Responsabilità degli enti e profitto del reato
di Luigi Ferrajoli Scarica in PDFCon la sentenza n. 34900 del 9 giugno 2016, depositata il successivo 16 agosto, la Sesta Sezione della Corte di Cassazione ha chiarito che una società è responsabile per malversazione ai danni dello Stato se i suoi amministratori impiegano i finanziamenti pubblici per scopi diversi da quelli per i quali sono stati erogati.
Nel caso specifico, la Corte di appello di Potenza, riformando la sentenza di assoluzione del G.u.p. del Tribunale di Matera, aveva confermato la responsabilità ex articolo 316-bis c.p. degli amministratori di una S.r.l. e di una S.p.a nonché la responsabilità per l’illecito amministrativo di cui all’articolo 24 commi 1 e 2 del D.Lgs. 231/2001(“1. In relazione alla commissione dei delitti di cui agli articoli 316-bis…se commesso in danno dello Stato … si applica all’ente la sanzione pecuniaria fino a cinquecento quote. 2. Se, in seguito alla commissione dei delitti di cui al comma 1, l’ente ha conseguito un profitto di rilevante entità o è derivato un danno di particolare gravità si applica la sanzione pecuniaria da duecento a seicento quote”), per la S.p.a. medesima con riferimento, appunto, al reato di cui all’articolo 316-bis c.p..
Il processo penale aveva preso le mosse da un finanziamento statale di oltre 3 milioni di euro in favore della S.r.l. su un complesso industriale composto da un pastificio con annesso mulino, in deroga alla normativa comunitaria che vieta incentivi all’industria di macinazione di grano. Tale divieto era stato aggirato in quanto la S.r.l. aveva dichiarato che la finalità sottesa a detta erogazione era consistita nella promozione dei sistemi imprenditoriali locali. Il contributo de quo era inoltre subordinato al divieto assoluto di vendita a terzi della semola prodotta dal mulino, impegno non rispettato dalla società in parola atteso che il mulino stesso era stato, dapprima, affittato e, poi, venduto tramite cessione di ramo di azienda alla menzionata S.p.a che aveva utilizzato il grano prodotto anche presso altri pastifici, eludendo così il divieto di cessione.
Investita della questione tramite i ricorsi proposti dagli amministratori e dalla società, la Suprema Corte ha ritenuto pacifica l’elusione del vincolo di destinazione imposto con il finanziamento pubblico erogato alla S.r.l., essendo stato stravolto l’obiettivo per il quale il progetto industriale era stato finanziato.
Invero, il conferimento della semola ad un diverso pastificio, sebbene appartenente al soggetto cui era stato dapprima affittato e poi ceduto il ramo d’azienda, configurava la violazione dell’obbligo cui era subordinata la concessione del contributo integrante l’illecito contestato, in applicazione dei principi affermati dalla Cassazione, secondo i quali “l’interesse tutelato dall’art. 316 bis c.p. è quello alla corretta gestione delle risorse pubbliche destinate all’incentivazione economica ed alla repressione delle frodi successive al conseguimento delle prestazioni pubbliche, tant’è che il delitto si realizza nel momento in cui si attua la mancata destinazione dei fondi allo scopo per il quale erano stati ottenuti”.
La Sesta Sezione penale ha, inoltre, ravvisato nella condotta degli amministratori la volontà cosciente di sottrarre le risorse finanziate allo scopo prefissato con evidente vantaggio per la S.p.a., dapprima affittuaria e, in seguito, acquirente del ramo d’azienda.
Ciò posto, è indubbio che il reato dal quale deriva la responsabilità amministrativa dell’ente è la malversazione a danno dello Stato “realizzato mediante la stipula di detti contratti, riconducibili alla figura del reato contratto, in quanto tramite detti strumenti negoziali, ispirati ab origine da finalità illecita” la società medesima “ha acquisito al proprio patrimonio il mulino, costruito con i fondi pubblici, dei quali detta società non avrebbe mai potuto beneficiare”.
Poiché, inoltre, il bene costituente il profitto del reato era rappresentato dal mulino stesso – di derivazione diretta dal delitto ed inserito nella catena produttiva della società acquirente -, la Suprema Corte ha ritenuto il medesimo interamente confiscabile, non essendo possibile, in presenza di un contratto di matrice illecita, distinguere tra profitto ed utile netto.
Ciò in quanto, in tema di responsabilità da reato degli enti, “il profitto del reato si identifica solo con il vantaggio economico di diretta ed immediata derivazione causale dal reato presupposto e non può essere calcolato al netto dei costi sostenuti per ottenerlo” o altrimenti determinato facendo ricorso a parametri valutativi di tipo aziendalistico, quali il “profitto lordo” o il “profitto netto”, ma “si identifica con il concreto vantaggioconseguito dalla commissione del reato presupposto” (in tal senso, Cassazione n. 33226/2015 e n. 15249/2014).
Alla luce di tali assunti, ben si comprende come la Corte di Cassazione ha dichiarato inammissibili i ricorsi avanzati e condannato i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
Articolo tratto da “Euroconferencenews“