Reato di bancarotta impropria da reato societario: la condotta dell’amministratore che incorre nella fattispecie delittuosa di false comunicazioni sociali
di Asia Bartolini, Dottoressa in Legge Scarica in PDFCassazione penale, Sez. V, 10/04/2024, n. 27471
Parole chiave: bancarotta impropria – bancarotta fraudolenta – grave dissesto della società – stato di insolvenza – reato di false comunicazioni sociali – dolo generico
Massima: “Integra il reato di bancarotta impropria da reato societario la condotta dell’amministratore che espone nel bilancio dati non veri al fine di occultare la esistenza di perdite e consentire quindi la prosecuzione dell’attività di impresa in assenza di interventi di ricapitalizzazione o di liquidazione, con conseguente accumulo di perdite ulteriori, poiché l’evento tipico di questa fattispecie delittuosa comprende non solo la produzione, ma anche il semplice aggravamento del dissesto.”
Disposizioni applicate: art. 223, comma 2, n. 1) del Regio decreto n. 267/1942, art. 2621 c.c., art. 40 c.p., D. Lgs. n. 61/2002, art. 41 c.p., art. 238 bis c.p.c., art. 192, co. 3 c.p.c., art. 197 c.p.c., art. 616 c.p.c..
La vicenda in esame trae origine dalla condanna, da parte della Corte di Appello di Brescia, di un consigliere di amministrazione della società “Impianta Lab. S.r.l.”, il quale aveva rappresentato nel bilancio fatti non corrispondenti al vero, concorrendo così ad aggravarne il dissesto.
In particolare, il consigliere era stato accusato di aver iscritto nel bilancio relativo all’esercizio 2016 le partecipazioni della fallita nelle società controllate al valore di costo, rappresentando, in tal modo, una situazione economica e patrimoniale della società non corrispondente al vero: ciò al fine di occultare lo stato d’insolvenza in cui essa versava e consentire la prosecuzione dell’attività.
Avverso la sentenza di condanna della Corte di Appello, il consigliere proponeva ricorso per Cassazione.
Con il primo motivo, il consigliere lamentava la violazione degli artt. 223 della legge fallimentare e 2621 c.c.: a suo dire, la Corte non si sarebbe attenuta al principio giurisprudenziale secondo il quale il reato di false comunicazioni sociali, in relazione all’esposizione in bilancio di enunciati valutativi, è configurabile se l’agente, in presenza di criteri di valutazione normativamente fissati o di criteri tecnici generalmente accettati, se ne discosti consapevolmente e senza fornire adeguata informazione giustificativa, in modo tale da indurre in errore i destinatari delle comunicazioni.
Con un secondo motivo, invece, veniva dedotta la violazione degli artt. 40 c.p., 223 della legge fallimentare e 2621 c.c., sotto un duplico profilo: da un lato, infatti, il consigliere lamentava l’insussistenza del nesso di causalità tra le false comunicazioni sociali e il dissesto della società fallita, dall’altro, invece, il ricorrente evidenziava che, nel caso di mancato annullamento della sentenza impugnata, si sarebbe giunti ad un contrasto di giudicati, in quanto l’imputato sarebbe stato l’unico componente del consiglio di amministrazione della società fallita a essere condannato per bancarotta fraudolenta legata al fallimento della “Impianta Lab. S.r.l.”, stante l’assoluzione degli altri componenti del consiglio.
Infine, con un terzo ed ultimo motivo, il consigliere sosteneva come nel fascicolo processuale sarebbero stati presenti diversi elementi (tra cui, ad esempio, alcuni messaggi di posta elettronica) che avrebbero dimostrato l’assenza di dolo non solo nella forma del dolo specifico, come richiesto dalla norma incriminatrice, ma anche nella forma del dolo generico. In ogni caso, il consigliere sosteneva altresì come la Corte avesse erroneamente ritenuto provato il dolo generico (elemento soggettivo del reato) “in re ipsa”, in base alla sola violazione delle norme contabili sull’esposizione delle voci in bilancio.
La Suprema Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso.
In primo luogo, ha ritenuto il primo motivo di gravame infondato, in quanto il fatto che il consigliere, nel redigere il bilancio, si sarebbe attenuto a consolidati principi contabili, risulta essere smentito da evidenti dati oggettivi.
In particolare, nell’affermare ciò, la Corte, richiamando un consolidato orientamento giurisprudenziale, ha ricordato che “il criterio di valutazione più corretto per le partecipazioni in società controllate e collegate è rappresentato dal metodo del patrimonio netto”, e non dal criterio del costo: pertanto, stante la grave perdita di fatturato da parte della società “Impianta Lab. S.r.l.”, nonché la perdita di numerosi e importanti appalti (privati e pubblici), la Corte di Appello ha correttamente ritenuto escluso l’applicazione del criterio del costo, tenuto conto della grave situazione economica e finanziaria delle controllate e in assenza di oggettivi elementi di segno contrario.
Anche il secondo motivo di impugnazione è stato ritenuto dalla Corte di Cassazione infondato.
Sotto un primo profilo, infatti, la Corte ha sostenuto che il nesso causale tra la falsa attestazione e il dissesto è ravvisabile non solo in presenza di condotte che incidono direttamente sulla consistenza patrimoniale della fallita, ma anche quando la falsa rappresentazione, avendo avuto come risultato quello di rendere indiscernibile l’esistenza di consistenti perdite nell’attività patrimoniale, ha permesso la prosecuzione dell’attività d’impresa, in assenza di interventi di ricapitalizzazione, con conseguente accumulo di ulteriori perdite; ciò, anche ove la condotta degli amministratori si sovrapponga (ai sensi dell’art. 421 c.p.) a una situazione economica e patrimoniale di irreversibile decozione già maturata.
Sotto un secondo profilo, la Corte ha ricordato che la responsabilità penale è personale e che, pertanto, diversi possono essere i motivi che possono avere determinato un differente giudizio in ordine alla condotta tenuta dai diversi componenti del consiglio di amministrazione.
Inoltre, la Corte ha altresì rammentato il fatto che, nel nostro ordinamento processuale, la sentenza passata in giudicato ha soltanto un’efficacia preclusiva nei confronti del medesimo imputato e quanto al medesimo fatto: conseguentemente, in un processo contro altri imputati, il giudice può accertare nuovamente il medesimo fatto storico e può ritenere che sia stato commesso con diverse modalità o perfino che non sia esistito, mancando il requisito del “medesimo imputato“.
Da ultimo, la Suprema Corte ha ritenuto inammissibile il terzo motivo di impugnazione sottolineando, in particolare, come la Corte di appello avesse ampiamento motivato in ordine all’elemento soggettivo, evidenziando come l’imputato fosse consapevole non solo del reale valore delle partecipazioni, ma anche della grave situazione della società, resa palese dalla pendenza – al momento dell’approvazione del bilancio – dell’istanza di fallimento, avanzata dal pubblico ministero.
Alla luce delle suindicate motivazioni, la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso, condannando il ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché alla refusione delle spese legali sostenute nel giudizio de quo dalla parte civile.
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