza di distrazione. Si tratta, in altre parole, di statuizioni obbligate, a carattere necessitato, che sfuggono a qualsiasi valutazione discrezionale del giudice e che trovano nell’accoglimento dell’impugnazione, l’una, e nella reiezione della domanda giudiziale, l’altra, il loro antecedente logico (così Cass. 730/2015, cit.).
Sulla scorta di queste premesse, allora, il ricorso ai mezzi di impugnazione per colmare la lacune in discorso si rivelerebbe davvero sproporzionato rispetto al fine concretamente perseguito, vale a dire quello di integrare la sentenza emessa con una statuizione dal contenuto vincolante, che non attribuisce alcun margine di apprezzamento al giudice: a questo limitato e circoscritto scopo, infatti, meglio si presta il più snello ed economico procedimento di correzione, attesa, da un lato, la sua peculiare natura e, dall’altro lato, la singolare attività, non propriamente giurisdizionale ma recte amministrativa (sul punto, cfr. C. Consolo, Spiegazioni di diritto processuale civile, Vol. II, 2014, 242 e ss.), che è chiamato a svolgere lo stesso giudice della correzione.
- Una possibile soluzione al contrasto prospettato dalla Seconda Sezione
Le fattispecie da ultimo esaminate e le relative soluzioni adottate – riconducibili alla più articolata posizione giurisprudenziale di cui si è già dato conto nell’ambito del paragrafo 1) – consentono di svolgere una prima conclusione circa l’effettivo campo di applicazione del procedimento di correzione degli errori materiali.
Tradizionalmente, infatti, tale campo viene ad involgere quegli errori che danno luogo ad un mero lapsus calami, ovvero ad una difformità tra quanto voluto e deciso dal giudice e quanto poi esteriorizzato nel provvedimento finale (in tema, v. funditus M. Acone, voce Correzione ed integrazione dei provvedimenti del giudice, in Enc. giur., IX, Roma, 1988). Ora, la rapida diffusione del nuovo orientamento (i cui echi, invero, risalgono a Cass. pen., sez. un., 21 febbraio 2008, n. 7945) sembra destinata a determinare una dilatazione di quello spazio applicativo, giacché si viene a ricomprendere nella più ampia nozione di errore materiale anche quelle ipotesi di omissioni riguardanti statuizioni, per così dire, obbligate: con la conseguenza che, in tali evenienze il procedimento di correzione assolve ad una funzione eminentemente integrativa.
Di contro, invece, i mezzi di impugnazione ordinari sono messi a disposizione della parte soccombente al precipuo fine di porre rimedio a vizi sostanziali che vengano a riguardare la corretta formazione della volontà decisoria del giudice – siano essi errori di attività o di giudizio – e non meramente formali, come altresì accade nei casi che giustificano il ricorso allo strumento della correzione.
Sulla base di tale distinguo, dunque, e alla luce delle considerazioni più sopra svolte, si auspica che le Sezioni Unite, investite della questione prospettata dall’ordinanza n. 21048, possano ricondurre l’omessa liquidazione delle spese nel dispositivo nell’alveo di quelle sviste e/o dimenticanze giudiziali rimediabili unicamente con il meccanismo della correzione integrativa: ciò, oltre ad essere più coerente con le finalità proprie dei mezzi di impugnazione, garantisce pure un’effettiva attuazione al fondamentale principio della durata ragionevole del processo.
- Situazioni problematiche
La soluzione auspicata, in relazione alla concreta fattispecie sottoposta al vaglio della Seconda Sezione (omessa liquidazione delle spese nel dispositivo, sebbene in motivazione il giudice abbia espresso la propria volontà di porle a carico della parte integralmente soccombente), risulta, a ben vedere, piuttosto agevole.
In altre situazioni, invece, la linea di confine fra correzione integrativa ed esperimento dei mezzi di impugnazione pare meno intuitiva e più dubbia.
Anzitutto, si pensi al caso in cui (v. C. Consolo, Postilla, in Corr. giur., 2015, 680), il provvedimento – pur statuendo la soccombenza integrale di una parte – ometta qualsiasi riferimento alla regolamentazione delle spese tanto nel dispositivo quanto nella parte motiva: in tale evenienza, come autorevolmente rilevato (v. C. Consolo, op. cit., 680), si potrebbe fare applicazione del principio generale victus victori e quindi seguire la più celere via della correzione per quantificare l’ammontare delle spese. Via che sembrerebbe, altresì, difficilmente percorribile nel caso di soccombenza reciproca, specie nell’ipotesi in cui la stessa non sia quantitativamente equipollente (su questa fattispecie, v., di nuovo, C. Consolo, op. cit., 680).
Ma potrebbe pure accadere che la disciplina delle spese di lite non trovi un regime consonante fra motivazione e dispositivo (cfr. Cass., sez. un., 13 maggio 2013, n. 11348, annotata da A. Carrato, in Corr. Giur., 2014, 268 e ss.): in siffatta ipotesi, la scelta del mezzo da esperire verrebbe essenzialmente a dipendere dalla natura del contrasto (sanabile o insanabile) fra la parte volitiva e quella argomentativa della pronuncia.
Più precisamente, nel caso di contrasto sanabile il rimedio da prediligere per rettificare la contraddizione che infirma la sentenza sarebbe quello del procedimento di correzione: a tal proposito, si pensi al caso in cui, il giudice, dopo aver rilevato, nella motivazione, che le spese processuali seguono la soccombenza, confonde, nel dispositivo, il nome delle parti ed accolla le stesse a quella uscita vittoriosa dal processo (cfr. Cass., sez. VI-2, 12 settembre 2012, n. 15321). In tale fattispecie, al pari di quelle già analizzate nel corso dei precedenti paragrafi, l’esperimento dell’impugnazione parrebbe veramente eccessivo, giacché in definitiva si tratta di porre rimedio ad un mero lapsus calami.
A distinte conclusioni, invece, deve pervenirsi nel caso di contrasto insanabile, poiché la fattispecie in discorso sarebbe da ricondurre nell’ambito dei vizi di attività, con la conseguenza che la parte interessata è tenuta a proporre impugnazione per porre rimedio all’errore ed al giudice del gravame spetta altresì il compito di interpretare l’effettiva portata del decisum e statuire coerentemente sulle spese di lite (cfr. Cass., sez. un. 1 aprile 1999, n. 209; Cass., sez. I, 11 giugno 1992, n. 7173). Peraltro, proprio in relazione a quest’ultima situazione, va rilevato che, ove il contrasto insanabile venisse ad involgere una sentenza di legittimità, l’assenza di uno specifico mezzo per censurare l’errore, da un lato, e la preclusione ad azionare lo strumento di cui all’art. 391 bis, dall’altro, finirebbe coll’investire il giudice dell’esecuzione del compito di interpretare il titolo azionato (così Cass., sez. un., 11348/2013, cit.; Cass., sez. un., 23 dicembre 2009, n. 27218).