Revocatoria ordinaria nei confronti di un fallimento: una netta chiusura delle Sezioni Unite
di Massimo Di Terlizzi - Studio Pirola Pennuto Zei e Associati Scarica in PDFCassazione Civile, Sezioni Unite n. 30416 del 25 settembre 2018 (pubblicata il 23/11/2018)
Parole chiave: revocatoria ordinaria – actio pauliana – revocatoria fallimentare – natura costitutiva sentenza revocatoria – inammissibilità della revocatoria
Massima: “La sentenza che accoglie la domanda revocatoria, sia essa ordinaria o sia fallimentare, in forza di un diritto potestativo comune, al di là delle differenze esistenti tra le medesime, ma in considerazione dell’elemento soggettivo di comune accertamento da parte del giudice, quantomeno nella forma della scientia decoctionis, ha natura costitutiva, in quanto modifica ex post una situazione giuridica preesistente, sia privando di effetti, atti che avevano già conseguito piena efficacia, sia determinando, conseguentemente, la restituzione dei beni o delle somme oggetto di revoca alla funzione di generale garanzia patrimoniale ed alla soddisfazione dei creditori di una delle parti dell’atto: non è ammissibile un’azione revocatoria, non solo fallimentare ma neppure ordinaria, nei confronti di un fallimento, stante il principio di cristallizzazione del passivo alla data di apertura del concorso ed il carattere costitutivo delle predette azioni; il patrimonio del fallito è, infatti, insensibile alle pretese di soggetti che vantino titoli formatisi in epoca posteriore alla dichiarazione di fallimento e, dunque, poiché l’effetto giuridico favorevole all’attore in revocatoria si produce solo a seguito della sentenza di accoglimento, tale effetto non può essere invocato contro la massa dei creditori ove l’azione sia stata esperita dopo l’apertura della procedura stessa.”
Disposizioni applicate: art 2740 c.c. – art. 2901 c.c. – art. 2904 c.c. – 51, 52, 66 e 67 L.F.
Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione con la sentenza in commento tornano a pronunciarsi in merito alla azione revocatoria promossa nei confronti di un fallimento. La Corte territoriale di secondo grado aveva infatti accolto l’impugnazione proposta da una curatela fallimentare, che era rimasta soccombente nel giudizio avente ad oggetto l’azione revocatoria ex art. 66 L.F. proposta da un’altra procedura fallimentare. Secondo il ragionamento della Corte d’Appello, l’azione revocatoria ordinaria intrapresa dal fallimento sarebbe stata inammissibile per il divieto di cui all’art. 51 L.F.. La questione è stata così portata all’attenzione della Corte di Cassazione, che ha disposto la rimessione al Primo Presidente ai fini dell’assegnazione alle Sezioni Unite. L’ordinanza di rimessione sottolineava, in particolare, l’esistenza di un contrasto di opinioni in seno alla stessa Corte, una più recente ed una per così dire tradizionale.
La prima propenderebbe per l’improponibilità dell’azione revocatoria in quanto tale contro una procedura concorsuale, infatti, non sarebbe ammissibile un’azione revocatoria, ordinaria ovvero fallimentare, nei confronti di un fallimento per contrarietà al noto principio “di cristallizzazione della massa passiva alla data di apertura del concorso” (artt. 51 e 52 L.F), atteso che l’effetto giuridico favorevole all’attore in revocatoria si produrrebbe soltanto a seguito della sentenza (di natura costitutiva) di accoglimento della domanda (cfr. in tal senso Cassazione 12 maggio 2011 n. 10486 e Cassazione 8 marzo 2012 n. 3672).
La seconda, per così dire tradizionale e più risalente, al contrario, ritiene che ben potrebbe proseguire il giudizio revocatorio avanti lo stesso giudice, nonostante nelle more sia intervenuto il fallimento del soggetto convenuto in revocatoria (cfr. in tal senso, recentemente, anche Cassazione Sezioni Unite 17 dicembre 2008 n. 29421), atteso che è consentito al Curatore proseguire il giudizio intrapreso prima del fallimento dal singolo creditore, subentrando nella posizione di costui.
E’ bene subito precisare come le Sezioni Unite non abbiano ritenuto sussistente il contrasto suesposto affermando il principio in base al quale è inammissibile l’azione revocatoria nei confronti del fallimento, sia quella ordinaria, sia quella fallimentare.
Ma unitamente al (presunto) segnalato contrasto le Sezioni Unite rilevano che il tema della proponibilità della revocatoria contro un convenuto fallito si pone come questione di massima, di particolare importanza, ex art. 374 c.p.c., anche con riferimento ai casi di cui all’art. 91 D.Lgs 270/1999 che disciplina la revocatoria così detta “aggravata infragruppo” vale a dire di quegli spostamenti patrimoniali intervenuti fra società di un medesimo gruppo – e in avanzato stato di decozione – con lo scopo di favorire una massa creditoria a scapito di un’altra, alterando quindi la par condicio.
La pronuncia in commento è quindi di grande interesse dal momento che le Sezioni Unite affermano da un lato dei principi generali in materia di revocatoria e dall’altro si occupano, in particolare, della revocatoria aggravata infragruppo (anche se solo “di passaggio”).
Com’è noto nel nostro ordinamento coesistono tre “tipologie” di azioni revocatorie: i) “ordinaria”, c.d. actio pauliana, disciplinata dall’art. 2901 c.c., con finalità di tipo conservativo, mediante il cui esperimento il creditore può domandare all’organo giurisdizionale la dichiarazione di inefficacia di atti di disposizione del patrimonio che recano pregiudizio alla generale garanzia patrimoniale prevista dall’art. 2740 c.c. ii) “ordinaria fallimentare”, prevista dall’art. 66 L.F. che rimanda espressamente alle norme codicistiche in tema di revocatoria, ma si differenzia da quella precedente in quanto il soggetto legittimato ad agire è il Curatore Fallimentare che propone detta azione in favore della massa dei creditori e iii) “fallimentare”, prevista dall’art. 67 L.F., caratterizzata da una finalità anti-indennitaria o redistributiva, in quanto foriera di benefici per la massa dei creditori concorsuali.
In particolare, mediante l’actio pauliana il creditore può esperire detta azione provando l’esistenza dei presupposti ad essa sottesi, ovvero: a) il pregiudizio che il compimento dell’atto “revocando” avrebbe causato in capo ai creditori (cd. eventus damni) b) la consapevolezza da parte del debitore che l’atto avrebbe arrecato pregiudizio ai creditori (c.d. scientia damni) e c) la consapevolezza da parte del terzo, beneficiario dell’atto a titolo oneroso, del pregiudizio che questo avrebbe arrecato ai creditori (c.d. consilium fraudis). Al medesimo e gravoso onere probatorio è tenuto anche il Curatore Fallimentare nell’esperire l’azione prevista dall’art. 66 L.F., in quanto la stessa azione, prescritta nel termine di 5 anni dalla data dell’atto, ai sensi dell’art 2903 c.c., rimanda alle regole codicistiche dell’azione revocatoria.
Dalle precedenti si differenzia l’azione revocatoria fallimentare prevista dall’art. 67 L.F. che ha come presupposto soggettivo la dimostrazione da parte del Curatore Fallimentare della consapevolezza che l’atto è stato compiuto nella conoscenza dello stato di insolvenza del debitore (cd. scientia decoctionis). Lo stesso art. 67 L.F. prevede le categorie di atti che, se posti in essere durante il cd. “periodo sospetto”, ovvero il lasso di tempo antecedente la dichiarazione di fallimento, sarebbero soggetti a revocatoria. Tale spazio temporale sarebbe più lungo, fino a 2 anni per gli atti a titolo gratuito, 1 anno per gli atti cd. “anormali” e 6 mesi per gli atti “normali”; dunque, l’estensione di tale termine, da calcolare a ritroso dalla data di pubblicazione della sentenza di fallimento, sarebbe proporzionale al tipo di atto posto in essere. Allo stesso modo lo stesso art. 67 comma 3 L.F. prevede le ipotesi di esenzione al verificarsi delle quali non è possibile esperire l’azione revocatoria.
Secondo la Cassazione (nella sua massima composizione) la sentenza che accoglie la domanda revocatoria, sia essa ordinaria o fallimentare, in forza di un diritto potestativo comune, al di là delle differenze tra le medesime, “ha natura costitutiva, in quanto modifica ex post una situazione giuridica preesistente, sia privando di effetti, atti che avevano già conseguito piena efficacia, sia determinando, conseguentemente, la restituzione dei beni o delle somme oggetto di revoca alla funzione di generale garanzia patrimoniale (art. 2740 cc) e alla soddisfazione dei creditori di una delle parti dell’atto”.
Pertanto, è inammissibile una revocatoria fallimentare ovvero ordinaria nei confronti di un fallimento: se è vero infatti che la sentenza che accoglie la revocatoria (avente natura costitutiva poiché modifica ex post una situazione giuridica preesistente), è anche vero che questo contrasta con il principio della cristallizzazione del passivo alla data di apertura del concorso “il patrimonio del fallito è infatti insensibile alle pretese di soggetti che vantino titoli formatisi in epoca posteriore alla dichiarazione di fallimento e, dunque, poiché l’effetto giuridico favorevole all’attore in revocatoria si produce solo a seguito della sentenza di accoglimento, tale effetto non può essere invocato contro la massa dei creditori ove l’azione sia stata esperita dopo l’apertura della procedura”.
Infatti, se l’azione è esperita dopo l’apertura della procedura, l’attore in revocatoria non potrebbe invocare nei confronti della massa dei creditori un effetto giuridico che verrebbe a prodursi solo con la sentenza di accoglimento.
Con riferimento poi alla revocatoria infragruppo le Sezioni Unite della Corte osservano come tale procedura “speciale” sia ancorata a presupposti specifici (compimento di atti di trasferimento all’interno di un gruppo) “che non consentono di invocare ragioni di coerenza normativa e sistematica in grado di giustificare l’applicazione della regola dalla stessa posta anche alla procedura fallimentare, oltre il caso dalla stessa disciplinato”.
Le Sezioni Unite hanno così rigettato il ricorso proposto dalla ricorrente.
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