Ragionevole durata del processo: la manifesta infondatezza della domanda non esclude l’indennizzo
di Maddalena Ciccone Scarica in PDFCass., Sez. VI, 27 luglio 2016 n. 15643
Procedimento civile – Irragionevole durata – Equa riparazione – Giudizio presupposto – Manifesta infondatezza della domanda – Rilevanza – Limiti (l. 24 marzo 2001, n. 89, art. 2)
[1] In tema di equa riparazione per durata irragionevole del processo, la manifesta infondatezza della domanda nel giudizio presupposto, ove non qualificata dal requisito soggettivo della temerarietà o abusività della lite, non rientra tra le cause di esclusione dell’indennizzo.
CASO
[1] Adita con ricorso per la condanna al pagamento dei danni morali derivanti dalla irragionevole durata del processo, la Corte d’appello respingeva la domanda, ritenendo che il giudizio presupposto fosse stato proposto dal ricorrente nella consapevolezza della sua infondatezza. Il soccombente ricorreva in Cassazione censurando, tra l’altro, la violazione e falsa applicazione degli artt. 2 e 3 della legge n. 89/2001, per non avere la corte di merito tenuto conto che il diritto all’equa riparazione non è subordinato alla fondatezza delle pretese o delle eccezioni sollevate nel processo presupposto che ha avuto durata irragionevole.
SOLUZIONE
[1] La Suprema Corte accoglie il ricorso, rilevando che in materia di equa riparazione per durata irragionevole del processo, l’indennizzo è escluso, per ragioni di carattere soggettivo, nell’ipotesi di lite temeraria, di causa abusiva o nel caso ricorrano altre ragioni che dimostrino in positivo la concreta assenza di un effettivo pregiudizio d’indole morale. Non vi rientra, invece, il caso della manifesta infondatezza della domanda che, solo se qualificata dal requisito ulteriore di temerarietà o di abusività osta al riconoscimento di un’equa riparazione, altrimenti costituendo «null’altro che il giudizio critico o di verità che la sentenza di merito esprime sulla postulazione contenuta nella domanda stessa».
QUESTIONI
[1] Lo stesso principio è espresso in Cass. 23 settembre 2015, n. 18834, Foro it., Rep. 2015, voce Diritti politici e civili, n. 267, secondo la quale «la manifesta infondatezza della domanda nel giudizio presupposto, ove non qualificata dal requisito soggettivo della temerarietà o abusività della lite, non rientra tra le cause di esclusione dell’indennizzo di cui all’art. 2, 2º comma quinquies, l. n. 89 del 2001».
La decisione è in linea con l’orientamento consolidato della Suprema Corte secondo il quale il diritto all’equa riparazione è escluso, per ragioni di carattere soggettivo: a) nel caso di lite temeraria (cfr. Cass. 11 marzo 2015, n. 4890, id., Rep. 2015, voce cit., n. 265; 23 dicembre 2011, n. 28592, id., Rep. 2012, voce cit., n. 200; 12 maggio 2011, n. 10500, id., Rep. 2011, voce cit., n.197; 20 agosto 2010 n. 18780, id., Rep. 2010, voce cit., n. 223), cioè quando la parte abbia agito o resistito in giudizio con la consapevole certezza del proprio torto o sulla base di una pretesa di puro azzardo; b) nell’ipotesi di causa abusiva (cfr. Cass. 26 aprile 2010, n. 9938, id., Rep. 2010, voce cit. n. 224; 28 ottobre 2009, n. 22873, id., Rep. 2010, voce cit., n. 291 e Giust. civ., 2010, I, 610), che ricorre allorché lo strumento processuale sia stato utilizzato in maniera distorta, per lucrare sugli effetti della mera pendenza della lite; c) in tutte le ipotesi in cui la specifica situazione processuale del giudizio di riferimento dimostri in positivo, per qualunque ragione, come la parte privata non abbia patito quell’effettivo e concreto pregiudizio d’indole morale, che è conseguenza normale, ma non automatica e necessaria, della violazione del diritto alla ragionevole durata del processo (cfr. da ultimo, Cass. 10 aprile 2015, n. 7325, id., Rep. 2015, voce cit. n. 307; 14 gennaio 2014, n. 633, id., Rep. 2014, voce cit., n. 292).
Tali principi costituiscono precipitato delle enunciazioni contenute in Cass. sez. un., 26 gennaio 2004, nn. 1338 e 1340, id., 2004, I, 693, con osservazioni di P. Gallo; sez. un. 26 gennaio 2004 n. 1339, id., Rep. 2004, voce cit., n. 268, secondo cui, pur dovendosi escludere la configurabilità di un danno non patrimoniale in re ipsa – ossia di un danno automaticamente e necessariamente insito nell’accertamento della violazione – esso deve ritenersi presente, secondo l’id quod plurumque accidit, nella normalità dei casi, siccome ha natura psicologica, manifestandosi nell’ansia e nel turbamento connessi alla durata del processo, che rappresentano componenti non suscettibili di essere obiettivamente dimostrate, a meno di prova contraria, ricavabile però da specifici elementi che facciano positivamente escludere che tale danno sia stato subito dal ricorrente, di cui il giudice che procede alla liquidazione deve dare precisa indicazione (cfr. Cass. 5 agosto 2004, n. 15106, id., Rep. 2055, voce cit., n. 233). Va a questi fini escluso, tuttavia, che possa rilevare un’asserita consapevolezza da parte dell’istante della scarsa probabilità di successo dell’iniziativa giudiziaria, priva di alcun riferimento di riscontro (cfr. Cass. 26 settembre 2008, n. 24269, id., Rep. 2008, voce cit., n. 189).
In senso analogo, in precedenza, cfr. Cass. 18 settembre 2003, n. 13741, id., Rep. 2003. voce Cassazione civile, n. 221, ove si afferma che «la piena consapevolezza dell’infondatezza delle proprie istanze o della loro inammissibilità è causa di inesistenza del danno non patrimoniale, perché incompatibile con l’ansia connessa all’incertezza sull’esito del processo; ma di detta consapevolezza deve fornire la prova chi la eccepisce per negare l’esistenza dell’indicato danno».
Che la mera infondatezza della domanda del giudizio presupposto non possa escludere il diritto all’equa riparazione emerge anche dal comma 2 quinquies, aggiunto all’art. 2 della legge n. 89 del 2001 dall’art. 55, comma 1, lett a), n. 3) del D.L. n. 83 del 2012, convertito in legge n. 134 del 2012, applicabile ratione temporis, che prevede, con elencazione ritenuta non tassativa, talune ulteriori ipotesi di esclusione dell’indennizzo, tra le quali non rientra quella della manifesta infondatezza della domanda.
In argomento, si segnala l’introduzione del nuovo testo dell’art. 2, comma 2 quinquies della legge n. 89 del 2001, come modificato dalla legge di Stabilità 2016 (legge 28 dicembre 2015, n. 208) che, alla lett. a), esclude l’indennizzo in favore della parte che ha agito o resistito in giudizio consapevole dell’infondatezza originaria o sopravvenuta delle proprie domande o difese, anche fuori dai casi di cui all’art. 96 c.p.c. Cfr. G. Scarselli, Le modifiche alla c.d. legge Pinto poste in essere dalla legge di stabilità 2016, id., 2016, V, 1, che non condivide che si possa ricercare l’abuso del processo anche oltre i limiti della legge processuale, in quanto l’art. 96 c.p.c., soprattutto nel suo 3° comma, è disposizione già assolutamente generica, che lascia ampio potere discrezionale al giudice nell’individuare le fattispecie di abuso processuale, dovendosi altrimenti immaginare che possa configurarsi un potere discrezionale nell’esercizio di un potere che è già discrezionale.
L’impianto originario risulta comunque confermato nell’art. 2 bis, comma 1 ter della legge n. 89 del 2001 che, in caso di integrale rigetto delle richieste della parte ricorrente nel procedimento cui la domanda di equa riparazione si riferisce, prevede la possibilità di diminuire (e non di escludere) la somma stabilita come indennizzo fino ad un terzo.
In tema, cfr. anche Corte cost. 9 settembre 2014, n. 124, id., Rep. 2014, vice cit., n. 289, secondo cui la questione di legittimità costituzionale del comma 3 dell’art. 2 bis della legge n. 89 del 2001 è manifestamente infondata per erroneità del presupposto interpretativo, poiché il «valore del diritto accertato dal giudice» costituisce un dato oggettivo, che non muta in ragione della posizione che la parte che chiede l’indennizzo aveva nel processo presupposto, con la conseguenza che la disposizione non comporta l’impossibilità di liquidare un indennizzo a titolo di equa riparazione della violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, in favore di chi, attore o convenuto, sia risultato, nello stesso, soccombente.