3 Ottobre 2023

Il rilievo officioso della nullità del contratto va provocato con il contraddittorio

di Francesco Tedioli, Avvocato Scarica in PDF

Cass., sez. III, 5 settembre 2023, n. 25849 Pres. Cirillo – Rel. Giaime Guizzi

Obbligazioni e contratti – Nullità – Prova in generale in materia civile – Onere della prova

(C.p.c, artt. 101, 112, 115, 116, 166, 167, 360, comma 1, n. 3; C.c. 1421)

[1] Il rilievo officioso della nullità del contratto implica non solo l’indicazione della stessa alle parti, ma pure lo svolgimento del contraddittorio tra di loro, destinato al compimento non della sola attività assertiva, ma anche della corrispondente attività probatoria.

CASO

S.p.a. cessionaria del credito vantato da Civitas S.r.l. per prestazioni sanitarie terapeutiche riabilitative erogate, in regime di accreditamento con il Servizio Sanitario nazionale, otteneva decreto ingiuntivo nei confronti dell’ASL. Quest’ultima proponeva opposizione ex art. 645 c.p.c., che non veniva accolta.

In appello, la sentenza di primo grado veniva riformata, sul rilievo – compiuto d’ufficio – della carenza di accreditamento della società cedente, atteso che, negli atti del giudizio, non era stato rinvenuto un contratto scritto tra la ASL e la propria fornitrice, accordo, viceversa, necessario, per la remunerazione della prestazione.

Avverso tale sentenza, Rubicon SPV – ulteriore cessionaria del credito – ricorreva in cassazione ex art. 360, comma 1, n. 3), c.p.c., per  violazione e falsa applicazione degli artt. 112, 115, 116, 166 e 167 c.p.c. dell’art. 2697 c.c., oltre che degli artt. 210 e 345 c.p.c.

La sentenza d’appello, in particolare, veniva censurata in quanto la Corte aveva “negato la remunerabilità dell’assistenza resa” sulla scorta di un rilievo d’ufficio della nullità del contratto,  giudicato “inesistente tra le parti”. Secondo la società ricorrente, invece, la questione mai era stata sollevata, né contestata ex art. 115 c.p.c., in giudizio. Nello specifico, il giudice di secondo grado non si sarebbe avveduto del fatto che tale eccezione non aveva costituito oggetto del thema decidendum e, quindi, non avrebbe rimesso la causa a ruolo per consentirne la produzione nel rispetto del contraddittorio”.

Va precisato che la nullità del contratto per mancanza di forma scritta “ad substantiam” era stata eccepita soltanto in appello, ma in quella sede non è stata ritenuta tardiva (o preclusa dall’art. 345 c.p.c.), trattandosi, secondo la Corte, di eccezione rilevabile d’ufficio e fondata, perché, nel materiale documentale prodotto nei due gradi di giudizio, non figurava “alcun documento contrattuale sottoscritto dall’ASL e dalla struttura accreditata, avente ad oggetto la regolamentazione delle prestazioni sanitarie oggetto del ricorso monitorio”.

La ricorrente rilevava, inoltre, che l’ASL aveva “confermato l’esistenza di una pattuizione scritta disciplinante il rapporto tra l’erogatore ed essa P.A.”.

Ove, pertanto, la Corte d’appello avesse ritenuto indispensabile la produzione del contratto, avrebbe dovuto rimettere la causa sul ruolo, per disporre l’ordine di esibizione ex art. 210 c.p.c.

SOLUZIONE

La Suprema Corte, in accoglimento del ricorso, cassa con rinvio la sentenza impugnata, ritenendo corretta la soluzione accolta dal giudice di secondo grado, ma errato il “modus operandi” seguito.

La Cassazione osserva che il giudice di appello si è ritenuto legittimato al rilievo officioso dell’eccezione di nullità del contratto, reputando corretto che essa fosse una eccezione in senso lato. E’, dunque, esatto l’assunto in base al quale il contratto, tra l’ASL e la struttura che eroga le prestazioni sanitarie in regime convenzionato, deve avere, a pena di nullità, la forma scritta (cfr. Cass. 5 luglio 2018, n. 17588 e Cass. 11 marzo 2020, n. 7019).

Come anticipato, risulta, invece, erroneo il “modus operandi” che la Corte d’appello ha seguito per giungere al rigetto della domanda di pagamento.

Sul punto la giurisprudenza, da tempo, distingue tra il potere officioso di “rilevazione” e quello di “dichiarazione” della nullità e sottolinea come ad essi corrisponda – nel rispetto del principio del contraddittorio, ex art. 101, co. 2, c.p.c.  – “l’obbligo del giudice di provocare il contraddittorio” sulla questione posta a fondamento dell’eccezione.

Tale obbligo, si sostanzia concretamente in una sollecitazione, nei confronti delle parti, a “spiegare la conseguente attività probatoria”. La Suprema Corte giunge a tale statuizione, attribuendo questo unico possibile significato alla locuzione “memorie contenenti osservazioni sulle questioni” e, così, argomentando:“se il contenuto di tali memorie si dovesse limitare a un’attività assertiva”, si “tornerebbe, in buona sostanza, alle sentenze della «terza via»” (ossia, pronunce che contemplano una soluzione non precedentemente sottoposta al contraddittorio delle parti).

Se l’attività fosse solo assertiva, in altre parole, le osservazioni svolte dalle parti non risulterebbero in alcun modo funzionali a “coniugare il diritto di difesa delle parti con quelle esigenze di economia processuale che costituiscono, invece, la ratio dell’art. 101, comma 2, cod. proc. civ.” (così, Cass. sez. un. 12 dicembre 2014, n. 26242, cfr. anche Cass. 30 settembre 2020, n. 20870, ove, sempre in motivazione, si ribadisce che “le parti possono spiegare una attività probatoria in deroga al sistema delle preclusioni istruttorie” allorché il giudice abbia proceduto al rilievo officioso della nullità).

Pertanto, la Corte d’appello, avendo correttamente superato, sulla base del proprio potere di rilievo officioso, la preclusione – ex art. 345 c.p.c. – derivante dalla tardività dell’eccezione di nullità, per difetto di forma scritta, del contratto intercorso tra l’ASL e la concessionaria, avrebbe dovuto, nel contempo, sollecitare il contraddittorio delle parti in ordine all’assenza di “allegazione e prova” relativamente all’effettiva esistenza (o meno) di tale accordo scritto, consentendo, al riguardo, lo svolgimento non solo di attività assertiva, ma anche probatoria.

QUESTIONI

L’art. 1421 c.c. legittima chiunque vi abbia interesse a far valere le nullità (assolute) del contratto e dispone che la questione può essere rilevata d’ufficio dal giudice. Diverso discorso opera, ovviamente, per le nullità relative, il cui rilievo è limitato solo ad alcune categorie di legittimati (ad esempio, quella prevista dall’articolo 2913, oppure le clausole vessatorie non sottoscritte).

La nullità contrattuale costituisce, dunque, un vizio che trascende la singola vicenda negoziale tra le parti. La norma citata attribuisce all’organo giudicante un potere che, dalla lettura testuale, appare totalmente libero, sia nelle occasioni che lo fondano e sia nelle modalità di esercizio. La libertà risultante appare completa: la norma descrive, infatti, il potere del giudice come discrezionale. In altri termini, se si è verificata una delle varie nullità che possono viziare il contratto, rientra nei compiti del giudice di farne rilievo, con o senza la concomitante volontà delle parti.

Tuttavia, l’applicazione della norma in esame ha dato origine ad una serie di questioni di difficile risoluzione sul piano concreto. Una di queste ha riguardato il potere di rilevare d’ufficio la nullità, in antitesi al principio della domanda (art. 112 c.p.c.), che lascerebbe, invece, il giudice arbitro della validità del contratto e degli interessi delle parti. E più, in particolare si è reso necessario stabilire se l’attuazione del potere del giudice debba restare, o meno, vincolata alle allegazioni delle parti e al contenuto delle loro domande.

Sul tema si è aperto un acceso dibattito dottrinale e giurisprudenziale

Da un lato, parte della giurisprudenza ritiene che il principio dell’art. 112 c.p.c., quale limite invalicabile della domanda attorea, consente al giudice di pronunciarsi d’ufficio solo sulle eccezioni che rientrino tra quelle proponibili esclusivamente dalle parti e che non amplino la domanda. Tale principio trova fondamento nell’esigenza di mantenere la pronuncia del giudice, anche nell’esplicazione dei poteri d’ufficio, aderente al contenuto della materia del decidere. In tal senso, dunque, la nullità del contratto potrà essere rilevata soltanto ove si ponga, rispetto alla domanda dell’attore, in termini di mera difesa e non anche nella diversa ipotesi in cui costituisca un’eccezione di parte in senso stretto (Cass. 19 giugno 2008, n. 16621; Cass. 08 gennaio 2007, n. 89; Cass. 26 maggio 2006, n. 12627; Cass. 14 ottobre 2005, n. 19903; Cass. 4 marzo 1999, n. 1811).

Secondo questo orientamento, dunque, il giudice non è autorizzato a desumere i fatti dai quali emerge la nullità contrattuale al di fuori delle allegazioni delle parti e da quanto ha costituito oggetto di prova. Una diversa interpretazione significherebbe privare di ogni rilievo e ragione l’obbligo di rispettare le forme degli atti del processo e l’intero sistema delle preclusioni.

A favore della tesi enunciata vi sono anche evidenti ragioni di speditezza e di celerità del processo, compromesse ove si consentissero eccezioni e rilievi senza alcun limite (Cass. 22 giugno 2007, n. 14581).

Dall’altro, l’orientamento più recente – nel quale si colloca anche la pronuncia in commento – volto a ritenere possibile il rilievo d’ufficio (Cass. sez. un. 12 dicembre 2014, n. 26242, cit.; Giussani, Appunti dalla lezione sul giudicato delle Sezioni Unite, in Riv. dir. proc. civ., 2015, 1560, Verde, Sulla rilevabilità d’ufficio delle nullità negoziali, in Riv. dir. proc. civ., 2015, 747). Secondo tale impostazione, il rilievo d’ufficio della nullità risulta, dunque, essere fondato sulla possibilità per il giudice di indicare alle parti la questione rilevabile d’ufficio, sollecitando il contraddittorio in merito alla stessa,  in ossequio all’art. 101 c.p.c.

Il giudice, pertanto, ove ravvisi, al momento della decisione, una questione rilevabile d’ufficio, ma non trattata dalle parti (vale a dire, non resa oggetto di specifico contraddittorio), dovrà assegnare loro un termine per il deposito di memorie contenenti le rispettive osservazioni in proposito.

Tale rilievo non è subordinato alla specifica e tempestiva allegazione della parte, dovendosi ritenere sufficiente che i fatti allegati risultino documentati in giudizio (Cass. sez. un. 7 maggio 2013, n. 10531).

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