Responsabilità ex art. 96, 3° comma, c.p.c. e «manifesta insostenibilità» delle difese
di Massimo Brunialti Scarica in PDFCass., 29 settembre 2016, n. 19298 – Presidente Chiarini – Relatore Rossetti
Spese giudiziali civili – Manifesta insostenibilità della tesi – responsabilità aggravata
[1] La manifesta insostenibilità della tesi prospettata in giudizio è sanzionabile ai sensi dell’art. 96, 3° comma, c.p.c. perché implica abuso del processo e perché è in contrasto coi principi della ragionevole durata del processo e dell’economia processuale.
Cost., art. 111; cod. proc. civ., art. 96
CASO
[1] La vicenda prende le mosse da un incarico conferito da un privato ad una ditta, per l’installazione di condizionatori d’aria rivelatisi inefficienti. Su indicazione di un collaboratore dell’installatore, secondo cui la causa del malfunzionamento era da imputare a una perdita delle tubazioni montate da altra impresa, il committente ha proceduto alla demolizione di una parte della muratura per mettere a nudo la tubazione e ripararla. Tuttavia, all’esito della ricerca, si è accertato che la causa del malfunzionamento non era da addebitare ad una rottura delle tubazioni ma a un difetto dei condizionatori; per cui il committente ha chiesto in via giudiziale la condanna dell’appaltatrice alla rifusione delle spese inutilmente sostenute per la ricerca della perdita e per il ripristino della muratura dell’appartamento. Il giudice di pace di Monza ha accolto la domanda di condanna, che è stata confermata in appello dal Tribunale di Monza.
Avverso la pronuncia del Tribunale la soccombente ha proposto ricorso per cassazione fondando l’impugnazione su tre motivi, dichiarati tutti inammissibili (o parzialmente infondati) dal giudice di legittimità.
In particolare, col terzo motivo il ricorrente ha lamentato l’illegittima applicazione dell’art. 96, 3° comma, c.p.c. da parte del tribunale, in quanto, a parere del ricorrente: 1) la soccombenza è dipesa da valutazioni erronee delle circostanze di fatto; 2) dalla mera opinabilità delle argomentazioni non può scaturire la condanna per lite temeraria; 3) la liquidazione del quantum del danno per responsabilità aggravata è stata abnorme perché determinata in misura percentuale alle spese legali.
SOLUZIONE
[1] La Cassazione ha rigettato il ricorso anzitutto in base al motivo per cui, pur aderendo alla tesi secondo la quale l’art. 96, 3° comma, c.p.c. presuppone i requisiti del dolo (rectius: mala fede) o della colpa grave (v. tra le tante Cass. 19 aprile 2016, n. 7726, in Foro it., Rep. 2016, voce Spese giudiziali civili, n. 23; 30 ottobre 2015, n. 22289, ibid., n. 45; 11 febbraio 2014, n. 3003, id., Rep. 2014, voce cit., n. 65), il loro accertamento implica un apprezzamento di fatto insuscettibile di censura in sede di legittimità (all’uopo evoca Cass. 12 gennaio 2010, n. 327, in id., Rep. 2010, voce cit., n. 80. Adde Cass. 23 giugno 2011, n. 13827, id., Rep. 2012, voce cit., n. 60; Cass., 8 settembre 2003, n. 13071, id., Rep. 2003, voce cit., n. 72).
In secondo luogo, ha ritenuto logicamente coerente e sufficientemente corretta la condanna per responsabilità aggravata comminata dal giudice a quo, avendola fondata sul fatto che il ricorrente: 1) ha sostenuto circostanze di fatto «manifestamente infondate»; 2) ha proposto domande di manleva avverso terzi «palesemente estranei alla vicenda»; 3) ha addotto tesi giuridiche (non semplicemente ma) «palesemente infondate».
In terzo luogo, la Cassazione ha precisato che se è pur vero che il giudice di legittimità in passato ha ritenuto la mera infondatezza delle tesi prospettate di per sé non sufficiente ad integrare gli estremi della lite temeraria (cfr. Cass. 2 aprile 2015, n. 6675, in id., Rep. 2015, voce cit., n. 76; 30 giugno 2010, n. 15629, id., Rep. 2010, voce cit., n. 66), è altresì vero che la compresenza di altri elementi rivelatori della palese inconsistenza dei motivi posti a sostegno della tesi difensiva (come, nella specie, la non veridicità dei fatti addotti e la pretestuosità della chiamata del terzo) costituisce «indice sintomatico della colpa grave».
In ogni caso, aggiunge infine la Corte, l’orientamento richiamato non è più coerente «né con la natura e la funzione del giudizio di legittimità, né col quadro ordinamentale».
QUESTIONI
[1] Con riferimento a quest’ultimo motivo di rigetto, la pronuncia in rassegna (annotata da S. Calvetti, Tesi giuridiche palesemente infondate? Giusta la condanna per la responsabilità aggravata, in Dir. e gius.¸ fasc. 55, 2016, 11) pone l’accento su due questioni: 1) sullo scarto tra la precedente e l’attuale disciplina della funzione nomofilattica della Cassazione, qui rilevante a fronte dell’inammissibilità dello specifico motivo; 2) sul mutamento, più in generale, del «quadro ordinamentale».
Quanta alla prima, il provvedimento fa riferimento al tentativo del legislatore di recuperare e rafforzare il ruolo tipico di giudice della nomofilachia cui deve attendere la Corte di legittimità e lo fa attraverso il richiamo: dell’art. 360 bis c.p.c. (introdotto dalla l. 18 giugno 2009, n. 69) sul c.d. «filtro» in Cassazione (in dottrina ex plurimis cfr. G. Costantino, La riforma del giudizio di legittimità: la Cassazione con filtro, in Giur. it., 2009, 1560 ss.; C. Consolo, Dal filtro in Cassazione ad un temperato «stare decisis»: la prima ordinanza sull’art. 360-bis, in Corriere giur., 2010, 1405; G. Reali, Il «filtro» in cassazione e la sua applicazione, in Annali facoltà giurisprudenza Taranto, 2009, 421; M. Gerardo e A. Mutarelli, Certezza del diritto e conoscibilità del «filtro» di cui all’art. 360 bis n. 1 c.p.c., in www.judicium.it;); del novellato art. 363, 1° comma, c.p.c. (modificato dal d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40), che ha previsto nuovi casi in cui il Procuratore generale presso la Corte di cassazione può chiedere che la Corte enunci nell’interesse della legge il principio di diritto al quale il giudice di merito avrebbe dovuto attenersi; e dell’art. 374, 3° comma, c.p.c. (introdotto anch’esso dal citato d.lgs. del 2006) il quale vincola le sezioni semplici a rimettere alle sezioni unite la decisione del ricorso allorché non ne condividano il principio di diritto enunciato su casi analoghi.
In merito alla seconda questione, invece, per la Corte quell’orientamento non è più in linea col mutato quadro ordinamentale, posto che: 1) non tiene conto della necessità di interpretare le norme processuali in funzione della celerità del giudizio, come impone il principio della ragionevole durata del processo (art. 111 Cost.); 2) non tiene conto del principio secondo cui costituisce abuso del processo adire l’autorità giudiziaria per finalità meramente strumentali (a tal fine richiama Cass. 18 maggio 2015, n. 10177, Foro it., Rep. 2015, voce Procedimento civile, n. 121); 3) non tiene conto del fatto che le norme processuali debbono essere interpretate in modo da non disperdere «energie giurisdizionali» (in tal senso evoca Cass. sez. un. 15 giugno 2015, n. 12310, in id, 2015, I, 3174, con nota di A. Motto, Le sezioni unite sulla modificazione della domanda giudiziale, nonché id., 2016, I, 255, con nota di C. Cea, Tra «mutatio» ed «emendatio libelli»: per una diversa interpretazione dell’art. 183 c.p.c.).
In ultima analisi, la Corte sottolinea che l’orientamento in parola è stato comunque superato dalla giurisprudenza di legittimità più recente, secondo cui «Ai fini della condanna ex art. 385, 4º comma, c.p.c., (applicabile ratione temporis), ovvero ex art. 96, 3º comma, c.p.c., l’infondatezza in iure delle tesi prospettate in sede di legittimità, in quanto contrastanti con il diritto vivente e con la giurisprudenza consolidata, costituisce indizio di colpa grave così valutabile in coerenza con il progressivo rafforzamento del ruolo di nomofilachia della suprema corte, nonché con il mutato quadro ordinamentale, quale desumibile dai principi di ragionevole durata del processo (art. 111 cost.), di illeicità dell’abuso del processo e di necessità di una interpretazione delle norme processuali che non comporti spreco di energie giurisdizionali» (in tal senso ha richiamato Cass. 22 febbraio 2016, n. 3376, id., Rep. 2016, voce Cassazione civile, n. 129; 17 luglio 2015, n. 15030, id., Rep. 2015, voce cit., n. 239; 12 marzo 2015, n. 4930, ibid., n. 240; ibid., n. 241. Cui adde Trib. Bari 29 maggio 2015, id., Rep. 2016, voce Spese giudiziali civili, n. 67).
È ampia la casistica sull’ambito di applicabilità dell’art. 96, 3° comma, c.p.c. Tra le pronunce più recenti cfr. Cass. 14 settembre 2016, n. 18057, ibid., n. 14, secondo cui «va condannata ai sensi dell’art. 96, 3º comma, c.p.c. la parte che non abbia adoperato la normale diligenza per acquisire la coscienza dell’infondatezza della propria posizione e comunque abbia agito senza aver compiuto alcun serio sforzo interpretativo, deduttivo, argomentativo, per mettere in discussione con criteri e metodo di scientificità la giurisprudenza consolidata ed avvedersi della totale carenza di fondamento del ricorso»; Trib. Roma 7 luglio 2015, id., Rep. 2016, voce Sequestro conservativo, n. 12, sulla condotta processuale meramente strumentale ed emulativa; Trib. Padova 10 marzo 2015, id., Rep. 2016, voce Spese giudiziali civili, n. 70, sull’ignoranza inescusabile del dettato normativo e dell’evoluzione giurisprudenziale citata a sproposito, nonché sul dolo processuale sotteso al tentativo di indurre in errore il giudicante sull’effettivo contenuto di una pronuncia di legittimità richiamata a sostegno della propria tesi.