Successione di titoli esecutivi e autonomia delle azioni esecutive spiegate dal creditore mediante intervento nel processo esecutivo
di Paolo Cagliari, Avvocato Scarica in PDFCass. civ., sez. III, 20 settembre 2024, n. 25261 – Pres. De Stefano – Rel. Rossi
Esecuzione forzata – Titolo esecutivo – Condanna provvisionale – Intervento – Condanna definitiva per importo superiore – Intervento del creditore in base al nuovo titolo – Necessità – Valutazione dell’intervento in relazione al tempo del suo dispiegamento – Necessità
In tema di esecuzione forzata, quando l’espropriazione sia iniziata in base a condanna provvisionale ai sensi dell’art. 278 c.p.c. e sopravvenga sentenza di condanna definitiva di riforma della precedente decisione in senso quantitativo, si verifica una successione di titoli esecutivi, con assorbimento di quello anteriore (la condanna provvisionale) in quello successivo (la condanna definitiva); il processo esecutivo prosegue senza soluzione di continuità, nei limiti fissati dal nuovo titolo, se si tratta di modifica in diminuzione o nei limiti del titolo originario, qualora la modifica sia in aumento e in quest’ultimo caso, per ampliare l’oggetto della procedura già intrapresa, il creditore, in forza del nuovo e distinto titolo esecutivo, deve formulare, per la parte di credito eccedente quello originario, un apposito intervento, la cui tempestività va autonomamente valutata in relazione al tempo del suo dispiegamento.
CASO
Nell’ambito di un’espropriazione immobiliare, prima dell’emissione dell’ordinanza di vendita, interveniva un creditore in forza di sentenza di condanna generica non definitiva, che disponeva il pagamento di una provvisionale; dopo la messa in vendita del bene pignorato, il medesimo creditore interveniva in forza di sentenza di condanna definitiva, che determinava in misura superiore – rispetto all’importo liquidato con la provvisionale – il credito risarcitorio.
Nel progetto di distribuzione, solo il primo intervento veniva qualificato come tempestivo, giacché il secondo era considerato tardivo; il creditore intervenuto, invece, sosteneva che i due interventi, avendo per oggetto lo stesso credito, andavano considerati unitariamente e, dunque, entrambi tempestivi.
Il giudice dell’esecuzione accoglieva la contestazione e modificava di conseguenza il progetto di distribuzione, con ordinanza opposta da un altro creditore.
La sentenza di rigetto dell’opposizione veniva impugnata con ricorso per cassazione.
SOLUZIONE
[1] La Corte di cassazione ha accolto il ricorso, affermando che la sentenza di condanna generica non attesta l’esistenza di un diritto certo, liquido ed esigibile ed è pertanto priva di efficacia esecutiva, sicché non legittima il creditore a intervenire nel processo esecutivo, a differenza di quella che, definendo il giudizio, accerta e quantifica il credito azionato, sicché l’intervento svolto sulla base di questa non può essere considerato integrazione ovvero specificazione di quello spiegato in virtù della condanna alla provvisionale contenuta nella sentenza non definitiva.
QUESTIONI
[1] L’espropriazione forzata dev’essere sorretta da un titolo esecutivo, che deve sussistere e conservare la propria validità lungo tutto il processo esecutivo, pena la sua estinzione (che può essere dichiarata anche d’ufficio dal giudice dell’esecuzione, quando rilevi l’originaria o la sopravvenuta carenza del titolo esecutivo in capo al creditore procedente o ad altro creditore intervenuto, sulla scorta delle regole dettate dalla fondamentale pronuncia di Cass. civ., sez. un., 7 gennaio 2014, n. 61).
I titoli esecutivi si distinguono in giudiziali e stragiudiziali: i primi sono quelli che si formano nell’ambito di un procedimento giurisdizionale, mentre integrano i secondi, a termini dell’art. 474 c.p.c., le scritture private autenticate (relativamente alle obbligazioni aventi per oggetto somme di denaro in esse contenute), gli atti ricevuti da notaio o altro pubblico ufficiale autorizzato dalla legge a riceverli e i titoli di credito (cambiale e assegno) ai quali la legge attribuisce espressamente efficacia esecutiva.
In entrambi i casi, il diritto risultante dal titolo, per essere azionato in via esecutiva, deve possedere i caratteri:
- della certezza, essendo certo il diritto che emerge esattamente e compiutamente, nel suo contenuto e nei suoi limiti, dal provvedimento giurisdizionale o dall’atto negoziale;
- della liquidità, che sussiste quando il diritto al pagamento di una somma di denaro è quantificato in misura determinata, ovvero determinabile mediante un mero calcolo aritmetico, in base agli elementi che risultano dal titolo stesso;
- dell’esigibilità, che ricorre quando il diritto non è sottoposto a termine o condizione, né vi sono impedimenti al suo esercizio.
Con riferimento alla sentenza, va precisato che, sebbene l’art. 282 c.p.c. stabilisca che quella di primo grado è provvisoriamente esecutiva senza ulteriori specificazioni, la dottrina e la giurisprudenza ritengono – con orientamento che può definirsi ormai consolidato – che la norma non possa applicarsi indistintamente a tutte le pronunce, ma solo a quelle aventi contenuto condannatorio, restando quindi escluse quelle dichiarative e costitutive.
Nel contempo, è stato affermato che, quando nella medesima sentenza siano contemporaneamente presenti una statuizione di carattere dichiarativo o costitutivo e una statuizione di condanna, l’immediata esecutività di questa è predicabile solo quando sia ravvisabile un rapporto di dipendenza o di accessorietà tra le predette statuizioni (vale a dire, quando il capo condannatorio, nel primo caso, è la conseguenza necessaria del capo dichiarativo o costitutivo e, nel secondo caso, non incide in alcun modo sul contenuto del capo dichiarativo o costitutivo), mentre va esclusa quando ricorra un rapporto di sinallagmaticità (ovvero di interdipendenza reciproca tra le statuizioni modificative della realtà giuridica poste, rispettivamente, a favore e a carico di ciascuna parte, che sussiste quando il capo condannatorio costituisce un elemento costitutivo delle altre statuizioni, sicché, mancando l’esecuzione di quello, non sarebbero applicabili queste) o di corrispettività (che sussiste quando il capo condannatorio, se messo in esecuzione in via provvisoria separatamente dalle altre statuizioni contenute nella sentenza, costringerebbe una delle parti a subire gli effetti sfavorevoli della decisione, senza godere i benefici pure da essa scaturenti).
In applicazione di tali principi, si ritiene che l’espropriazione forzata non possa essere avviata in forza di una sentenza di condanna generica, con la quale, ai sensi dell’art. 278 c.p.c., il giudice abbia dichiarato il diritto di ottenere il risarcimento del danno, rimettendone, tuttavia, la liquidazione a un momento successivo, ovvero a un diverso e separato giudizio: come affermato da Cass. civ., sez. III, 12 ottobre 2021, n. 27686, infatti, quando nella sentenza non sia precisato in termini monetari l’ammontare del risarcimento, né siano enunciati in maniera completa i parametri per determinarlo sulla base di un’operazione matematica, rimettendosi la specificazione di tali aspetti allo stesso giudice o ad altro, è esclusa in radice la configurabilità di un titolo esecutivo.
Proprio per questa ragione, nel caso di specie, è stato escluso che i due interventi spiegati dal creditore nella procedura esecutiva pendente potessero essere considerati in modo unitario, ovvero il secondo specificazione e integrazione del primo.
La sentenza di condanna generica e non definitiva in forza della quale era stato spiegato il primo intervento, infatti, poteva essere considerata titolo esecutivo non in quanto tale, ma solo perché, nel pronunciarla, il giudice aveva previsto il pagamento di un importo a titolo di provvisionale; una simile statuizione, infatti, attesta l’esistenza di un credito azionabile in via esecutiva limitatamente all’importo oggetto della provvisionale, ma non la sussistenza di un diritto risarcitorio certo, dal momento che presuppone soltanto che sia ravvisabile l’astratta potenzialità lesiva del fatto illecito, ossia un fatto ritenuto, sulla base di un giudizio di probabilità, potenzialmente fonte di conseguenze pregiudizievoli, sicché al giudice chiamato a operare la liquidazione del danno non è precluso negarne la sussistenza e dichiarare infondata la pretesa risarcitoria, quand’anche sia passata in giudicato la sentenza di condanna generica.
Quest’ultima, dunque, non può essere considerata titolo legittimante l’intervento nell’esecuzione forzata a tutela del credito risarcitorio, poiché non contiene il suo accertamento.
Di conseguenza, quando, nel medesimo processo esecutivo, sia azionato dapprima il credito avente titolo nella condanna provvisionale contenuta nella sentenza non definitiva e, successivamente, il credito portato dalla sentenza di condanna definitiva, si è in presenza di due distinti provvedimenti giudiziali, provvisti di autonoma idoneità a fondare l’azione esecutiva, resi all’esito di differenti fasi dello stesso giudizio, sicché non può parlarsi di un unico titolo esecutivo.
Come rilevato dai giudici di legittimità, si tratta di un fenomeno di successione di distinti e diversi titoli esecutivi, caratterizzato dalla differente quantificazione del credito da soddisfare e dall’assorbimento del titolo temporalmente anteriore (la condanna provvisionale) in quello successivo (la condanna definitiva).
Per questo motivo, come affermato nella sentenza che si annota, va richiamata la regola dettata dall’art. 653, comma 2, c.p.c., espressione di un principio generale applicabile anche quando un provvedimento giudiziale provvisoriamente esecutivo venga modificato solo quantitativamente da un successivo provvedimento anch’esso esecutivo.
Così, iniziata l’esecuzione in base a una sentenza di primo grado (o, come nel caso di specie, non definitiva, ma recante condanna al pagamento di una provvisionale) provvisoriamente esecutiva, qualora sopravvenga una sentenza di appello (o, come nel caso di specie, definitiva, che rechi condanna a un importo diverso da quello riconosciuto con la provvisionale) che riformi la precedente decisione in senso soltanto quantitativo, il processo esecutivo non resta caducato, ma prosegue senza soluzione di continuità, nei limiti fissati dal nuovo titolo (con persistente efficacia, entro gli stessi limiti, degli atti di esecuzione anteriormente compiuti), se si tratti di modifica in diminuzione, o nei limiti del titolo originario, se si tratti di modifica in aumento; in quest’ultimo caso, il creditore, per ampliare l’oggetto della procedura già intrapresa e soddisfare il suo maggiore diritto, deve formulare apposito intervento, per la parte di credito eccedente quello originariamente fatto valere, in base al nuovo titolo esecutivo costituito dalla sentenza successiva.
Del tutto correttamente, pertanto, l’intervento spiegato in forza della sentenza di condanna emessa all’esito del giudizio va considerato distinto e autonomo rispetto a quello fondato sulla provvisionale contenuta nella sentenza non definitiva e, come tale, tardivo, se successivo alla pronuncia dell’ordinanza di vendita di cui all’art. 569 c.p.c.
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