Responsabilità per danno ambientale
di Martina Mazzei, Avvocato Scarica in PDFLa responsabilità per danno ambientale è stata introdotta per la prima volta nell’ordinamento italiano con la Legge 8 luglio 1986, n. 349, istitutiva del Ministero dell’ambiente. L’illecito ambientale veniva definito all’art. 18, co. 1, come «qualunque fatto doloso o colposo in violazione di disposizioni di legge o di provvedimenti adottati in base a legge che comprometta l’ambiente, ad esso arrecando danno, alterandolo, deteriorandolo o distruggendolo in tutto o in parte». La disciplina del 1986, predisposta con funzione deterrente e sanzionatoria in quanto imputava la responsabilità in base ad un criterio soggettivo, si mostrò, tuttavia, insufficiente a tutelare il bene ambiente.
I numerosi interventi a livello internazionale ed europeo, tra cui il Libro Verde sul risarcimento dei danni all’ambiente del 1993, la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla responsabilità civile per danno all’ambiente da attività pericolose ratificata a Lugano nel 1993 e il Libro Bianco sulla responsabilità per danni all’ambiente del 2000, hanno contribuito a modificare la nozione di danno ambientale.
In particolare, il quadro normativo è profondamente mutato con l’emanazione della Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 2004/35/CE sulla responsabilità ambientale in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale, recepita nell’ordinamento italiano in tre fasi. Tale direttiva, che persegue l’obiettivo di istituire una disciplina comune per la prevenzione e riparazione del danno ambientale a livello comunitario, si occupa, in particolare, della nozione di danno ambientale e di operatore responsabile; della definizione delle attività soggette al regime di responsabilità; del criterio di imputazione della responsabilità; delle azioni e della legittimazione attiva e, infine, delle modalità di riparazione del danno.
La direttiva, all’art. 2, co. 1, individua tre specifiche risorse ambientali la cui lesione costituisce danno ambientale. Si fa riferimento in particolare al:
danno alle specie e agli habitat naturali protetti ossia qualsiasi danno che produca effetti negativi sul raggiungimento mantenimento di uno stato di conservazione favorevoli di tali specie habitat;
danno alle acque, ossia qualsiasi danno che incide in modo significativamente negativo sullo stato ecologico, chimico o quantitativo o il potenziale ecologico delle acque interne, nonché sullo stato ambientale delle acque marine;
danno al terreno, vale a dire qualsiasi contaminazione del terreno che crei un rischio significativo di effetti negativi sulla salute umana a seguito dell’introduzione, diretta o indiretta nel suolo, sul suolo e nel sottosuolo di sostanze, preparati, organismi o microrganismi nel suolo.
La direttiva 2004/35/CE fornisce altresì la nozione di danno ambientale all’art. 2, co. 2, intendendolo quale «mutamento negativo misurabile di una risorsa naturale o un deterioramento misurabile di un servizio di una risorsa naturale, che può prodursi direttamente o indirettamente».
Il recepimento della direttiva nell’ordinamento italiano è avvenuto in tre fasi:
Nel 2006 è stato emanato il D.lgs. 3 aprile 2006, n. 152, il c.d. Codice dell’ambiente, con cui è stata parzialmente recepita la direttiva ed è stato abrogato l’art. 18 della L. 8 luglio 1986, n. 349. La disciplina della responsabilità per danno ambientale è prevista nella Parte VI del decreto la quale contiene le norme in materia di tutela risarcitoria contro i danni all’ambiente. Nel titolo II (artt. 304-310) in particolare, è stato riprodotto in parte il modello di responsabilità oggettiva della direttiva europea, mentre nel titolo III (artt. 311-318) è stato introdotto un regime di responsabilità soggettiva generalizzato.
Nel 2008 la Commissione europea ha avviato la procedura di infrazione nei confronti dell’Italia per violazione del diritto UE per la non corretta trasposizione della direttiva 2004/35/CE sulla responsabilità ambientale in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale. Per far fronte a tali contestazioni è stato emanato l’art. 5-bis del D.L. 25 settembre 2009, n. 13, con cui è stato modificato il testo di alcuni articoli del Codice, senza però risolvere completamente il problema del non corretto recepimento della direttiva.
Nel 2012 l’Italia ha ricevuto un ulteriore contestazione dalla Commissione europea, per superare la quale il legislatore italiano ha predisposto delle modifiche ulteriori al Codice dell’ambiente, attraverso l’art. 25 della L. 6 agosto 2013, n. 97, che hanno portano a un completo recepimento della disciplina comunitaria in materia ambientale.
Ad oggi, quindi, per danno ambientale si intende, ai sensi dell’art. 300, co. 1, del Codice ambiente «qualsiasi deterioramento significativo e misurabile, diretto e indiretto, di una risorsa naturale o dell’utilità assicurata da quest’ultima».
Il successivo co. 2 dispone, poi, che costituisce danno ambientale, ai sensi della direttiva 2004/35/CE, il deterioramento, in confronto alle condizioni originarie, provocato alle specie e agli habitat naturali protetti dalla normativa nazionale e comunitaria; alle acque interne mediante azioni che incidono in modo significativamente negativo sullo stato ecologico, chimico o quantitativo oppure sul potenziale ecologico delle acque interessate; alle acque costiere ed a quelle ricomprese nel mare territoriale mediante le azioni suddette, anche se svolte in acque internazionali; al terreno, mediante qualsiasi contaminazione che crei il rischio significativo di effetti nocivi, anche indiretta, sulla salute umana a seguito dell’introduzione nel suolo, sul suolo e nel sottosuolo di sostanze, preparati, organismi o microrganismi nocivi per l’ambiente.
La nozione di danno ambientale fornita dall’art. 300 D. lgs. 152/2006 coincide, pertanto, con quella prevista all’art. 2, co. 1 e 2 della direttiva 2004/5/CE. Entrambe le definizioni, infatti, fanno riferimento al deterioramento, diretto o indiretto, di una risorsa naturale o della funzione che essa svolge, e individuano nelle specie, negli habitat naturali protetti (ossia le biodiversità), nelle acque e nel terreno, gli elementi identificativi della risorsa naturale.