Il nuovo rito camerale di legittimità non partecipato: l’obbligo di rimessione in pubblica udienza non e’ “opportuno”
di Giovanni Chiappiniello Scarica in PDFCass. civ., sez. I, 4 aprile 2017, n. 8869 – Pres. Didone – Rel. Terrrusi
Impugnazioni civili – Cassazione (ricorso per) – Procedimento in camera di consiglio ex art. 380-bis.1. c.p.c. – Rilevanza della causa – Rimessione in pubblica udienza – Carattere obbligatorio o facoltativo – Principio di ragionevole durata del processo – Garanzia del contraddittorio (Cod. proc. civ.,
Non sussiste alcun obbligo, né vi sono ragioni di opportunità, perché, all’esito dell’adunanza in camera di consiglio, il collegio rimetta la causa che preveda la trattazione di questioni rilevanti o, comunque, prive di precedenti in pubblica udienza, mediante una sorta di mutamento del rito di cui all’art. 380-bis.1 c.p.c. Invero, una simile soluzione sarebbe priva di costrutto, essendo la trattazione con il rito camerale pienamente rispettosa sia del diritto di difesa delle parti, le quali, tempestivamente avvisate entro un termine adeguato del giorno fissato per l’adunanza, possono esporre compiutamente i propri assunti, sia del principio del contraddittorio, anche nei confronti del P.G., sulle cui conclusioni è sempre consentito svolgere osservazioni scritte.
CASO
[1] La Suprema Corte si pronuncia in camera di consiglio su questione mai precedentemente scrutinata dal giudice di legittimità. La Corte, pur espressamente dichiarandone l’assoluta novità e, “nella sua complessità”, la rilevanza della causa, ritiene non “opportuna” la rimessione in pubblica udienza, ostando a tale opzione processuale l’inidoneità della pronuncia in camera di consiglio a recare pregiudizio al principi di difesa e contraddittorio tra le parti, e dovendosi salvaguardare, pertanto, il principio costituzionale della ragionevole durata del processo.
SOLUZIONE
[1] La Suprema Corte, pur nel riconoscere la rilevanza della questione trattata, ha qualificato ultronea la – pur giuridicamente possibile – rimessione della causa all’udienza pubblica, atteso che la trattazione in camera di consiglio offre tutela al principio della ragionevole durata del processo, e, così come congegnata dal legislatore, presenta tutti i requisiti atti a garantire il rispetto del diritto di difesa e del contraddittorio tra le parti.
QUESTIONI
[1] Seppur secondo percorsi ragionativi distinti, la giurisprudenza è tendenzialmente pacifica nel reputare possibile la rimessione della trattazione della causa alla pubblica udienza, variamente invocando, in assenza di una specifica disposizione di legge, l’applicazione analogica dell’art. 380-bis, comma 3° e la non vincolatività della decisione del presidente per il Collegio (Cass. 6 marzo 2017, n. 5533) e, comunque, la generale possibilità di rinviare la causa a nuovo ruolo, onde poi consentire che essa sia avviata al rito che si ritenga adeguato (Cass. 5 aprile 2017, n. 8869).
Una tale opzione ermeneutica apparrebbe confortata, d’altronde, anche dall’interpretazione sostanzialistica dell’art. 375, comma 2° c.p.c., il quale dispone che “La corte a sezione semplice pronuncia con ordinanza in camera di consiglio in ogni altro caso, salvo che la trattazione in pubblica udienza sia resa opportuna dalla particolare rilevanza della questione di diritto”.
Pur nel contesto di una valutazione che presenta spiccati profili di discrezionalità, tale disposizione non sembra equivoca nel prescrivere che, al ricorrere del presupposto della rilevanza della causa, la trattazione in pubblica udienza è obbligatoria.
E ciò nonostante, la sentenza in commento sottolinea che “il punto nodale è governato da profili di opportunità, in quanto una simile decisione resa a conclusione dell’adunanza camerale sarebbe priva di costrutto; la trattazione col rito camerale, anziché in pubblica udienza, non concretizza alcuna lesione al diritto processuale delle parti, né sotto il profilo del diritto di difesa, né sotto il profilo del diritto al contraddittorio”.
Dopo l’avvenuta generalizzazione, a seguito dell’introduzione delle modifiche apportate dal D.L. 31 agosto 2016, n. 168, del procedimento di trattazione delle cause in camera di consiglio, la definitiva e radicale esclusione del principio della pubblicità del processo innanzi alla Suprema Corte sembra dover provenire, dulcis in fundo, dall’applicazione giurisprudenziale, che sembra voler escludere la trattazione in pubblica udienza anche nelle eccezionali, residuali ipotesi tuttora previste dal novellato art. 375 c.p.c..
La pronuncia in commento contrasta con precedenti decisioni, che, sottolineando il carattere non assoluto del principio di pubblicità dell’udienza, derogabile in presenza di “particolari ragioni giustificative”, ove “obiettive e razionali” (Corte cost., sent. n. 80 del 2011), associavano il rito camerale alla decisione di questioni di diritto di rapida trattazione, non rivestenti peculiare complessità (Cass. 2 marzo 2017, n. 5371), ovvero prive di rilievo nomofilattico (Cass. 10 gennaio 2017, n. 395).
Nella sentenza in commento, tuttavia, è eletta a “ notazione dirimente che l’interesse della parte nel processo si sostanzia nel vedersi riconosciuto il buon fondamento della pretesa; quale forma assuma il provvedimento a ciò deputato, se ordinanza o sentenza, alla parte non interessa punto”.
Ebbene, se ciò è sicuramente vero per la parte vittoriosa, non può certo dirsi lo stesso rispetto alla necessaria tutela delle prerogative difensive delle altre parti, la cui parziale o totale soccombenza potrebbe esser derivata, invero, proprio dal sacrificio del principio del contraddittorio, il cui ridimensionamento è, in astratto, intrinsecamente idoneo a determinare un’ “ingiusta” decisione.
Se è allora in capo a tutte le parti processuali che può in linea teorico-costituzionale ammettersi, nel nuovo rito camerale non partecipato, la sufficienza delle difese scritte, a compiutamente tutelare la garanzia del contraddittorio, “quale nucleo indefettibile del diritto di difesa costituzionalmente tutelato” (Cass. 2 marzo 2017, n. 5371), non possono tuttavia essere ignorate le ipotesi di obbligatoria trattazione in pubblica udienza, poste dal legislatore non soltanto a tutela tanto delle prerogative difensive delle parti, ma anche, se non soprattutto, in considerazione della pubblica funzione nomofilattica della Suprema Corte di Cassazione.