14 Gennaio 2025

Sui presupposti per la revoca di donazione per ingratitudine in caso di convivenza more uxorio

di Matteo Ramponi, Avvocato Scarica in PDF

Cassazione Civile, Sezione 2, ordinanza n. 32682 del 16 dicembre 2024 

Donazione – Revoca per ingratitudine – Ingiuria grave – Sussistenza dei requisiti – Rapporti tra conviventi – Comportamento del donatario – Art. 801 c.c.

” Ancorché l’assenza di un vincolo matrimoniale attenui il dovere di fedeltà tra conviventi, ed anche a voler reputare lecita la condotta del convivente che decida di intraprendere una nuova relazione, la liceità di tale condotta non esime però dal dovere compiere una valutazione complessiva del comportamento tenuto onde apprezzare le modalità con le quali tale nuova relazione sia stata poi portata alla luce, considerando altresì anche le ulteriori condotte dalle quali possa ricavarsi un contegno irriguardoso nei confronti del donante, in avversione al sentimento di rispetto che deve invece connotare i rapporti tra donante e donatario*”.

*Massima redazionale 

Disposizioni applicate Articolo 801 cod. civ.

[1] Tizio adiva il tribunale illustrando che lui e Caia avevano intrattenuto una lunga relazione, sfociata in una convivenza nel corso della quale egli aveva donato alla convivente un immobile adibito ad abitazione comune. Precisava che, pochi giorni dopo la stipula dell’atto donativo, veniva ad apprendere che Caia era da tempo impegnata in una parallela relazione sentimentale con altro uomo. Tizio era stato, quindi, invitato a lasciare il bene oggetto di donazione e, poco dopo, la relazione di Caia con l’altro soggetto diveniva di domino pubblico in quanto gli stessi avevano iniziato a frequentarsi anche all’interno del predetto immobile.

In ragione dei fatti esposti, Tizio chiedeva che il Giudice adito pronunciasse la revocazione per ingratitudine della donazione immobiliare.

Se il giudice di primo grado respingeva la domanda, la Corte d’Appello accoglieva il gravame proposto da Tizio e per l’effetto revocava la donazione immobiliare. Contestando la decisione di primo grado, la Corte riteneva che la complessiva valutazione della condotta di Caia deponesse per la realizzazione di un’ingratitudine esteriorizzata tale da ferire la dignità del donante. La situazione di crisi della coppia, l’avere taciuto l’esistenza della relazione e l’intento di porre fine al vecchio legame, dimostravano come la condotta della convenuta fosse premeditata al fine di conseguire la liberalità, senza però avere nutrito alcun sentimento di riconoscenza.

In tal senso deponeva, tra l’altro, il fatto che la convenuta si era in precedenza recata dal notaio che aveva poi stipulato la donazione, al fine di informarsi circa la possibilità di poter liberamente rivendere il bene donato, atteggiamento questo che deponeva per la preordinata volontà di porre termine alla relazione con Tizio.

Sebbene, per l’assenza di un vincolo matrimoniale, non sussistesse un rigido dovere di fedeltà, Caia avrebbe dovuto previamente mettere al corrente il compagno della volontà di porre fine alla relazione, volontà che è stata però manifestata appena due giorni dopo la donazione, con una condotta che denotava una profonda mancanza di rispetto della dignità del donante.

La circostanza che la casa fosse stata ab origine acquistata per ospitare un progetto di vita condiviso faceva poi sì che la presenza nell’appartamento del nuovo compagno di Caia, dopo appena un mese dall’interruzione della relazione, costituisse un’offesa al decoro del donante.

[2] Caia proponeva ricorso in Cassazione, evidenziando, in primis, come, ai sensi della legge n. 76/2016, la convivenza presuppone che entrambe le persone siano libere da precedenti vincoli matrimoniali, così che, poiché Tizio era ancora coniugato, nella specie si era in presenza di un vincolo di carattere meramente preparatorio. Lamentava che nella fattispecie l’ingiuria grave fosse stata ravvisata dal giudice di secondo grado nella sola instaurazione di una nuova relazione da parte di Caia, trascurandosi che invece nella fattispecie tra le due parti in causa vi fosse una mera coabitazione.

Inoltre, la sentenza impugnata ha ritenuto che la donazione non si configurasse quale atto doveroso, trascurandosi che la stessa si poneva come una sorta di compenso per il fatto che la coabitazione si fosse protratta sebbene Tizio non si fosse mai liberato dal precedente vincolo matrimoniale.

L’assenza di una valida convivenza non avrebbe consentito, quindi, di attribuire il valore di ingiuria grave alla relazione della ricorrente, il che inficiava l’intero impianto argomentativo della decisione gravata.

A giudizio della Suprema Corte, “il motivo è evidentemente privo di fondamento”, posto che la ricorrente stessa non aveva negato l’esistenza ed il perdurare del rapporto di convivenza, limitandosi “ad addebitare all’ex compagno la scelta di non liberarsi dal precedente vincolo coniugale”.

[3] Acclarata, dunque, l’esistenza di un rapporto di convivenza di fatto, gli Ermellini approfondiscono le implicazioni che da tale rapporto possono scaturire in merito alle ipotesi di ingratitudine ex art. 801 cod. civ..

Affermano, quindi, che “i doveri di solidarietà reciproca che scaturiscono dalla convivenza di fatto, sebbene connotati da una non coercibilità e da una minore vincolatività, si impongono e soprattutto non escludono che la condotta del convivente possa risultare compromissoria della dignità morale del convivente”.

Come già in altre occasioni affermato, la Cassazione ribadisce che “l’ingiuria grave richiesta, ex art. 801 c.c., quale presupposto necessario per la revocabilità di una donazione per ingratitudine (…) si caratterizza per la manifestazione esteriorizzata, ossia resa palese ai terzi, mediante il comportamento del donatario, di un durevole sentimento di disistima delle qualità morali e di irrispettosità della dignità del donante, contrastanti con il senso di riconoscenza che, secondo la coscienza comune, aperta ai mutamenti dei costumi sociali, dovrebbero invece improntarne l’atteggiamento. Peraltro, in presenza di tali presupposti, resta indifferente la legittimità del comportamento del donatario”. [1]

Tale ingratitudine deve rinvenirsi non già nella relazione extraconiugale in sé intrattenuta dal coniuge donatario, bensì nella circostanza che tale relazione venisse ostentata, anche fra le mura della casa coniugale, in presenza di una pluralità di estranei e, talvolta, anche del marito. [2]

A diverse conclusioni non può giungersi per il solo fatto che il rapporto esistente tra donante e donatario non sia riconducibile al matrimonio, poiché l’assenza di tale vincolo, se attenua i doveri di fedeltà e può portare a ritenere lecito l’inizio di una  nuova relazione, non esime il giudice dalla “valutazione complessiva del comportamento tenuto onde apprezzare le modalità con le quali tale nuova relazione sia stata poi portata alla luce, considerando altresì anche le ulteriori condotte dalle quali possa ricavarsi un contegno irriguardoso nei confronti del donante, in avversione al sentimento di rispetto che deve invece connotare i rapporti tra donante e donatario”.

[4] La pronuncia in commento fornisce lo spunto per ripercorre gli aspetti essenziali della revocabilità delle donazioni, ammessa, a norma dell’art. 800 c.c., in soli due casi: ingratitudine o sopravvenienza di figli.

Limitando l’analisi all’ipotesi dell’ingratitudine, l’art. 801 c.c. dispone che la domanda di revocazione possa essere proposta esclusivamente in determinate ipotesi, con elencazione da ritenersi tassativa.

Opportuno preliminarmente precisare come, in realtà, l’espressione “revocazione per ingratitudine” appaia frutto di un retaggio storico. Il concetto di gratitudine, infatti, è connotato di una forte componente morale e non può assurgere ad un dovere giuridico: il donatario non ha alcun dovere giuridico positivo di gratitudine verso il donante.

Non potrà, quindi, revocarsi una donazione in ragione di un qualsivoglia atto o comportamento che dimostri irriconoscenza del donatario, ma solo al ricorrere di specifici presupposti. Il legislatore, infatti, per contemperare gli opposti interessi in gioco (da un lato quello del donante di eliminare gli effetti di un negozio a seguito di circostanze successive al negozio stesso; dall’altro l’esigenza di certezza delle relazioni giuridiche) ha limitato l’operare dell’istituto in esame ai soli casi più gravi. Si tratta, innanzitutto, di quei fatti che il codificatore ha preso in considerazione per le ipotesi di indegnità a succedere (espressamente richiamati dalla norma in esame) e sostanziantesi in comportamenti diretti contro l’integrità fisica o morale del donante o dei suoi congiunti più stretti. Viene poi prevista un’ulteriore ipotesi, genericamente indicata come “ingiuria grave verso il donante”.

La non specificità di tale riferimento, ha rimesso a dottrina e giurisprudenza il compito di circoscrivere l’ambito di tale nozione.

Ed è proprio il richiamo generico alla gravità dell’ingiuria che ha più occupato gli interpreti. Può oggi dirsi consolidato l’orientamento che non ritiene sufficiente un qualsivoglia tipo di “offesa” al donante, ma postula la necessità di provare l’esistenza di un comportamento del donante che manifesti “un durevole sentimento di disistima delle qualità morali e di irrispettosità della dignità del donante”.[3] La Suprema Corte ha avuto modo di affermare che l’ingiuria grave consiste in “un comportamento con il qual si rechi all’onore ed al decoro del donante un’offesa suscettibile di ledere gravemente il patrimonio morale della persona, sì da rilevare un sentimento di avversione che manifesti tale ingratitudine verso colui che ha beneficato l’agente, che ripugna alla coscienza comune”.[4] Anche in epoca meno recente, la giurisprudenza di legittimità aveva ritenuto che ricorresse ingiuria grave solo quando la lesione del patrimonio morale del donante fosse “avvenuta per effetto dell’animosità ed avversione nutrite dal donatario verso il donante[5] e che il comportamento del donatario dovesse rivestire “manifestazioni e connotazioni di gravità e di potenzialità offensiva non soltanto oggettive, ma (soprattutto) disvelanti un reale e perdurante sentimento di avversione, espressione di una ingratitudine verso il beneficiario tale da ripugnare alla coscienza comune”.[6]

Per aversi la gravità richiesta dal legislatore appare, dunque, necessario rinvenire, nel donatario, un sentimento di profonda avversione verso il donante, ossia che vi sia dolo del donatario stesso nel compimento, volontario e consapevole, di atti o fatti diretti nei confronti del donante, al solo o precipuo fine di ledere il patrimonio morale di questi.

Nel solco di tali principi si innesta la pronuncia in commento, che sembra ribadire come non sia sufficiente la scoperta di un adulterio quale causa sufficiente a giustificare la revocazione di un atto liberale: non sempre, infatti, una relazione con un terzo soggetto è manifestazione oggettiva di risentimento nei confronti del donante.[7]

Tuttavia, come già precisato, l’emersione di tale sentimento di disistima ben può desumersi da comportamenti del donatario “contrastanti con il senso di riconoscenza che, secondo la coscienza comune, dovrebbero invece improntarne l’atteggiamento, e costituisce, peraltro, formula aperta ai mutamenti dei costumi sociali.”[8]

Tale affermazione sembra in realtà sconfessare il punto di partenza del ragionamento di dottrina e giurisprudenza, ossia che non vi sia spazio per valutazioni prettamente morali e che dal punto di vista giuridico non possa rinvenirsi alcun dovere di gratitudine. Diversamente ragionando ben potrebbe assumersi che l’adulterio sia sempre una mancanza di riconoscenza verso chi ha effettuato una liberalità; ma la giurisprudenza stessa, come detto, non è di tale avviso riscontrando i presupposti per la revocazione solo allorché al tradimento si accompagni un ulteriore atteggiamento del fedifrago, tale da configurare un vero sentimento di disistima.[9]

Come può facilmente evincersi dall’esame, forzatamente sintetico, dei precedenti giurisprudenziali, il campo è dominato da mutevolezza ed incertezza, venendo troppo spesso in rilievo valutazioni di tipo morale che non possono che lasciare dubbi all’interprete.

[1] Nello stesso senso, si vedano: Cass. Civ. n. 20722 del 13/08/2018; Cass. Civ. n. n. 22013 del 31/10/2016; Cass. Civ. n. 7487 del 31/03/2011

[2] In tal senso Cass. Civ. 22013/2016 cit.; Cass. Civ. n. 14093 del 28/05/2008

[3] Cass. Civ. n. 17188 del 24/06/2008

[4] Cass. Civ. n. 13632 del 05/11/2001

[5] Cass. Civ. n. 5310 del 29/05/1998

[6] Così Cass. n. 8165 del 28/08/1997

[7] Non fuori luogo il parallelo con l’ambito delle separazioni, ove al tradimento non consegue automaticamente l’addebito. Si veda, sul punto, anche Cass. Civ. n. 19816 del 20/06/2022

[8] Così Cass. Civ. n. 22013/2016 cit.. Si veda, nello stesso senso, Cass. Civ. n. 20722 del 13/08/2018

[9] Si veda la citata Cass. 22013/2016, ove la Suprema Corte ha confermato la decisione impugnata che aveva ravvisato la ragione dell’ingratitudine non nella relazione extraconiugale in sé intrattenuta dal coniuge donatario, bensì nella circostanza che tale relazione era stata ostentata, anche fra le mura della casa coniugale, in presenza di una pluralità di estranei e, talvolta, anche del marito.

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