16 Novembre 2015

Studioleaks

di Michele D’Agnolo Scarica in PDF

 

La riservatezza è da sempre uno dei requisiti più importanti per l’esercizio di qualsiasi professione. Dal medico al notaio, dal commercialista all’avvocato, dal consulente del lavoro al geometra, tutti gestiscono dati riservati che appartengono ai clienti, ai loro cari, ai loro collaboratori o alle loro controparti. E d’altro canto, la curiosità dei terzi è sempre in agguato. In farmacia la vecchina ipocondriaca che è in fila dietro di noi ne sa sempre una più del farmacista e non perde occasione per trasfonderci la sua saggezza. C’è sempre un medicinale migliore di quello che ci è stato prescritto o un sintomo che abbiamo sottovalutato. Altro che sanità pubblica, noi abbiamo quella sociale.

Nel tempo la riservatezza professionale è stata oggetto di svariati interventi normativi di supporto. Da sempre, ad esempio, costituisce un cardine dei principi deontologici di ogni professione e pertanto la si ritrova come requisito fondamentale in quasi tutti i codici di condotta.

Ma la tutela del segreto professionale trova anche una importante tutela nel codice penale, che punisce con la reclusione chi spifferi impunemente dati di cui è venuto a conoscenza in ragione del proprio mandato. Questa previsione di legge è particolarmente incisiva in quanto il reato scatta anche in presenza di una semplice minaccia alla figura del soggetto cui i dati appartengono. Il reato è colposo. In altre parole, anche una fuga del tutto accidentale di dati o notizie che possano astrattamente nuocere a qualcuno può portare noi e i nostri collaboratori e dipendenti dritti dritti alla Procura della Repubblica. L’unico limite è rappresentato dal fatto che deve essere la parte lesa ad attivarsi con una querela di parte, in quanto il reato in questione non è perseguibile d’ufficio.

Non contenti di cotanta responsabilità, siamo andati ad aggravare il quadro con il codice della protezione dei dati, oggi limitato ai dati delle persone fisiche. La tutela della privacyè presidiata da una serie di prescrizioni che impongono l’adozione di una congerie di misure minime e misure adeguate, a presidio dei trattamenti di dati sia verbali, che cartacei ed elettronici. Dopo la venuta meno dell’obbligo di redigere il famigerato DPS, i nostri studi si limitano quasi sempre ad adottare le misure minime informatiche, ignorando che non sono le sole ad essere sanzionate. Poco o nulla si fa per la corretta prevenzione dei dati trattati verbalmente o in via cartacea, che sono ancora moltissimi.

Il codice della protezione dei dati introduce una nuova figura di reato, il trattamento illecito dei dati. Questa fattispecie scatta solo nel caso in cui il soggetto cui i dati si riferiscono abbia avuto un danno effettivo. Questa misura scatta anche d’ufficio e prevede diversi anni di reclusione.

Perfino il contratto collettivo di lavoro degli studi professionali, che come tutti i CCNL che si rispettino dedica moltissimi articoli ai doveri del datore di lavoro e soltanto poche righe a quelli dei lavoratori, si sofferma sulla riservatezza imponendola come preciso requisito della prestazione lavorativa a tutto il personale di studio, sottoponendolo alla possibilità di azioni disciplinari.

A fronte di tutto questo armamentario si dovrebbe ritenere che i professionisti e i propri collaboratori e dipendenti siano i più riservati del mondo. Muti come delle tombe. E invece sappiamo molto bene che lo sport più diffuso a livello internazionale, anche se non è mai assurto alle glorie delle Olimpiadi, è il gossip. Tutti lo pratichiamo in modo più o meno consapevole e conclamato. E così può capitare che i nostri collaboratori andando a casa dopo una giornata pesante si confidino con il proprio partner, vuotando il sacco. E che magari il partner a sua volta ne faccia una mezza parola con qualche amico. E così via…

Può capitare che entrando in studio un cliente veda i fascicoli altrui, magari lasciati per terra o a ingombrare una sala riunioni in attesa di essere archiviati. E se qualcuno volesse sottrarci qualche faldone, come accade sovente nei tribunali, ce ne accorgeremmo visto che tutti i nostri scaffali sono sempre aperti e i documenti sono in bella vista? Per non parlare delle nostre scrivanie sempre ingombre di faldoni inutilizzati.

Simpatico e loquace anche il postino che entra in una affollata reception dello studio urlando “è qui domiciliato il dott. D’Agnolo? Ho un avviso di accertamento da notificare… sembra roba grossa… !”

E che dire di quando lavoriamo in treno, in aereo, nelle sale di aspetto. Sguardi e orecchi indiscreti possono essere sempre in agguato.

L’apice è quando il personale di studio si ritrova in pizzeria per qualche festina. Ed ecco a prendersela con il cliente tignoso e rompiscatole, facendone anche una discreta imitazione, degna di Maurizio Crozza. Salvo scoprire che nel tavolo accanto si stava gustando una pizza alla diavola la moglie incredula dell’imprenditore. Che gaffe, ragazzi! Tra l’altro proprio l’adozione del codice della privacy ha contribuito a diffondere la psicosi della riservatezza. Il fatto di essere bombardati di continuo da moduli di informativa e moduli di richiesta del consenso in tutti i contesti anche quelli più sciocchi ha reso molti clienti guardinghi e attenti.

E così il codice della privacy è diventato un altro di quegli strumenti che chi ti vuole male ti può aizzare contro per portarti in tribunale, anche se sei una brava persona e cerchi di fare al meglio il tuo mestiere.

Basta una mail con l’indirizzo sbagliato o infilare il contenuto di una busta in partenza dentro un’altra. O pescare per sbaglio un foglio da una stampante senza fascicolatore.

Oppure mandare una circolare dimenticando di usare il copia carbone invisibile, svelando tutto l’indirizzario dei clienti. Confondere nella fretta della redazione di un messaggio di posta elettronica Mario Rossi con Mirella Rinaldi, che hanno le iniziali della email identiche e che pertanto il compositore automatico propone indifferentemente.

Qualche cliente, peraltro, è talmente riservato che non desidera nemmeno che dischiudiamo l’esistenza di un incarico da parte sua. Nessuno vorrebbe che si sapesse in giro di essere seguito da uno psichiatra, ma la regola potrebbe valere anche per il commercialista o l’avvocato. Va da sé che alcuni dei dati che i professionisti trattano sono pubblici e quindi il problema non si pone, ma che fare per gli altri?

Negli studi di altri paesi del mondo vengono continuamente erogati corsi di formazioneper spiegare le spiacevoli conseguenze civilistiche, penali, deontologiche e di reputazione che possono derivare dalla fuga di notizie. Un documento di impegno contrattuale alla privacy viene fatto sottoscrivere annualmente a tutti gli addetti dello studio, inclusi i soci. Il DPS, che serve a valutare i rischi dei trattamenti dei dati, lungi dall’essere stato eliminato viene curato e aggiornato in modo particolare. Le procedure di riservatezza sono incorporate in quelle della qualità. E così mentre nei nostri studi generalmente tutti possono in teoria i dati di tutti, negli studi che curano la riservatezza ognuno è abilitato a conoscere solo i dati dei clienti che segue e limitatamente ai dati che servono.

Ma la cosa in assoluto più difficile da fare è quella più semplice da richiedere: tenere la bocca rigorosamente chiusa. Farci una ricca scorpacciata di fatti nostri invece di occuparci di diffondere quelli degli altri. I grandi pensatori ne hanno più volte parlato. Possiamo scomodare perfino Dante Alighieri, che ci ricorda che un bel tacer non fu mai scritto. E come non convenire con Giulio Andreotti, che sosteneva che se volete che una cosa rimanga segreta non dovete dirla nemmeno a voi stessi. Anche la saggezza popolare è piena di utili suggerimenti. Per esempio, se proprio sentissimo il bisogno di sfogarci a casa, dire il peccato e non il peccatore potrebbe quantomeno limitare i danni. E poiché scripta manent, evitiamo del tutto di scrivere mail e sms del cui testo potremmo pentirci se finissero in mani sbagliate.

Ma è il personaggio di un cartone animato che più mi ha colpito per la sua profondità di pensiero.

Permettetemi quindi di concludere citando la mitica spugna Spongebob. “Di certo non è un segreto che il vero segreto di un segreto è dire segretamente a qualcuno il suo segreto. In questo modo in tutta segretezza aggiungi un nuovo segreto alla sua collezione segreta di segreti…ma segretamente!”.