Responsabilità del liquidatore nei confronti dei creditori pretermessi tra il rispetto del principio della par condicio creditorum e l’onere della dichiarazione del fallimento in proprio
di Giulia Ferrari, Avvocato Scarica in PDFCass. Civ., sez. III, Ord. 15 gennaio 2020, n. 521– Pres. Armano – Rel. Fiecconi
Parole chiave: stato di insolvenza, accertamento dello stato di insolvenza, liquidatore, responsabilità del liquidatore, par condicio creditorum, creditori sociali pretermessi, cancellazione società, fallimento in proprio.
Massima: In tema di responsabilità del liquidatore nei confronti dei creditori sociali rimasti insoddisfatti dopo la cancellazione della società ex art. 2495 secondo comma c.c., il conseguimento, nel bilancio finale di liquidazione, di un azzeramento della massa attiva non in grado di soddisfare un credito comunque provato quanto alla sua sussistenza già nella fase di liquidazione, è fonte di responsabilità illimitata del liquidatore verso il creditore pretermesso, qualora sia allegato e dimostrato che la gestione operata dal liquidatore evidenzi l’esecuzione di pagamenti in spregio del principio della par conditio creditorum e delle cause legittime di prelazione.
Disposizioni applicate: artt. 2495 c.c., 2741 c.c.; R.D. 16 marzo 1942, n. 267: artt. 6 e 14.
CASO
L’ente Alfa ha agito, ex art. 2495 c.c., per l’accertamento della responsabilità del liquidatore della società Beta, in ragione del mancato recupero dei contributi previdenziali maturati e non versati da Beta e per aver il liquidatore cancellato la società e provveduto al pagamento di alcuni debiti della stessa senza tenere conto del credito di Alfa assistito da privilegio generale, credito che peraltro non era stato appostato nel bilancio finale di liquidazione. La società Beta era stata posta in liquidazione per perdite il 25 gennaio 2006 e cancellata dal registro delle imprese il 1° marzo dello stesso anno. L’ente Alfa lamentava in particolare che, essendo la società Beta già all’apertura della fase di liquidazione in grave stato di insolvenza ed in totale perdita del capitale sociale, il liquidatore avrebbe dovuto provvedere ad attivare la procedura di fallimento in proprio ex art. 6 e 14 L.F. (nella versione vigente ratione temporis), circostanza che a dire di Alfa avrebbe consentito una migliore ripartizione dell’attivo ed il rispetto della par condicio creditorum.
La Corte di Appello rigettava le domande di Alfa affermando da un canto che la responsabilità del liquidatore per l’omesso soddisfacimento di un debito sociale andrebbe esclusa nel caso in cui il mancato pagamento sia stato dovuto all’insussistenza di attivi per procedere al suo soddisfacimento e dall’altro che la mancata richiesta di fallimento in proprio della società, in assenza di prova che attesti che tale declaratoria avrebbe consentito una migliore soddisfazione dei creditori, non poteva integrare un’ipotesi di responsabilità del liquidatore.
SOLUZIONE
La Corte di Cassazione, accogliendo il ricorso di Alfa avverso la pronuncia della Corte di Appello, ha affermato che il principio della par condicio creditorum è da considerarsi quale criterio generale per la valutazione della condotta del liquidatore, anche a prescindere dall’apertura della procedura concorsuale, pertanto nel caso in cui sia data prova del fatto che la gestione del liquidatore sia stata condotta in spregio a tale principio e in spregio al rispetto delle clausole legittime di prelazione, il creditore pretermesso ha titolo per reclamare il danno.
QUESTIONI
Il caso in esame attiene ad uno dei momenti forse più delicati e complessi, anche se spesso trascurati dagli operatori, della vita di una società ossia la fase di liquidazione. Tale fase, che generalmente si apre proprio per una già manifestata situazione di crisi lato sensu dell’impresa o di squilibrio economico-patrimoniale, è caratterizzata da regole di condotta rigide a carico del liquidatore nominato ex art. 2487 c.c., la cui violazione determina delle rilevanti responsabilità. Anche la cancellazione della società dal registro delle imprese, adempimento fisiologico di chiusura della fase di liquidazione, e quindi l’estinzione della stessa, è lontana dall’essere un salvacondotto per ovviare a tali responsabilità.
La pronuncia in commento offre lo spunto per approfondire, in questa sede, due aspetti in particolare: il primo relativo ai confini della responsabilità del liquidatore nei confronti del creditore sociale non soddisfatto (c.d. creditore pretermesso) ex art. 2495 secondo comma c.c., il secondo relativo all’onere del liquidatore rispetto all’attivazione della procedura di fallimento in proprio ex art. 14 L.F.
Con riferimento al primo profilo, richiamiamo il dettato dell’art. 2495 secondo comma, sopra citato, ai sensi del quale “ferma restando l’estinzione della società, dopo la cancellazione, i creditori sociali non soddisfatti possono far valere i loro crediti nei confronti dei soci, sino alla concorrenza delle somme dagli stessi riscosse in base al bilancio finale di liquidazione (profilo che qui non interessa n.d.r.) e nei confronti dei liquidatori, se il mancato pagamento è dipeso da colpa di questi”.
Gli Ermellini introducono le proprie argomentazioni richiamandosi all’evoluzione giurisprudenziale sul punto e affermando che il comportamento del liquidatore deve uniformarsi al principio della par condicio creditorum il quale integra un parametro generale di condotta. Sebbene detto obbligo, infatti, non sia espressamente menzionato nella normativa di settore, tale principio è ricavabile dalle norme generali che, agli articoli 2740 e 2741 c.c., regolano il concorso dei creditori e le cause di prelazione, in particolare laddove si prescrive l’obbligo del debitore di effettuare i pagamenti rispettando il diritto dei creditori di essere egualmente soddisfatti, “salve le cause legittime di prelazione.
Pertanto, è da ritenersi responsabile per mala gestio il liquidatore che, in presenza di una situazione di sostanziale insolvenza, abbia violato la par condicio consentendo la pretermissione di un credito assistito da privilegio, ovvero abbia eseguito pagamenti a favore di taluni creditori a scapito di altri.
Individuato tale parametro generale di valutazione della condotta del liquidatore, i Giudici di legittimità esaminano i profili di peculiarità della responsabilità ex art. 2495 c.c. Sulla scorta del fatto che tale responsabilità è da considerarsi “illimitata” – in quanto diversamente da quella dei soci non soggiace a limiti in termini di ammontare – gli Ermellini hanno affermato che ai fini della sua configurazione “non rileva tanto la sussistenza o meno di un residuo attivo da ripartire tra i soci nel bilancio finale di liquidazione, né tantomeno l’appostazione o meno nel bilancio finale di liquidazione del corrispondente debito sociale non pagato, quanto piuttosto l’indicazione, da parte del creditore che agisce in responsabilità, del credito sociale non considerato e dello specifico danno subito in rapporto ad altri crediti andati soddisfatti, poiché, tramite il richiamo alla colpa del liquidatore, occorre dedurre e allegare le specifiche condotte del liquidatore che si pongono in violazione degli obblighi connaturati all’incarico ricevuto”.
Pertanto, diversamente da quanto argomentato dalla Corte d’appello, l’insussistenza di attivo non è rilevante ai fini dell’esclusione della responsabilità del liquidatore nella misura in cui venga data prova del fatto che l’esaurimento dell’attivo stesso sia riconducibile ad un utilizzo della massa attiva della società per il pagamento di alcuni creditori invece che di altri, in violazione della par condicio creditorum.
Il creditore rimasto insoddisfatto dall’attività di liquidazione, anche qualora la società sia stata cancellata, potrà far valere la responsabilità del liquidatore, lamentando il mancato soddisfacimento di un diritto di credito che dovrà provare come esistente, liquido ed esigibile al tempo dell’apertura della fase liquidatoria e il conseguente danno determinato dall’inadempimento del liquidatore alle sue obbligazioni, astrattamente idoneo a provocare la lesione del menzionato credito, con riferimento alla natura di quest’ultimo e al suo grado di priorità rispetto ad altri andati soddisfatti.
Con riferimento al secondo profilo i Giudici di Legittimità hanno poi affermato che la responsabilità “illimitata” del liquidatore nei confronti dei creditori pretermessi, prevista dall’art. 2495 secondo comma c.c., prescinde dall’accertamento di un formale stato di insolvenza della società da parte del liquidatore. In sostanza la mancata attivazione della procedura di dichiarazione di fallimento in proprio rileva ai fini di valutare la sussistenza del reato di bancarotta ex art. 217, primo comma, n. 4) L.F., reato che si perfeziona nel caso in cui l’imprenditore abbia “aggravato il proprio dissesto astenendosi dal richiedere la dichiarazione del proprio fallimento o con altra grave colpa”.
Con riferimento a tali profili, la giurisprudenza di legittimità è consolidata nell’affermare che la condotta di omessa dichiarazione del proprio fallimento, per essere rilevante ai fini dell’integrazione del sopraccitato reato di bancarotta, da un canto deve aver determinato un aggravamento del dissesto delle società, inteso “non tanto una condizione di generico disordine dell’attività della società, quanto una situazione di squilibrio economico patrimoniale progressivo ed ingravescente, che, se non fronteggiata con opportuni provvedimenti o con la presa d’atto dell’impossibilità di proseguire l’attività, può comportare l’aggravamento inarrestabile della situazione debitoria, con conseguente incremento del danno che l’inevitabile, e non evitata, insolvenza finisce per procurare alla massa dei creditori” (Cass. Penale Sez. IV, n. 32899 del 25/05/2011); dall’altro deve essere stata perpetrata con colpa grave (Cass Penale Sez. V, n. 43414 del 25/09/2013).