14 Dicembre 2021

Quantificazione del danno mediante il criterio del “differenziale dei patrimoni netti” e l’applicabilità dell’art. 2486, c. 3, c.c. ratione temporis

di Pier Paolo Avanzini, Avvocato Scarica in PDF

Cort. App. Roma, 13 aprile 2021, n. 2649 – Rel. Coppa

Parole chiave: responsabilità dell’amministratore di società di capitali, mancata conservazione dell’integrità e del valore del patrimonio sociale, criterio del “differenziale dei patrimoni netti”, inversione dell’onere probatorio, applicabilità ratione temporis. 

Massime: con l’introduzione dell’art. 2486, c. 3, c.c., il Legislatore ha operato di fatto un’inversione dell’onere della prova a carico dell’amministratore in merito alla quantificazione del danno. La formulazione della citata norma, infatti, individua un criterio principale di quantificazione del danno riconducibile alla differenza tra il patrimonio netto alla data di cessazione della carica dell’amministratore o di apertura di una procedura concorsuale e il patrimonio netto alla data in cui si è verificata una causa di scioglimento della società, fatta salva la possibilità dell’amministratore di dare la prova contraria. Non sarà pertanto l’attore a dover dimostrare e quantificare il danno causato dalla condotta inadempiente dell’amministratore convenuto, ma sarà quest’ultimo a dover fornire la prova che il proprio comportamento non abbia arrecato alla società un danno di ammontare pari a quello presuntivamente determinato dal criterio della differenza dei netti patrimoniali.

La formulazione del nuovo c. 3 dell’art. 2486 c.c. può trovare applicazione in caso di vicende occorse antecedentemente all’entrata in vigore della norma. Tale convincimento è indotto dalla natura processuale attribuibile alla norma in commento, con conseguente operatività del principio tempus regit actum. Inoltre, l’incipit della norma – “quando è accertata la responsabilità degli amministratori a norma del presente articolo …” – induce a ritenere che essa si applichi allorché venga giudizialmente accertata la responsabilità degli amministratori e quindi anche ai giudizi in corso che approdino a tale accertamento.

Disposizioni applicate: artt. 2392, 2393, 2394, 2447, 2484, 2486 c.c. e art. 146 L.fall.

CASO

Il provvedimento in esame trae origine dall’impugnazione della sentenza di primo grado con cui il Tribunale di Cassino ha condannato l’amministratore di una società di capitali fallita per i seguenti profili di responsabilità:

a) mancato rilievo della causa di scioglimento della società ex 2484, n. 4, c.c., consistente per l’appunto nella diminuzione del capitale sociale sotto il minimo legale e nell’omessa convocazione dell’assemblea ex art. 2447 c.c. finalizzata alla ricapitalizzazione o trasformazione della società; e

b) prosecuzione nella gestione dell’attività con modalità non conservativa dell’integrità e del valore del patrimonio sociale ex 2486, c. 1, c.c.

Una volta accertata la sussistenza di dette condotte di inadempimento, il Tribunale di primo grado ha accolto le pretese del Fallimento individuando il danno prodottosi per effetto dell’illecito compiuto dall’amministratore nel “differenziale dei patrimoni netti” (oggi disciplinato dall’art. 2486, c. 3, c.c.), ovvero, nel caso di specie, nella differenza patrimoniale emergente dal raffronto tra patrimonio netto alla data di cessazione dell’amministratore dalla carica e patrimonio netto alla data di verificazione della causa di scioglimento.

La sentenza di primo grado è stata appellata dall’amministratore il quale, come primo motivo di appello, ha dedotto l’illegittima applicazione di detto criterio di quantificazione del danno in quanto il Fallimento non avrebbe né dedotto né provato profili di responsabilità diretta da parte dell’amministratore in relazione a specifiche condotte gestionali ovvero a specifiche operazioni gestorie determinative del danno.

SOLUZIONE

La Corte d’Appello ha dichiarato infondato detto motivo di impugnazione.

In particolare, i Giudici di secondo grado hanno precisato che la responsabilità dell’amministratore di società di capitali è accertata, e la pretesa risarcitoria è dovuta, quando sussiste da parte dell’amministratore un inadempimento dei doveri previsti dalla legge o dallo statuto da cui sia derivato un danno alla società (art. 2393 c.c.) e/o ai creditori sociali (art. 2395 c.c.) e quando risulta provato il collegamento causale tra la condotta dell’amministratore e il danno causato. I Giudici di secondo grado hanno quindi ritenuto correttamente accertati dal Tribunale di primo grado i profili di responsabilità ascritti nei confronti dell’amministratore e consistenti nel mancato rilievo della causa di scioglimento della società ex art. 2484, n. 4, c.c. e nella prosecuzione dell’attività con modalità non conservativa in violazione dell’art. 2486, c. 1, c.c.

Tanto premesso, la Corte capitolina ha poi affermato che, ai fini del computo del danno generato dalla condotta posta in essere dall’amministratore, ben può essere fatta applicazione del criterio del “differenziale dei patrimoni netti”. In particolare, i Giudici di secondo grado hanno precisato che con l’introduzione dell’art. 2486, c. 3, c.c. (disposta dall’art. 378 del D.lgs. 14/2019), il legislatore ha operato un’inversione dell’onere della prova a carico dell’amministratore. Infatti, la citata norma individua un criterio presuntivo di quantificazione del danno riconducibile alla differenza tra il patrimonio netto alla data di cessazione della carica dell’amministratore o di apertura di una procedura concorsuale e il patrimonio netto alla data in cui si è verificata una causa di scioglimento della società, fatta salva, in ogni caso, la possibilità dell’amministratore di dare la prova contraria. Pertanto, non è onere dell’attore (diversamente da quanto sostenuto dall’appellante) dimostrare e quantificare il danno causato dalla condotta inadempiente dell’amministratore convenuto, ma è onere di quest’ultimo fornire la prova che il proprio comportamento non ha arrecato alla società un danno di ammontare pari a quello presuntivamente determinato dal criterio della differenza dei netti patrimoniali.

Precisato quanto sopra, la Corte d’Appello ha poi colto l’occasione per fugare ogni dubbio circa l’efficacia temporale del nuovo art. 2486, c. 3, c.c. e, in particolare, circa la sua applicabilità alle vicende occorse, ovvero ai giudizi instaurati, antecedentemente alla sua entrata in vigore. A riguardo i Giudici d’appello hanno osservato che la formulazione del nuovo c. 3 dell’art. 2486 c.c.  può certamente trovare applicazione anche in caso di vicende occorse, o di giudizi instaurati, antecedentemente all’entrata in vigore della norma. Tale convincimento è indotto da due fattori:

  1. a) la natura processuale della norma in commento, con conseguente operatività del principio tempus regit actum; e
  2. b) l’incipit della norma – “quando è accertata la responsabilità degli amministratori a norma del presente articolo …” – il quale induce a ritenere che essa si applichi allorché venga giudizialmente accertata la responsabilità degli amministratori ex 2486, cc. 1-2, c.c., e quindi anche ai giudizi in corso che approdino a tale accertamento.

QUESTIONI

La sentenza sopra esaminata è sicuramente di interesse per chi si occupa di azioni di responsabilità verso amministratori (ex artt. 2393-2394 c.c. e art. 146 L.fall.) e sindaci (ex art. 2407, c. 2, c.c.). Essa, infatti, consente di definire con sufficiente chiarezza la portata sostanziale e processuale della novella normativa dell’art. 2486, c. 3, c.c., la quale ha attribuito al metodo del “differenziale dei patrimoni netti” il ruolo di criterio ordinario di quantificazione del danno in ipotesi di responsabilità dell’organo amministrativo per mancata conservazione del valore e dell’integrità del patrimonio sociale ex art. 2486, c. 1, c.c.

Detto metodo di quantificazione dell’importo risarcitorio consente di dare adeguata rappresentazione alle conseguenze dannose che la società e i creditori sociali hanno subìto a causa dell’illegittima prosecuzione non conservativa dell’attività sociale; conseguenze dannose che non trovano e non possono trovare fondamento in singoli e specifici atti, costituendo, la gestione della società, un’attività dinamica, composta da molteplici e spesso indistinte operazioni che interagiscono tra loro, ma che necessariamente devono identificarsi nel complessivo venir meno del valore patrimoniale della società che proprio la gestione non conservativa ha generato.

Detta premessa concettuale, che sta alla base dell’ammissibilità del criterio del “differenziale dei patrimoni netti”, è stata:

a) sostenuta da autorevole dottrina (v. in particolare D. Galletti, Brevi note sull’uso del criterio dei “netti patrimoniali di periodo” nelle azioni di responsabilità, in it, 2010, in part. pp. da 3 a 10);

b) avallata, seppur a determinate condizioni, dalla giurisprudenza di merito (v. ex plurimis Bologna, 14 gennaio 2019, n. 111, consultabile nel sito giurisprudenzadelleimprese.it; Trib. Venezia, 13 giugno 2018, n. 1240, consultabile nel sito osservatoriodirittoimpresa.it) e di legittimità (v. Cass., 20 aprile 2017, n. 9983); e, infine,

c) positivizzata nel nuovo art. 2486, c. 3, c.c. il quale rappresenta un definitivo approdo legislativo che consente di porre fine ad ogni incertezza circa l’ammissibilità di detto metodo di quantificazione del danno. Infatti, come riconosciuto dalla Corte d’Appello di Roma nella sentenza qui in esame, la norma prevista dal nuovo art. 2486, c. 3, c.c. può trovare piena applicazione sia in ipotesi di vicende occorse sia in ipotesi di giudizi instaurati antecedentemente all’entrata in vigore della norma stessa.

Oltre ai chiarimenti riguardanti l’applicabilità ratione temporis del suddetto art. 2486, c. 3, c.c., la Corte d’Appello di Roma, come sopra visto, ha poi attribuito una specifica portata sostanziale e processuale alla citata norma, sostenendo che con la sua entrata in vigore il legislatore ha voluto individuare un criterio presuntivo di quantificazione del danno. Così affermando la Corte d’Appello capitolina sembrerebbe avallare l’orientamento espresso in materia dalla miglior dottrina la quale ha sostenuto che il criterio del “differenziale dei patrimoni netti” di cui all’art. 2486, c. 3, c.c., determina, di fatto, una vera e propria relevatio ab onere probandi a favore dell’attore, dal momento che tale metodologia di quantificazione dell’importo risarcitorio “evita che si possano inserire nel processo causale fattori di generazione del risultato negativo dell’attività d’impresa che possano dirsi esogeni rispetto alla stessa, con una speciale sterilizzazione dell’art. 1223 c.c. che impedisce di dubitare che l’incremento dello sbilancio patrimoniale sia veramente conseguenza immediata e diretta di un’illecita continuazione dell’attività d’impresa” (N. Abriani – A. Rossi, Nuova disciplina della crisi d’impresa e modificazioni del codice civile: prima letture, in Società, 2019, in part. p. 409 ss.).

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