26 Ottobre 2021

Requisiti minimi di una scrittura privata ai fini della sua configurabilità quale testamento

di Matteo Ramponi, Avvocato Scarica in PDF

Cassazione Civile, Sezione 6 – sottosezione 2, ordinanza n. 25936 del 24/09/2021 

SUCCESSIONI – Successioni testamentarie – Scrittura privata – Validità come testamento olografo – Presupposti – Mero progetto sul godimento dei suoi beni – Sufficienza – Esclusione – Atto di disposizione del proprio patrimonio – Per il tempo successivo al suo decesso – Accertamento – Necessità

Perché un atto costituisca disposizione testamentaria, è necessario che lo scritto contenga la manifestazione di una volontà definitiva dell’autore, compiutamente e incondizionatamente formata, diretta allo scopo di disporre attualmente dei suoi beni, in tutto o in parte, per il tempo successivo alla propria morte; pertanto, ai fini della configurabilità di una scrittura privata come testamento non è sufficiente il riscontro dei requisiti di forma, occorrendo, altresì, l’accertamento dell’oggettiva riconoscibilità nella scrittura della volontà attuale del suo autore di compiere non già un mero progetto, ma un atto di disposizione del proprio patrimonio per il tempo successivo al suo decesso. Siffatto accertamento – che, ove le espressioni contenute nel documento risultino ambigue o di valore non certo, presuppone la necessaria indagine su ogni circostanza, anche estrinseca, idonea a chiarire la portata, le ragioni e le finalità perseguite con la disposizione – involge un apprezzamento di fatto spettante al giudice del merito che, se adeguatamente motivato, è incensurabile in sede di legittimità.

Disposizioni applicate

Articoli 587, 602, 1362 e 1363 cod. civ.

[1] A seguito di un procedimento introdotto da Tizio nei confronti dei propri fratelli Caio e Sempronia e relativo alla successione della comune madre Mevia, si addiveniva ad una pronuncia della Corte di Appello di Napoli, con la quale veniva statuito che una scrittura proveniente da Mevia non contenesse disposizioni testamentarie

Per la cassazione della sentenza Sempronia proponeva, dunque, ricorso, articolandolo su tre motivi dei quali solo i primi due rilevano in questa sede, vertendo il terzo sulla regolamentazione delle spese di giudizio.

In particolare, con il primo motivo la ricorrente lamentava che il giudice di secondo grado, nella interpretazione dello scritto, non avesse tenuto conto della reale volontà della defunta e del principio di conservazione del testamento e dei suoi effetti. Con il secondo censurava la sentenza d’appello, in quanto dopo avere constatato l’esistenza di disposizioni equivoche, avrebbe dovuto circoscrivere la nullità a queste stesse disposizioni, preservando la validità delle altre.

Tizio e Caio hanno resistito con separati controricorsi.

[2] La Suprema Corte ha ritenuto inammissibili entrambi i motivi. Relativamente al primo, gli Ermellini ricordano[1] che “perché si abbia testamento è necessario che lo scritto contenga la manifestazione di una volontà definitiva dell’autore, compiutamente e incondizionatamente formata, diretta a disporre attualmente, in tutto o in parte, dei propri beni per il tempo successivo alla morte. Pertanto, ai fini della configurabilità di una scrittura privata come testamento, non è sufficiente il riscontro dei requisiti di forma, ma occorre altresì l’accertamento dell’oggettiva riconoscibilità nella scrittura della volontà attuale del suo autore di compiere non già un mero progetto, ma un atto di disposizione del proprio patrimonio per il tempo successivo al suo decesso”.

Ed ove le espressioni contenute nel documento risultino ambigue, o comunque di valore non certo, occorre indagare “su ogni circostanza, anche estrinseca, idonea a chiarire la portata, le ragioni e le finalità perseguite con la disposizione medesima

Il giudice di legittimità ha, dunque, analizzato le motivazioni del giudice di secondo, grado ritenendole adeguate e non censurabili in cassazione concretandosi in un apprezzamento di fatto.

Si afferma, infatti, nella sentenza epigrafata che la Corte d’appello, nell’esame del documento oggetto di causa, è partita da una nozione del testamento in linea con i principi sopra richiamati ed ha evidenziato che “non essendo state riproposte le istanze di prova orale non ammesse dal primo giudice, erano rimaste prive di riscontro le considerazioni, proposte da Sempronia, sul comportamento della de cuius prima della morte, volte a sostenere il carattere testamentario dello scritto; è poi passata all’esame dello scritto, dal punto di vista formale e sostanziale, e l’ha inteso come un semplice rendiconto indirizzato verosimilmente ai figli come mero progetto relativo al godimento dei suoi beni. Anzi, la corte di merito a fondamento della propria decisione ha posto l’accento su alcune previsioni ritenendole indice chiaro di un’assenza di volontà di disporre delle proprie sostanze per il tempo successivo alla morte.

La Cassazione non ha ritenuto pertinente neppure il richiamo, operato dalla ricorrente, al principio di conservazione della volontà testamentaria, posto che l’applicazione di tale principio suppone il preventivo riconoscimento che una data scrittura contenga una disposizione di ultima volontà.

In relazione al secondo motivo, gli Ermellini si limitano a rilevare come la Corte d’appello abbia negato il carattere testamentario della scrittura nel suo complesso e non di una parte di essa; per cui la censura, con la quale si rimprovera alla corte di merito di non avere dichiarato la nullità solo parziale del supposto negozio testamentario, costituisce pur sempre censura dell’apprezzamento compiuto dal giudice di merito.

[3] La pronuncia in esame fornisce lo spunto per una disanima (necessariamente sintetica in questa sede) delle questioni inerenti all’interpretazione del negozio testamentario.

In linea generale, si può ricordare come la materia sia pervasa da una più pregnante applicazione (rispetto ai negozi inter vivos) del c.d. principio di conservazione. La circostanza, infatti, che l’autore del negozio (unilaterale) testamentario non sia più in grado (proprio perchè venuto a mancare) di porre rimedio ad eventuali inesattezze o fornire chiarimenti circa le espressioni utilizzate nel documento, impone che, per quanto possibile, sia favorita un’interpretazione che riconosca validità alla scheda.

Dal punto di vista normativo, pur rinvenne dosi alcune disposizione di carattere interpretativo (ad es. l’art. 588, 2° comma. cod. civ.) non esiste alcuna disciplina organica specifica che regolamenti la materia e variegate sono le posizioni di dottrina e giurisprudenza in ordine all’individuazione di regole certe. Unico punto in comune tra le diverse posizioni pare essere l’attribuzione di un rilievo fondamentale alla natura negoziale dell’atto.[2]

Non potendosi in questa sede ripercorrere tutti i diversi orientamenti, ci si può limitare a riportare come appaia pacifica l’applicabilità al negozio testamentario delle disposizioni dettate in tema di contratto dagli articoli da 1362 a 1365 cod. civ., ossia quelle c.d. di interpretazione soggettiva, dirette ad interpretare e ricostruire l’effettiva volontà delle parti. Non troverà invece applicazione il disposto dell’art. 1366 cod. civ. (interpretazione secondo buona fede), non rilevando il principio di affidamento.

Relativamente a un terzo gruppo di norme (di c.d. interpretazione oggettiva) occorre distinguere tra quelle che necessariamente presuppongono una pluralità di parti (artt. 1368, 1369, 1370 cod. civ.) da quelle che possono riferirsi anche ad ipotesi di negozio unilaterale (art. 1367). Dubbia, infine, l’applicabilità del disposto di cui all’art. 1370 cod. civ. (principio del favor debitoris): a quella parte di dottrina[3] e giurisprudenza[4] che la esclude in quanto tra soggetti del rapporto successorio non sarebbe ipotizzabile un conflitto di interessi, si contrappone l’opinione di coloro che affermano la sua operatività in ragione della configurabilità di conflitti tra aventi causa del testatore.[5]

Così delimitato il quadro normativo di riferimento, ci si può interrogare su quali siano i requisiti minimi che debbano rinvenirsi affinché uno scritto possa qualificarsi come “testamento”. Solo in ragione, infatti, della qualificazione di una scrittura in termini di testamento potranno trovare applicazione i principi sopra richiamati.

Nel caso di specie, la Suprema Corte si è trovata a dover giudicare in ordine ad uno scritto che, pur rispettando tutti i requisiti formali richiesti dall’art. 602 cod. civ. per la validità di un testamento olografo, non sembrava potersi qualificare quale manifestazione di volontà attuale del soggetto di disporre delle proprie sostanze per il tempo in cui avrebbe cessato di vivere.

E proprio questo pare essere lo spartiacque: una scrittura che rappresenti un semplice “progetto”, senza una inequivoca espressione di pianificazione successoria, non può esser ricondotta al negozio testamentario. In assenza di una concreta e definitiva (ovviamente non intesa in termini di irrevocabilità) volontà di disporre, dunque, non può parlarsi di testamento e, conseguentemente, non vi sarebbe necessità di ricorrere ad alcuna interpretazione.

Se tale conclusione appare logica e condivisibile, non si può tacere delle difficoltà pratiche che spesso si incontrano. Non pochi, infatti, sono i casi di scritti redatti da soggetti con scarse o nulle conoscenze giuridiche e dai quali non sia chiaramente desumibile una volontà di disporre mortis causa delle proprie sostanze

Non di rado si rinvengono, poi, scritti che, pur riportando l’intestazione “testamento” non contengono alcuna disposizione di carattere patrimoniale, limitandosi ad esprimere raccomandazioni e preoccupazioni del soggetto relativamente ai rapporti tra i propri successibili in caso di suo decesso.

Sarà, pertanto, compito (non facile) dell’interprete[6] quello di valutare se lo scritto che si va ad esaminare possa o meno configurare quella manifestazione di volontà di disporre che è il requisito minimo fondamentale per potersi individuare un negozio testamentario.

[1] Vengono, a tal fine, richiamati i precedenti di Cass. Civ., Sez. 2, Sentenza n. 150 del 08/01/2014: “perché un atto costituisca manifestazione di ultima volontà, riconducibile ai negozi “mortis causa”, non è necessario che il dichiarante faccia espresso riferimento alla sua morte ed all’intento di disporre dei suoi beni dopo la sua scomparsa, essendo sufficiente che lo scritto sia espressione di una volontà definitiva dell’autore, compiutamente e incondizionatamente manifestata allo scopo di disporre attualmente dei suoi beni, in tutto o in parte, per il tempo successivo alla propria morte”;  Cass. Civ., Sez. 2, Sentenza n. 8490 del 28/05/2012; Cass. Civ., Sez. 2, Sentenza n. 8668 del 24/08/1990: “perché si abbia una disposizione di ultima volontà e quindi esista un negozio “mortis causa”, è necessario che lo scritto contenga la manifestazione di una volontà definitiva dell’autore nel senso che essa si sia compiutamente ed incondizionatamente formata e manifestata e sia diretta a disporre attualmente, in tutto o in parte, dei propri beni per il tempo successivo alla morte”; Cass. Civ., Sez. 2, Sentenza n. 1086 del 26/03/1976

[2] R. Carleo, L’interpretazione del testamento, in Trattato di diritto delle successioni e donazioni diretto da G. Bonilini, volume II, Milano, 2009, pag. 1476.

[3] Rescigno, Interpretazione del testamento, Napoli, 1952, pag. 92

[4] Cass. Civ., Sez. 2, Sentenza n. 4373 del 27/03/2002: “Nell’interpretazione del testamento non trova applicazione il criterio, valido per i contratti, della minore onerosità per l’obbligato, sancito dall’art.1371 cod. civ., non essendo ipotizzabile un conflitto di interessi tra i soggetti del rapporto successorio.” Conforme, Cass. Civ., Sez. 2, Sentenza n. 595 del 28/02/1972

[5] Busani, La successione mortis causa, Milano, 2020, pag. 860 ed ivi anche per i richiamati alla più risalente dottrina. In giurisprudenza: Cass. Civ., Sez. 2, Sentenza n. 3099 del 16/02/2005: “Anche nell’interpretazione degli atti di ultima volontà il criterio della minore gravosità per l’obbligato, è applicabile solo quando, utilizzati quelli di cui ai precedenti articoli dal 1362 al 1365, la disposizione resti ambigua.” Conforme, Cass. Civ. Sez. 2, Sentenza n. 458 del 20/02/1974, per la quale troverebbe applicazione altresì il disposto dell’art. 1368 cod. civ.

[6] Sia esso il professionista ovvero il Giudice di merito (trattandosi di questione non censurabile in Cassazione se adeguatamente motivata). Ed è appena il caso di sottolineare e ribadire come nel caso di specie, la Corte d’Appello non abbia potuto che ricorrere all’interpretazione in senso stretto della scrittura, non essendo state ripresentate nel giudizio di secondo grado le istanze istruttorie relative alle prove orali respinte dal giudice di primo grado. Prove orali che, forse, ove correttamente formulate ed assunte avrebbero potuto portare ad una diversa qualificazione della scrittura, laddove si fosse riusciti a dimostrare che quella che sembrava una mera raccomandazione rappresentava, invece, una manifestazione di volontà dispositiva.

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