4 Aprile 2016

Sinteticità e chiarezza degli atti processuali. Il «vademecum» elaborato dal Tribunale di Milano per le azioni di responsabilità ex art.146 LF

di Stefano Nicita Scarica in PDF


Il Presidente della Sezione Specializzata in materia di Impresa B del Tribunale di Milano, con una comunicazione del 22 gennaio 2016, ha pubblicato un vademecum contenete due modelli di
 “prospetto” che i difensori sono invitati a compilare ed inserire nella prima pagina degli atti introduttivi delle cause di responsabilità introdotte dai curatori fallimentari nei confronti di amministratori, sindaci e liquidatori di società di capitali ai sensi dell’art. 146 Legge Fallimentare.

IL PROTOCOLLO
Sovente le procedure concorsuali generano contenziosi, anche molto complessi. In effetti, le vicende giudiziali che scandiscono la gestione del patrimonio fallimentare spesso si snodano lungo vari anni e coinvolgono una pluralità di parti. La particolare rilevanza sistematica di tale materia giudiziale è oggi riconosciuta dalla norma dell’art. 43, comma 4, L.F. che dispone: “Le controversie in cui è parte un fallimento sono trattate con priorità.”.  

Controversie siffatte già a partire dall’esame degli atti introduttivi richiedono “un notevole impegno da parte del giudice istruttore”, essendo necessario individuare quali siano gli elementi in fatto ed in diritto rilevanti onde conoscere e deliberare sulla domanda proposta. Le azioni di responsabilità introdotte da curatori fallimentari nei confronti di amministratori, sindaci e liquidatori di società di capitali ex art.146 LF., ad esempio,  costituiscono, da sempre, un rilevante impegno per le Sezioni fallimentari dei Tribunali italiani (oggi Sezioni specializzate in materia di impresa) sia per quanto riguarda gli organi giudicanti sia per quanto riguarda il carico di lavoro imposto alle cancellerie.
Inoltre, l’attività degli avvocati del libero foro chiamati ad esercitare il diritto di difesa in tali controversie è foriera di atti “normalmente assai articolati e redatti secondo l’ordine espositivo più vario”.
Può tale mancanza di omologazione, tale disomogeneità redazionale, andare a discapito del c.d. principio di ragionevole durata del processo, presidiato dalla Costituzione (Art.111 Cost.) e dal Diritto sovranazionale (art.6  della CEDU)?
A tale questione il Tribunale di Milano – Sezione Specializzata in materia di Impresa B dà risposta affermativa. La Sezione fallimentare meneghina ha, perciò, deciso di elaborare due “prospetti”, rispettivamente per l’attore e il convenuto, che i difensori sono “invitati ad inserire” nella prima pagina degli atti introduttivi delle controversie di cui all’art.146 L.F., ordinarie o cautelari. Tutto ciò al fine di rendere più agevole la individuazione dei dati salienti fin dalla prima udienza e, quindi, accelerare lo studio delle controversie.
Il primo dei due modelli, c.d. Prospetto dei fatti costitutivi della domanda, va inserito nell’atto di citazione – o nel ricorso cautelare – e prevede quattro sezioni: A. Denominazione della società attrice, data di costituzione e data di fallimento;
B. Soggetti convenuti nel presente giudizio, qualifica e periodo di permanenza in carica;
C. Addebiti contestati ai convenuti e relativi riferimenti temporali (con allegate alcune voci esemplificative tipiche di addebito);
D. Danno conseguente a ogni addebito e relativo criterio di quantificazione (con allegate alcune voci esemplificative tipiche di addebito);
Anche il secondo dei due modelli, c.d. Prospetto delle contestazioni e dei fatti estintivi/impeditivi/modificativi della pretesa, prevede quattro sezioni e va inserito nella comparsa di risposta – o nella memoria difensiva cautelare (ognuna delle quali con allegate alcune voci esemplificative tipiche):
A. Eccezioni preliminari, fatti estintivi, impeditivi, modificativi della pretesa avversaria;
B. Contestazioni quanto alla qualifica/periodo di permanenza incarica dei convenuti;
C. Contestazioni quanto agli addebiti e relativi riferimenti temporali;
D. Contestazioni quanto al danno conseguente a ogni addebito e relativo criterio di quantificazione.

IL PRINCIPIO DI SINTETICITA’
Fondamento normativo del vademecum in commento è dichiaratamente il Decreto legge 18 ottobre 2012, n. 179, che all’art. 16-bis,  comma 9 octies.  dispone: ”Gli atti di parte e i provvedimenti del giudice depositati con modalità telematiche sono redatti in maniera sintetica.”.

Centrale ai fini del presente commento appare, quindi, delineare i contorni giuridici del c.d. principio di sinteticità degli atti processuali.
Nessuna norma codicistica impone, in generale, il rispetto di tale regola redazionale nel primo grado di giudizio.  Solo in casi specifici il c.p.c. dispone espressamente, a pena di nullità, l’osservanza di criteri di elaborazione del testo di un atto giudiziale. Si pensi:
a. all’art. 46 disp. att. c.p.c.: “I processi verbali e gli altri atti giudiziari debbono essere scritti in carattere chiaro e facilmente leggibile, in continuazione, senza spazi in bianco e senza alterazioni o abrasioni.”;
b. all’art. 164, 4° comma, c.p.c., per cui la citazione è nulla se è omessa o risulta assolutamente incerta la determinazione della cosa oggetto della domanda ovvero se manca l’esposizione dei fatti;
c. all’art.167, 1° comma, c.p.c. che dispone: “[…] Se è omesso o risulta assolutamente incerto l’oggetto o il titolo della domanda riconvezionale, il giudice, rilevata la nullità, fissa al convenuto un termine perentorio per integrarla.[…].”
Diversamente in sede di impugnazione sono ravvisabili disposizioni che impongono esplicite  regole redazionali alle difese. Il codice, infatti, prescrive l’inammissibilità degli atti introduttivi nei gradi di appello e cassazione, per mancanza di specificità dei motivi  (cfr. l’art. 342 c.p.c., per l’appello e l’art. 366, comma 1, n. 6, c.p.c. per il ricorso in cassazione, che ha offerto una base normativa al requisito della c.d. autosufficienza).
Sempre restando in tema di legislazione nazionale, va poi ricordato l’art. 3, comma 2 del Codice del Processo Amministrativo (“Il giudice e le parti redigono gli atti in maniera chiara e sintetica.”). Tale disposizione (dal 2010) pone un principio generale che, in termini paradigmatici ed orientativi, è stato considerato di portata assai più ampia rispetto all’ambito di stretta applicazione positiva.
Anche nel diritto europeo esiste una specifico richiamo a criteri di sinteticità degli atti processuali nell’art. 58 del regolamento di attuazione dello Statuto della Corte di Giustizia e del Tribunale dell’Unione.

LA DOTTRINA
La dottrina si è occupata della questione interrogandosi sulla portata del principio e sulle sanzioni per eventuali trasgressioni (FINOCCHIARO, Il principio di sinteticità nel processo civile, in Riv. Dir. Proc., 2013, 853 e segg.).
Da una parte, si è affermato che il mancato rispetto di criteri di chiarezza e sinteticità dell’atto processuale, senza una specifica sanzione normativa, non possa determinare una chiusura in rito del processo nel rispetto del principio di libertà delle forme previsto dall’art. 121 e 156 c.p.c. (COMMENDATORE, Forma degli atti processuali.-Sinteticità e chiarezza degli atti processuali nel giusto processo, in Giur. It., 2015, 4, 851, nota a Cass. civ. Sez. lavoro, 06 agosto 2014, n. 17698 e Cass. civ. Sez. lavoro, 30 settembre 2014, n. 20589; TRIA, Il linguaggio e lo stile delle Corti Supreme, in Lingua e diritto, 2013, 188). Da altra parte, alcuni hanno ricondotto il tema della sinteticità a quello generale del c.d. abuso del diritto di difesa nel processo (così Dondi – Giussani, Appunti sul problema dell’abuso del processo civile nella prospettiva de iure condendo, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2007, 193 e segg), altri, invece, in mancanza di “un intenzionale deficit collaborativo della parte, da cui poter all’evidenza desumere la carenza d’interesse ad una decisione nel merito”  (COMMENDATORE, op. cit.; cfr. anche SCARSELLI, Il c.d. abuso del processo, in Riv. dir. proc., 2012, 1465) hanno decisamente negato l’ipotizzabilità di un abuso ravvisabile per la sola prolissità dell’atto e sanzionabile con la chiusura in rito.
Altra autorevole dottrina, poi, (dato il tenore dispositivo degli artt. 92, 88 e 96, comma3, c.p.c. in tema di condanna alle spese del giudizio), ha rinvenuto nella violazione della sinteticità e chiarezza una “peculiare responsabilità soggettiva che dà luogo ad una forma di  risarcimento del danno” (BONGIORNO, Spese giudiziali, in Enc. giur., XXX, Roma, 1993, 4; CORDOPATRI, Un principio in crisi: victus victori, in Riv. dir. proc., 2012, ?265­282?) derivante dalla lesione del canone di buona fede processuale.

LA GIURISPRUDENZA
La giurisprudenza tradizionale ha lungamente negato rilevanza sanzionatoria in rito alla mancanza di sinteticità e chiarezza degli atti processuali nel rispetto del principio di libertà delle forme previsto dall’art. 121 e 156 c.p.c..
Recenti pronunce, però, hanno fatto registrare un’inversione di tendenza sul punto, segnatamente nei giudizi di impugnazione. In più casi la violazione del criterio redazionale in parola è stata sanzionata in via processuale, con una chiusura del processo in rito, in quanto, l’atto è stato ritenuto “inidoneo a prospettare una vera e propria domanda giudiziale” (cfr. Cass. civ., 06 agosto 2014, n. 17698 secondo cui: ”Il mancato rispetto del dovere processuale della chiarezza e della sinteticità espositiva espone il ricorrente per cassazione al rischio di una declaratoria d’inammissibilità dell’impugnazione, in quanto esso collide con l’obiettivo di attribuire maggiore rilevanza allo scopo del processo, tendente ad una decisione di merito, al duplice fine di assicurare un’effettiva tutela del diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost., nell’ambito del rispetto dei principi del giusto processo di cui all’art. 111, comma secondo, Cost. e in coerenza con l’art. 6 Cedu, nonché di evitare di gravare sia lo Stato che le parti di oneri processuali superflui”; v. anche Cass. civ., 30 settembre 2014, n. 20589; Cass. civ., Sent., 05 febbraio 2015, n. 2143; Cass. civ., 04 luglio 2012, n. 11199).

 

CONCLUSIONI
Gli operatori della giustizia si sono interessati al tema a vari livelli: con contributi dottrinali, con pronunce giudiziali, con dibattiti pubblici all’interno dei vari Ordini dell’Avvocatura locale.

L’esigenza di individuare criteri oggettivi che possano declinare nell’uso pratico il principio in esame ha portato, persino, nel dicembre 2015, alla sottoscrizione di un “Protocollo d’intesa tra la Corte di Cassazione e il Consiglio Nazionale Forense”, già segnalato in questo Settimanale. Tale Protocollo (siglato dal Primo Presidente della Corte e dal Presidente del CNF) pone le: “Regole redazionali dei motivi di ricorso per Cassazione.”. In tale documento vengono identificati precisi limiti dimensionali alla redazione degli atti processuali da depositare alla Corte di Cassazione. La soluzione data alla valenza giuridica delle indicazioni è espressamente rinvenibile in una nota del testo secondo la quale: “Il mancato rispetto dei limiti dimensionali indicati nel modulo e delle ulteriori indicazioni ivi previste non comporta l’inammissibilità o l’improcedibilità del ricorso ( e degli altri scritti difensivi citati), salvo che ciò non sia espressamente previsto dalla legge; il mancato rispetto dei limiti dimensionali, […], è valutabile ai fini della liquidazione delle spese del giudizio.
Volendo dirla con le parole di un celebre romanzo di Leonardo Sciascia “Una storia semplice”: «L’italiano non è l’italiano: è il ragionare».
In vero, forme espressive semplici e chiare costituiscono il primo essenziale elemento per raggiungere il tanto auspicato giusto processo di ragionevole durata e l’iniziativa del Tribunale di Milano è perfettamente riconducibile nel solco del dibattito sulla definizione di criteri condivisi in merito alla redazione degli atti processuali in maniera sintetica e chiara.