Prova del rapporto sociale e fallimento del socio apparente
di Ludovica Carrioli, Avvocato Scarica in PDFCass. Civ., Sez. I, 29 aprile 2024, n. 11342
Massima: “Ai fini della assoggettabilità al fallimento del socio apparente di una società di persone, in conseguenza del fallimento della società, non occorre la dimostrazione della stipulazione e dell’operatività di un patto sociale, ma basta la prova di un comportamento del socio tale da integrare la esteriorizzazione del rapporto, ancorché inesistente nei rapporti interni, a tutela dei terzi che su quella apparenza abbiano fatto affidamento” (massima ufficiale)
Disposizioni applicate: art. 147 l.fall. – art. 2314 c.c. – art. 10 l.fall.
Parole chiave: società di persone – rapporto sociale – tutela dei terzi – legittimo affidamento – fallimento del socio – estensione del fallimento
CASO
La vertenza in commento ha ad oggetto la fattispecie dell’estensione del fallimento della società al socio illimitatamente responsabile.
Il Tribunale di Padova, a seguito di ricorso del curatore, dichiarava con sentenza l’estensione del fallimento al socio illimitatamente responsabile di una società in accomandita semplice. La sentenza, oggetto di reclamo, veniva confermata dalla Corte d’Appello di Venezia.
In particolare, la Corte respingeva l’eccezione di decadenza proposta dal reclamante in ragione della decorrenza del termine di un anno a far data dalla sua cessazione dalla carica di “socio accomandatario” e in virtù del fatto che l’ex socio anche dopo la sua formale fuoriuscita dalla compagine sociale aveva continuato a mantenere il ruolo di socio illimitatamente responsabile della società, come provato dal fatto che la società aveva mantenuto nome e cognome dello stesso all’interno della ragione sociale della società già fallita.
La sentenza della Corte d’Appello di Venezia veniva impugnata con ricorso per cassazione, affidato a cinque motivi, assumendo l’erroneità della decisione del giudice di secondo grado per avere rigettato l’eccezione di decadenza proposta.
SOLUZIONE
La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso e confermato la sentenza della Corte d’Appello di Venezia, assumendo la correttezza delle ragioni che hanno portato al rigetto dell’eccezione di decadenza sollevata dal reclamante.
QUESTIONI APPLICATE NELLA PRATICA
La vertenza in commento offre l’occasione per una applicazione ed interpretazione dell’art. 147 l.fall., con riferimento alla estensione del fallimento ai soci illimitatamente responsabili.
In particolare, la sentenza si concentra sulla problematica relativa al rapporto sociale apparente ossia quel rapporto che appare esistente di fronte ai terzi, pur non esistendo nella “realtà giuridica”.
La questione del socio apparente di società di persone e della sua fallibilità è stata affrontata dalla giurisprudenza di legittimità in numerose occasioni, con specifico riferimento alla questione della “prova” da doversi integrare per addivenire alla dichiarazione del fallimento in estensione del socio illimitatamente responsabile.
In argomento, infatti, si è affermato che l’assoggettabilità a fallimento del socio apparente in conseguenza al fallimento della società non richieda la dimostrazione della stipulazione e della operatività di un patto sociale, bensì di “un comportamento tale da integrare l’esteriorizzazione del rapporto, ancorchè inesistente nei rapporti interni, a tutela dei terzi che su quella apparenza abbiano fatto affidamento” (già Cass. n. 8168/1996).
Per aversi una “società apparente” o comunque un “socio apparente” “è necessaria e sufficiente – in applicazione del principio dell’apparenza del diritto che trova fondamento nell’esigenza della tutela dell’affidamento – l’esteriorizzazione del vincolo sociale, in manifestazioni tali da ingenerare nei terzi il ragionevole convincimento dell’esistenza del rapporto, per il prodursi dell’effetto giuridico dell’estensione, al soggetto che agisca come socio, della responsabilità per le obbligazioni sociali” (Cass. n. 8168/1996; v. anche Cass. n. 6087/1986).
In caso di apparenza esterna dell’esistenza del vincolo sociale, ai fini della responsabilità verso terzi per le obbligazioni sociali (e, dunque, anche ai fini dell’estensione del fallimento personale: v. sul punto anche Cass. n. 2359/1990) “basta la “prova” di un comportamento del socio tale da integrare la esteriorizzazione del rapporto nel senso suindicato, a tutela dei terzi che su quell’apparenza abbiano fatto affidamento” (Cass. 8168/1996; Cass. 11342/2024) e dunque la prova di comportamenti o circostanze ritenuti indicativi della sussistenza di una affectio societatis. Quindi, la sola apparenza esteriore di un rapporto di società “se tale da generare nei terzi il ragionevole convincimento che quel rapporto esista, è sufficiente a giustificare la dichiarazione di fallimento personale del socio apparente, come conseguenza del fallimento della società” (Cass. 14338/2003).
Nell’ipotesi affrontata da Cass. 11342/2024, la Corte di legittimità ha ritenuto provata la sussistenza di un rapporto sociale apparente in virtù del fatto che il nome del soggetto nei confronti del quale è stato esteso il fallimento della società (in accomandita semplice), era stato mantenuto all’interno della denominazione sociale.
Come noto, la ragione sociale di società in accomandita semplice deve essere costituita “dal nome di almeno uno dei soci accomandatari, con l’indicazione di società in accomandita semplice” (v. art. 2314, co. 1, c.c.); l’inserimento del nome di un socio accomandante all’interno della ragione sociale comporta l’assunzione, da parte di quest’ultimo, nei confronti dei terzi, di una responsabilità illimitata e solidale con gli accomandatari per le obbligazioni sociali (art. 2314, co. 2, c.c.).
Poiché l’inserimento del proprio nominativo all’interno della ragione sociale si configura “come un elemento di esteriorizzazione ai terzi del vincolo societario e di affectio societatis, senza che assumano rilievo le ragioni della scelta” ciò comporta la fallibilità del soggetto e l’irrilevanza del fatto che quest’ultimo abbia cessato, ben prima della dichiarazione di fallimento della società, di essere socio accomandatario.
Infatti, il mantenimento del nome all’interno della ragione sociale esclude che il computo di un anno, previsto dall’art. 147, co. 2, l.fall., possa farsi decorrere dal momento della cessazione della qualità di socio (in questo caso, avvenuta nel 2012, mentre il fallimento della società è stato dichiarato nel 2018).
Il tutto in conformità alla ratio ispiratrice dell’art. 2314 c.c, che, appunto, si pone a tutela dell’affidamento dei terzi creditori sulla responsabilità illimitata di chi abbia consentito di presentarsi ai terzi come socio illimitatamente responsabile (come indicato dalla Cassazione, infatti, “ L’inserimento del nominativo del socio accomandante nella ragione sociale (art. 2314, comma 2°, c.c.), al pari dell’inserimento nella ragione sociale del nome del socio accomandatario cessato (artt. 2314, comma 1°, e 2292, comma 2°, c.c.), ne comporta, invero e per previsione normativa, la responsabilità illimitata per le obbligazioni della società esclusivamente in ragione del contenuto oggettivo della ragione sociale e della oggettiva confusione conseguentemente ingenerata sul ruolo da lui (ancora) svolto nella società; deve, per contro, restare estranea a tale valutazione ogni considerazione relativa ad elementi estrinseci all’aspetto formale della ragione sociale come, ad esempio, il comportamento dell’accomandante o del socio accomandatario cessato, i quali, in effetti, rispondono personalmente (anche per ripercussione automatica del fallimento della società: art. 147, comma 1°, l.fall.) dei debiti contratti dalla società nel periodo di tempo in cui il loro nome è compreso nella ragione sociale a prescindere dal fatto che i terzi sapessero o ignorassero che si trattava di un socio accomandante o di un socio accomandatario non più tale”).
Oltre al caso in cui il terzo, pur non essendo più socio, abbia acconsentito al mantenimento del proprio nome nella ragione sociale, in altre ipotesi, l’estensione del fallimento al socio apparente è stata dichiarata sulla base di:
- Adozione dei poteri di gestione ed ingerenza analoghi a quelli di un socio accomandatario, quali spendita del nome della società nelle trattative per acquisto di beni di ingente valore, esercizio di potere direttivo nei confronti dei dipendenti, dichiarazioni rese a terzi (Cass. n. 8168/1996);
- Rapporti con i clienti della società, cura delle commissioni delle società ed emissione di assegni per conto di essa (Cass. 14338/2003);
- Svolgimento di un’attività contrattuale in nome e per conto della società fallita, con modalità idonee ad ingenerare nei terzi (i.e. istituto o bancario) il ragionevole convincimento dell’esistenza della qualità di socio (App. Catania, n. 2378/2018, in Dejure, nel caso di specie le modalità di svolgimento dell’attività hanno comportato una riqualificazione del rapporto sociale, da socio accomandante a socio accomandatario).
A seguire, la Corte di Cassazione ha chiarito le questioni sollevate in relazione alla decorrenza del termine di cui all’art. 147, co. 2, l.fall., ponendolo in relazione all’art. 147, co. 4, l.fall. e operando i necessari distinguo.
L’art. 147, co. 2, l.fall., prevede infatti che non possa più essere dichiarato il fallimento dei soci illimitatamente responsabili una volta decorso un anno dallo scioglimento del rapporto sociale o dalla cessazione della responsabilità illimitata (anche in caso di trasformazione, fusione o scissione), “se sono state osservate le formalità per rendere noti ai terzi i fatti indicati”. Quindi, in caso di società di persone, è necessario che vengano pubblicati nel registro delle imprese i fatti che determinano la perdita della qualità di socio illimitatamente responsabile (Cass. 22661/2021). Per tali ragioni, non rileva di per sé la cessazione dell’attività sociale conseguente al fallimento, né l’insussistenza di una preclusione da giudicato per la mancata dichiarazione di fallimento del socio illimitatamente responsabile già emergente come tal al momento di dichiarazione di fallimento della società (Cass. 11342/2024).
Il presupposto del comma 4 dell’art. 147 l.fall. (come già chiarito anche da Cass. 35854/2023) è che sia stato dichiarato il fallimento di una società con soci illimitatamente responsabili “e che, dopo il fallimento della società (insolvente: e quindi, in quel momento, incontestatamente gravata, almeno in sede di estensione, da debiti insoluti …) emerga l’esistenza di altro socio, illimitatamente responsabile per (tali) obbligazioni sociali, che, per un motivo o per l’altro, non era già stato dichiarato fallito, a norma dell’art. 147, comma 1°, cit., per effetto automatico della dichiarazione di fallimento della società”; il tutto senza prevedere particolari decadenze temporali.
Pertanto, salvo che la dichiarazione di fallimento non abbia espressamente escluso l’insussistenza della qualità di socio rispetto ad un determinato soggetto, con statuizione passata in giudicato, non v’è preclusione a che sia domandata l’estensione del fallimento in capo ad un socio illimitatamente responsabile “come socio (anche cessato) che abbia acconsentito il mantenimento del proprio nome nella ragione sociale, quando siffatta situazione fosse già emergente come tale al momento della dichiarazione di fallimento della società”.
E, infatti, la dichiarazione di fallimento della società non comporta lo scioglimento del rapporto sociale con il socio, sì che “il termine annuale previsto dall’art. 147, comma 2°, l.fall., oltre il quale il socio non può più essere dichiarato fallito in conseguenza della dichiarazione di fallimento della società, decorre non dall’eventuale cessazione dell’attività d’impresa ma solo dall’iscrizione nel registro delle imprese dei fatti determinanti la perdita della qualità di socio illimitatamente responsabile (Cass. n. 22661 del 2021; Cass. n. 36378 del 2023, in motiv.)”.
Come chiarito dai giudici di legittimità, l’art. 147, co. 2, fall. nel far riferimento allo “scioglimento del rapporto sociale” e alla decorrenza da quel momento del termine annuale, si applica esclusivamente allo scioglimento del rapporto rispetto al singolo socio (o alla cessazione adeguatamente pubblicizzata del regime di responsabilità illimitata) e non anche allo scioglimento della società, che non è, del resto, preso in considerazione neppure dall’art. 10 l.fall. (sul punto la Cassazione afferma infatti che “quest’ultima disposizione, infatti, fa decorrere il termine annuale di fallibilità dalla cancellazione della società dal registro delle imprese, sempre che non sia dimostrato che l’attività è proseguita, per cui, se è vero che il fallimento della società ne determina lo scioglimento (art. 2308 c.c.), è anche vero che quest’ultimo non determina né l’estinzione della società, che consegue soltanto alla sua cancellazione dal registro delle imprese (artt. 2312 e 2495 c.c.), né la decorrenza del menzionato termine annuale di fallibilità della stessa società e, conseguentemente, dei suoi soci illimitatamente responsabili”).
Conclusivamente, si afferma quindi che la dichiarazione di fallimento sebbene operi di diritto come causa di scioglimento della società (art. 2272 c.c.) non comporta di per sé alcuna alterazione del vincolo sociale e dell’organizzazione sociale, sì che “la società (…), con il fallimento entra in stato di liquidazione e rimane in vita sino al momento della cancellazione dal registro delle imprese (Cass. n. 22263 del 2012, in motiv.)” e, nella permanenza del rapporto sociale, è ben possibile che venga dichiarato il fallimento, a norma del comma 4 dell’art. 147 l.fall., del socio apparente (senza applicazione del termine annuale di cui all’art. 147, co. 2, l.fall., per le ragioni anzidette).
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