15 Gennaio 2019

Stabilità dell’esecuzione ed esclusione dell’azione di ripetizione dell’indebito

di Maria Laura Pinna Scarica in PDF

Cass. civ. Sez. III Sent., 23/08/2018, n. 20994, Pres. Vivaldi, Est. Saija

ESECUZIONE FORZATA – Provvedimento di chiusura del procedimento esecutivo – Revocabilità – Esclusione – Fondamento – Conseguenze – Azione di ripetizione di indebito da parte dell’espropriato dopo la chiusura del procedimento esecutivo  – Esperibilità sul presupposto della illegittimità dell’esecuzione per motivi sostanziali  – Esclusione

In tema di esecuzione forzata, il provvedimento che chiude il procedimento esecutivo, pur non avendo, per la mancanza di contenuto decisorio, efficacia di giudicato, è, tuttavia, caratterizzato da una definitività insita nella chiusura di un procedimento esplicato col rispetto delle forme atte a salvaguardare gli interessi delle parti ed incompatibile con qualsiasi sua revocabilità, in presenza di un sistema di garanzie di legalità per la soluzione di eventuali contrasti, all’interno del processo esecutivo. Ne consegue che il soggetto espropriato non può esperire, dopo la chiusura del procedimento di esecuzione forzata, l’azione di ripetizione di indebito contro il creditore procedente (o intervenuto) per ottenere la restituzione di quanto costui abbia riscosso, sul presupposto dell’illegittimità per motivi sostanziali dell’esecuzione forzata.

CASO

In forza di un primo atto di precetto, la società Alfa avviava una procedura esecutiva presso terzi contro un Comune per il recupero di un credito, che in seguito veniva ceduto ad una società terza.

Il Comune esecutato proponeva opposizione avverso il pignoramento, e l’opposizione veniva respinta in tutti i gradi di giudizio, fino in Cassazione: quindi veniva disposta in favore della cessionaria del credito l’assegnazione della somma dovuta.

Successivamente la società Alfa notificava un secondo atto di precetto per ulteriori somme che riteneva ancora dovute; il Comune proponeva opposizione, ma il giudice dell’esecuzione assegnava le somme non contestate e disponeva la prosecuzione della causa per il giudizio sul merito. Il Tribunale successivamente accoglieva l’opposizione e condannava il creditore procedente e il terzo cessionario alla restituzione della somma assegnata e riscossa.

La decisione veniva gravata di appello e la Corte pronunciava sentenza non definitiva con cui, ritenuto il carattere non satisfattivo della prima assegnazione e la necessità di riconoscere gli incrementi del credito intervenuti a favore della creditrice procedente Alfa e delle cessionaria, dichiarava priva di titolo quell’assegnazione, ma riservava ad una successiva sentenza definitiva l’accertamento degli incrementi dei crediti ancora eventualmente dovuti.

La Corte di cassazione cassava la sentenza della Corte d’appello con riguardo al capo relativo all’accertamento degli altri eventuali incrementi dei crediti ancora dovuti. Il Comune riassumeva la causa chiedendo la restituzione di tutte le somme indebitamente riscosse e la Corte territoriale assolveva la creditrice procedente dall’obbligo restitutorio.

La sentenza, impugnata nuovamente in Cassazione, veniva cassata dalla Suprema Corte per non integrità del contraddittorio del giudizio riassunto in seguito alla sentenza non definitiva, e veniva nuovamente riassunta innanzi alla Corte d’appello, che dichiarava nullo il secondo atto di precetto e accertava il diritto del Comune a ottenere la restituzione di quanto versato in forza della seconda procedura esecutiva. La Corte di cassazione, nuovamente adita, rigettava tutti i ricorsi proposti avverso detta sentenza.

La Corte d’appello, dunque, riformando parzialmente la sentenza del Tribunale che a suo tempo aveva accolto l’opposizione alla seconda procedura esecutiva, dichiarava l’obbligo restitutorio del terzo cessionario e del creditore procedente in favore del Comune.

Contro tale sentenza ricorreva per cassazione il terzo cessionario e in via incidentale il Comune, nonché la creditrice procedente nel frattempo fallita. In particolare, il terzo cessionario chiedeva di accertare il proprio maggior credito, mentre il Comune chiedeva di determinare non solo la non debenza dell’ulteriore somma percetta in forza della seconda procedura esecutiva, ma anche la non debenza di parte della somma assegnata (e ritenuta non dovuta) con la prima ordinanza di assegnazione, con condanna alla relativa restituzione.

SOLUZIONE

In esito alla complessa vicenda processuale, la Corte di cassazione ha confermato la declaratoria di nullità del secondo pignoramento presso terzi e, conseguentemente, ha dichiarato il diritto del Comune a ottenere la restituzione della somma assegnata con la seconda procedura esecutiva, mentre ha ritenuto che nessuna pretesa restitutoria potesse essere avanzata dal Comune in relazione alla prima assegnazione, per il principio della irretrattabilità dei risultati della esecuzione e della stabilità di questa.

QUESTIONI

Nell’ambito della complessa e annosa vicenda giudiziale illustrata, la Suprema Corte affronta la questione della stabilità dei risultati del procedimento esecutivo, se non utilmente contestato mediante i rimedi tipici del processo esecutivo.

Il Supremo Collegio, richiamando principi espressi da consolidata giurisprudenza (Cass. n. 23182/2014, nonché Cass. n. 17371/2011), ha osservato che il codice di rito appresta specifici rimedi per far valere eventuali errori in cui sia incorso il giudice dell’esecuzione, anche nella fase distributivo/satisfattiva, con la conseguenza che l’inerzia rispetto a una ordinanza di assegnazione delle somme preclude l’esercizio di ogni azione tendente a modificare o diminuire gli effetti che da essa derivano, compresa la condictio indebiti.

Il progetto di distribuzione, infatti, è atto conclusivo del processo esecutivo a cui la legge non attribuisce efficacia di giudicato, in coerenza con le caratteristiche del processo esecutivo, che non tende ad un provvedimento di merito avente contenuto decisorio. Tuttavia, vanno riconosciuti al provvedimento conclusivo del processo esecutivo non solo l’irrevocabilità tipica dei provvedimenti del giudice dell’esecuzione, una volta che essi abbiano avuto esecuzione (art. 487 cod. proc. civ.), ma soprattutto il carattere preclusivo che consegue alla mancata attivazione degli interessati nell’ambito dello stesso processo e con gli strumenti giuridici che questo offre a tutela degli interessi coinvolti (cfr. Cass. n. 17371/2011).

Tanto pare agevolmente ricondursi all’esigenza di legalità intrinseca dell’attività giurisdizionale, la quale implica, a sua volta, che sia possibile e sufficiente, ma al tempo stesso necessario, per i soggetti che se ne ritengano lesi, reagire all’interno del processo e coi mezzi apprestati dall’ordinamento, affinché il risultato finale possa presumersi conforme a diritto: il sistema processuale, in definitiva, non consente la sopravvivenza di pretese di tutela dagli effetti pregiudizievoli dei suoi atti, nemmeno solo risarcitorie, al di fuori delle azioni tipiche a tanto destinate (cfr. Cass. n. 23182/2014).

Conseguentemente, sulla scorta di tali consolidati principi, la Corte di cassazione, con la sentenza qui in commento, ha concluso per l’irretrattabilità del provvedimento di chiusura del procedimento esecutivo con cui il Giudice dell’esecuzione aveva disposto la prima assegnazione del credito e per il conseguente rigetto della relativa domanda restitutoria da parte del debitore esecutato.

Autorevole dottrina giustamente contesta tale principio, osservando che dare alla soddisfazione coattiva una stabilità sostanziale preclusiva che non ha il pagamento spontaneo significa dare all’esecuzione forzata un effetto eccedente ed estraneo alla sua funzione, che è solo quella di soddisfare i crediti, attraverso la surrogazione processuale dell’inattività sostanziale dell’obbligato, non essendovi alcun motivo per cui tale attività sostitutiva debba produrre effetti ulteriori rispetto a quelli propri della sua funzione, che consiste tout court nel sostituire l’adempimento spontaneo con quello coattivo (v. LUISO, Diritto processuale civile, III, Milano, 2017, 188 s.).

Sarebbe dunque tempo che la Suprema Corte rivedesse il dogma della stabilità del riparto, al fine di conformarne gli effetti alla funzione propria dell’esecuzione forzata, che è solo quella di realizzare i diritti, non di statuirne l’esistenza in modo definitivo e irrevocabile, non dovendosi confondere il regime processuale di irrevocabilità del provvedimento del giudice dell’esecuzione con gli effetti sostanziali dallo stesso prodotti. Negare la ripetizione di ciò che è stato coattivamente pagato in forza di un titolo venuto meno o mai esistente significherebbe modificare i rapporti sostanziali, senza alcuna pronuncia dichiarativa idonea al giudicato, laddove il provvedimento di assegnazione o di distribuzione del ricavato possiede una valenza meramente esecutiva e di adempimento coattivo della prestazione dovuta, senza immutare i rapporti sostanziali tra le parti. Significa, in una parola, confondere cognizione ed esecuzione, tutela dichiarativa e tutela esecutiva, sul piano strutturale non meno che funzionale.