28 Marzo 2017

Retribuzione del fallito e fallimento

di Giuseppe Bertolino Scarica in PDF

Cassazione civile, Sezione VI-1, Sentenza, 19 dicembre 2016, n. 26201.

Pres. Dogliotti. Rel. Scaldaferri

Fallimento – beni non ricompresi – corrispettivo lavoro a progetto – integralità – esclusione  (r.d. 16 marzo 1942 n. 267, legge fallimentare, art. 46, primo comma, n.2)

[1] Non può essere acquisita alla massa fallimentare l’intera retribuzione spettante al fallito per attività di lavoro a progetto presso terzi, atteso che la lettera dell’art. 46, primo comma n.2 l. fall., non consente l’acquisizione alla procedura dell’integralità delle somme ricevute dal  fallito per la sua attività lavorativa.

 Fallimento – beni non ricompresi – emolumenti – istanza – esclusione 

(r.d. 16 marzo 1942 n. 267, legge fallimentare, art. 46, primo comma, n.2)

[2] Il fallito ha diritto a percepire e trattenere gli emolumenti necessari al mantenimento suo e della sua famiglia, la cui concreta determinazione è affidata al giudice delegato, anche in assenza di apposita istanza.

CASO

[1] [2] Il giudice delegato al fallimento del Tribunale di Lodi disponeva, con decreto, l’acquisizione alla massa fallimentare dell’intero corrispettivo spettante al sig. F.P., dichiarato fallito quale socio accomandatario della H. M. 2 s.a.s., per l’attività di lavoro a progetto presso terzi.

Il collegio del Tribunale di Lodi, con decreto depositato in cancelleria l’11 dicembre 2013, respingeva il reclamo proposto dal sig. F.P. avverso il decreto del G.D. rilevando che, in difetto di apposita istanza del fallito ex art. 46 l. fall., il giudice delegato aveva correttamente provveduto sulla richiesta di acquisizione formulata dal curatore.

Il collegio agiungeva che il fallito non aveva dimostrato quali erano i redditi degli eventuali familiari conviventi, in tal modo precludendo l’indagine volta ad individuare la parte dei  corrispettivi da riconoscere al fallito.

F.P. proponeva ricorso per cassazione avverso il decreto dell’11 dicembre 2013.

SOLUZIONE

[1] La Suprema Corte ha accolto il ricorso e cassato il provvedimento impugnato con rinvio, anche per le spese, al Tribunale di Lodi in diversa composizione.

La Corte ha condiviso integralmente le considerazioni del consigliere relatore, che aveva proposto la trattazione del ricorso in camera di consiglio per manifesta fondatezza, ai sensi degli artt. 375 e 376 c.p.c.

La Suprema Corte ha affermato che l’art. 46, primo comma n.2 l. fall., non prevede la necessità di alcuna istanza da parte del fallito, bensì delimita il perimetro dei beni non compresi nel fallimento, affidandone la concreta determinazione, in relazione alla necessità di mantenimento, alla discrezionalità del giudice delegato, che dovrebbe comunque ritenersi investito della necessità di compiere tale valutazione già con la sola richiesta del curatore.

La Corte ha aggiunto che la lettera dell’art. 46, primo comma n.2 l.fall., oltre che la ratio della norma, non consentono l’acquisizione alla procedura della integralità delle somme rinvenienti al fallito dalla sua attività lavorativa, come invece erroneamente affermato dal giudice delegato e dal collegio.

QUESTIONI

[1] Alcuni beni del fallito, nonostante il carattere tendenzialmente universale dello spossessamento sancito dall’art. 42 l. fall., sono espressamente esclusi dal vincolo espropriativo e restano nella disponibilità del fallito, o per decisione degli organi fallimentari, ai sensi dell’art. 42 comma secondo e dell’art. 104 ter l. fall., allorché l’attività di liquidazione appaia manifestamente non conveniente, ovvero poiché espressamente esclusi dal fallimento, secondo quanto previsto dall’art. 46 l. fall..

Quest’ultima disposizione individua una serie tassativa di beni e diritti, che non sono compresi nello spossessamento.

Il primo comma, n. 2, dell’art. 46 l. fall. elenca tra i beni esclusi dal fallimento gli assegni aventi carattere alimentare, gli stipendi, le pensioni, i salari e ciò che il fallito guadagna con la sua attività, nei limiti di quanto occorre per il mantenimento suo e della sua famiglia.

L’elencazione riportata nel citato primo comma, n.2 dell’art. 46 l. fall. è meramente esemplificativa, come desumibile dall’inciso che fa genericamente riferimento a tutto ciò che il fallito percepisce con la propria attività.

La norma induce ad escludere dallo spossessamento fallimentare non solo gli stipendi, i salari e le pensioni, ma anche i proventi di un’attività di lavoro autonomo e di piccola impresa (Guglielmucci, Effetti del fallimento per il fallito, in Commentario Scialoja-Branca alla legge fallimentare, artt. 42-50, Bologna-Roma, 1986, pag. 13 e ss.).

La novella del 2006 ha espressamente previsto, al secondo comma, che il giudice delegato debba tenere conto della condizione personale del fallito e della sua famiglia, con ciò dettando un criterio che tende a disancorare la nozione di «mantenimento» da quella degli «alimenti» di cui all’art. 47 l. fall..

La disposizione in questione è l’espressione di un favor nei confronti del fallito, la cui ratio va rinvenuta nella volontà del legislatore di attribuire concreta rilevanza all’interesse familiare.

La Suprema Corte, con la sentenza in commento, precisa che l’art. 46, primo comma n.2 l. fall., elencando i beni non ricompresi nel fallimento, affida la concreta determinazione alla discrezionalità del giudice delegato, il quale deve determinare la quota necessaria per il mantenimento del fallito anche in assenza di apposita istanza dello stesso fallito.

Il giudice delegato, tuttavia, esercita un potere discrezionale e deve considerare, da un lato, che il mantenimento del fallito e della sua famiglia non può essere ridotto alle esigenze puramente alimentari (a differenza di quanto previsto dal successivo art. 47 l.fall), ma deve essere quantificato in una misura che costituisca premio ed incentivo per l’attività produttiva e reddituale del fallito.

In precedenti arresti la Corte aveva stabilito che il diritto del fallito di percepire e trattenere gli emolumenti necessari al mantenimento suo e della sua famiglia sussiste prima ed indipendentemente dal decreto del giudice delegato che ne fissi la misura (Cass., sezione prima, 8 aprile 2015, n. 6999; Cass., sezione prima, 31 ottobre 2012, n.18843).

La pronuncia della Corte è da condividere perché garantisce il rispetto della ratio della norma e dei principi dell’articolo 36 della Costituzione, per il quale il lavoratore (nella fattispecie dichiarato fallito) ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa.