Il regime autorizzatorio delle iniziative processuali del curatore
di Valentina Baroncini, Professore associato di Diritto processuale civile presso l'Università degli Studi di Verona Scarica in PDFTrib. Salerno, 22 marzo 2023, Est. Jachia
[1] Fallimento – Parere del comitato dei creditori – Effetti.
Il curatore che richiede al comitato dei creditori un parere sull’opportunità di proporre o meno appello avverso una sentenza, ove non condivida il parere reso, lo deve impugnare ai sensi dell’art. 36 l.fall. e non può rimodulare la fattispecie come proposta di transazione con le controparti di non proporre gravame avverso la sentenza medesima.
CASO
[1] Una società, poi dichiarata fallita, quando ancora era in bonis proponeva domanda di accertamento della illegittima segnalazione a sofferenza in centrale rischi operata dagli istituti di credito convenuti, con conseguente condanna al risarcimento dei danni patiti. Tale giudizio veniva interrotto, ai sensi dell’art. 43 l.fall., in conseguenza dell’intervenuta dichiarazione di fallimento a carico dell’attrice, ma la procedura, con decreto del giudice delegato, veniva autorizzata a riassumerlo. All’esito del primo grado di giudizio, il Tribunale di Salerno accoglieva solo parzialmente le domande attoree: accertata l’illegittimità delle segnalazioni a sofferenza effettuate, disponeva per la sola liquidazione del danno non patrimoniale, rigettando quella del danno patrimoniale per insussistenza di nesso eziologico tra causa e danno.
A fronte di tale pronuncia, il comitato dei creditori veniva convocato allo scopo di rendere parere in ordine alla rinuncia alla lite in sede di gravame da formalizzare in un accordo transattivo con tutte le banche convenute. Il comitato dei creditori manifestava tuttavia il proprio diniego alla transazione, autorizzando la proposizione dell’appello. Ciononostante, il giudice delegato rendeva provvedimento di autorizzazione a non impugnare la sentenza del Tribunale di Salerno adducendo, nella relativa motivazione, il parere conforme reso dal curatore fallimentare: quest’ultimo, in particolare, affermava che, nonostante il comitato dei creditori avesse espresso parere favorevole alla proposizione dell’appello, la determinazione circa l’esperibilità dell’azione spettasse unicamente al giudice delegato, trattandosi non di una rinuncia all’azione ma di un’autorizzazione al gravame, riconducibile alla disciplina di cui all’art. 25, 1°co., n. 6), l.fall.
Avverso tale provvedimento il presidente del comitato dei creditori proponeva reclamo ex art. 26 l.fall.
SOLUZIONE
[1] Il Tribunale di Salerno ha accolto il reclamo proposto, conseguentemente autorizzando la procedura a proporre appello.
In particolare, il Tribunale rilevava la vincolatività, nei confronti del curatore fallimentare, del diniego opposto dal comitato dei creditori: tale diniego, infatti, non poteva certo essere superato tramite il suddetto tentativo di riqualificazione giuridica della fattispecie, bensì esclusivamente tramite proposizione del reclamo ex art. 36 l.fall. contro i dinieghi del comitato dei creditori, seppur entro gli angusti confini della violazione di legge.
Mancato il reclamo, il diniego alla transazione manifestato dal comitato dei creditori è così divenuto definitivo, vincolante e non altrimenti superabile.
QUESTIONI
[1] Le questioni sottoposte al Tribunale di Salerno attengono al regime autorizzatorio delle iniziative processuali del curatore fallimentare, e i relativi rapporti con gli altri organi della procedura (in particolare, con il comitato dei creditori).
Occorre premettere che la fattispecie decisa risultava regolata, ratione temporis, dalla previgente l.fall.: ma le soluzioni raggiunte mantengono la propria validità anche nel rinnovato quadro normativo.
Anzitutto, l’art. 25, 1°co., n. 6), l.fall. prevede, come noto, che «Il giudice delegato […] autorizza per iscritto il curatore a stare in giudizio come attore o come convenuto» (l’art. 123 CCII ribadisce tale potere autorizzatorio, condizionandolo al perseguimento del «miglior soddisfacimento dei creditori»). Tale regola è confermata dal successivo art. 31, 2°co., l.fall., il quale, nel regolamentare lo statuto del curatore fallimentare, prevede che «Egli non p[ossa] stare in giudizio senza l’autorizzazione del giudice delegato, salvo che in materia di contestazioni e di tardive dichiarazioni di crediti e di diritti di terzi su beni acquisiti al fallimento, e salvo che nei procedimenti promossi per impugnare atti del giudice delegato o del tribunale e in ogni altro caso in cui non occorra ministero di difensore» (disposizione, ancora, confermata dall’art. 128 CCII, che positivizza la regola per cui la nomina dei difensori spetti al curatore).
Dunque, il curatore fallimentare, per agire o resistere in giudizio – anche ai sensi dell’art. 43 l.fall., come accaduto nel caso di specie -, e salve le fattispecie eccezionali testé richiamate, necessita dell’autorizzazione del giudice delegato.
Ciò chiarito, occorre definire il ruolo che, eventualmente, il comitato dei creditori è destinato a svolgere in questo ambito: se, cioè, la funzione consultiva ad esso istituzionalmente riconosciuta si estenda anche all’emanazione di pareri – eventualmente pure vincolanti -, circa l’autorizzazione a stare in giudizio che il giudice delegato deve rilasciare al curatore. È proprio attorno a tale questione che è maturato il reclamo proposto al Tribunale di Salerno, in considerazione del fatto che il presidente del comitato dei creditori ha ritenuto che il provvedimento del giudice delegato di autorizzazione del curatore a non coltivare il giudizio di appello fosse stato illegittimamente emesso, in spregio al diniego manifestato dal comitato medesimo.
Qui entra in gioco la disciplina di cui all’art. 35 l.fall., il quale, sotto la rubrica «Integrazione dei poteri del curatore» prevede, al suo 1°co., che «Le riduzioni di crediti, le transazioni, i compromessi, le rinunzie alle liti, le ricognizioni di diritti di terzi, la cancellazione di ipoteche, la restituzione di pegni, lo svincolo delle cauzioni, l’accettazione di eredità e donazioni e gli atti di straordinaria amministrazione sono effettuate dal curatore, previa autorizzazione del comitato dei creditori» (identica disciplina è oggi rinvenibile nell’art. 132 CCII). Per completezza espositiva, si ricorda come faccia da pendant a tale previsione il successivo art. 41 l.fall., il quale, nel disciplinare le funzioni del comitato dei creditori, richiama espressamente quella autorizzatoria di atti del curatore «nei casi previsti dalla legge» (tale disciplina è ribadita dall’art. 140, 1°co., CCII).
Il necessario coinvolgimento del comitato dei creditori per il compimento delle tipologie di atti appena ricordate si spiega con la presumibile incidenza che le stesse possono esercitare sul patrimonio fallimentare, suscettibile di incrementi (o decrementi) in conseguenza delle medesime: riconoscere un potere di veto a tale organo significa, evidentemente, assicurare allo stesso quel controllo di convenienza economica che istituzionalmente gli compete.
Tornando al caso di specie, secondo la narrazione degli avvenimenti contenuta nel provvedimento in commento il comitato dei creditori era chiaramente e inequivocabilmente stato convocato per deliberare sulla rinuncia alla lite in sede di gravame, da formalizzare in un accordo transattivo con gli istituti di credito convenuti nel giudizio di cognizione ordinario a suo tempo instaurato dalla società in bonis; si trattava, in altri termini, di una transazione recante la rinuncia all’azione concordata con le controparti. E gli organi della procedura avevano senz’altro agito correttamente in quanto, come visto poc’anzi, sia le transazioni sia le rinunce alle liti che il curatore voglia attuare richiedono la previa autorizzazione del comitato dei creditori. L’interesse del ceto creditorio nella prosecuzione del giudizio in discorso – e, dunque, nella coltivazione dell’appello -, espresso tramite il diniego alla transazione e l’autorizzazione a coltivare il gravame è peraltro particolarmente evidente, in quanto un esito positivo del giudizio di seconde cure avrebbe potuto condurre a una positiva liquidazione anche del danno patrimoniale subito dalla società in bonis per le illegittime segnalazioni a sofferenza e, con essa, a un incremento della massa attiva.
Ciò che è accaduto a seguito del parere negativo del comitato dei creditori è rinvenibile soltanto fra le righe del provvedimento in commento, dove si discorre di un “possibile conflitto di interessi degli ausiliari del fallimento […] quali portatori di interessi personali economici propri”, che hanno indotto il curatore a tentare di bypassare il veto opposto dal comitato e desistere dalla proposizione dell’appello: come accennato, il curatore ha infatti cercato di riqualificare la fattispecie, non identificandola più in una proposta di transazione, bensì in una autorizzazione alla (non) proposizione del gravame, la cui determinazione spetterebbe unicamente al giudice delegato, ai sensi dell’art. 25, 1°co., n. 6), l.fall.
Per i motivi esposti appare dunque corretta la decisione assunta dal Tribunale di Salerno, di accogliere il reclamo ex art. 26 l.fall. proposto dal presidente del comitato dei creditori.
Ciò chiarito, e sia pur unicamente disputandi gratia, possiamo interrogarci su quale sia il regime autorizzatorio dell’atto così come “riqualificato” dal curatore fallimentare, nei termini di non impugnazione della sentenza resa all’esito del primo grado del giudizio di cognizione instaurato dalla società in bonis.
Ipotizzando, dunque, che, una volta ricevuta la comunicazione della sentenza di primo grado, il curatore fallimentare fosse interessato (non a concludere una transazione con le controparti, bensì) a non coltivare il giudizio di appello, prestando acquiescenza al provvedimento emesso, possiamo effettivamente affermare che, in tal caso, sarebbe stata sufficiente l’autorizzazione del giudice delegato, rilasciata a norma del già richiamato art. 25, 1°co., n. 6), l.fall. (che, lo si ricorda, è rilasciata per il singolo grado di giudizio, e deve dunque essere rinnovata per la proposizione dell’appello): e così, in effetti, pare orientata la prassi operativa presso i nostri uffici giudiziari (tra le tante, Cass., 10 maggio 2013, n. 11117; e Cass., 20 marzo 2012, n. 4448).
A tal proposito, è infine opportuno chiarire che nel caso in cui gli organi della procedura concludano, consapevolmente, nel senso della rinuncia all’impugnazione di un determinato provvedimento giurisdizionale, ciò non implica la riemersione della straordinaria e suppletiva capacità processuale del fallito: a tal riguardo, infatti, la giurisprudenza di legittimità è granitica nel ritenere che “In tema di cosiddetta eccezionale legittimazione processuale suppletiva del fallito relativamente a rapporti patrimoniali compresi nel fallimento per il caso di disinteresse o inerzia degli organi fallimentari, la negativa valutazione di questi ultimi circa la convenienza della controversia è sufficiente a escludere detta legittimazione, allorquando venga espressa con riguardo a una controversia della quale il fallimento sia stato parte, poiché, in tal caso è inconcepibile una sovrapposizione di ruoli fra fallimento e fallito, mentre non lo è, allorquando si tratti di uno controversia alla quale il fallimento sia rimasto de tutto estraneo e in particolare quando alla negativa valuta-zione si accompagni l’espresso riconoscimento della facoltà del fallito di provvedere in proprio e con suo onere” (tra le molte, Cass., 30 ottobre 2020, n. 24159; Cass., 3 aprile 2018, n. 8132; Cass., 6 luglio 2016, n. 13814).
Autorizzazione a non impugnare, in altri termini, non equivale a disinteresse della procedura a coltivare l’iniziativa processuale: quanto basta per escludere il ripristino della capacità processuale suppletiva in capo al debitore.
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