Una pronuncia in controtendenza sui rapporti fra appello incidentale e onere di riproposizione
di Enrico Picozzi Scarica in PDFIl presente lavoro dà conto di una recente pronuncia di legittimità che sembra rimettere in dubbio l’ambito di operatività di appello incidentale e onere di riproposizione, così come ridelineato dal recente dittico delle Sezioni Unite.
- I recenti interventi chiarificatori delle Sezioni Unite in materia di rapporti fra appello incidentale e onere di riproposizione.
Il regolamento dei confini fra onere di riproposizione ex art. 346 c.p.c. e appello incidentale ex art. 343 c.p.c. e la conseguente delimitazione dei rispettivi campi di applicazione investe una delle tematiche più complesse del giudizio di impugnazione.
Su tale problematica, le Sezioni Unite (cfr. Cass., sez. un., 19 aprile 2016, n. 7700, annotata da C. Consolo, in Corr. Giur., 2016, 977 e ss.; Cass., sez. un., 12 maggio 2017, n. 11799, annotata da C. Consolo, in Corr. Giur., 2017, 1414 e ss.) hanno recentemente tentato di far chiarezza, offrendo all’operatore soluzioni pratiche principalmente ispirate dal criterio della soccombenza, unitariamente considerata, ossia senza attribuire alcuna particolare rilevanza alla sua natura (teorica o pratica).
A tal proposito ed in via di estrema sintesi, si è affermato che l’impugnazione incidentale costituisce l’unico rimedio per ovviare al rigetto (espresso oppure implicito) nonché all’omesso esame (ricomprendendosi in quest’ultima espressione tanto l’ipotesi di illegittima pretermissione quanto la violazione dell’ordine di decisione delle domande e/o delle eccezioni impresso dalla parte) di una domanda e/o di un’eccezione.
In questo contesto, dunque, la riproposizione entra in gioco nei soli casi in cui non vi è la necessità di spiegare una critica nei confronti della sentenza impugnata, ovvero nelle ipotesi di legittimo assorbimento, nelle quali la parte può limitarsi – mancando una decisione sulla domanda e/o sull’eccezione avanzata – a proporre nuovamente (per l’appunto, ri-proporre) l’istanza non esaminata, cioè non accolta in quanto ritualmente assorbita.
In via esemplificativa, alla luce del nuovo orientamento di legittimità, la parte totalmente vittoriosa nel merito, ma soccombente su questione pregiudiziale di rito e/o preliminare di merito, per devolvere alla cognizione del giudice superiore la questione rispetto alla quale ha maturato una posizione di soccombenza (teorica), dovrà spiegare appello incidentale: la qual cosa gli imporrà – sul piano della tecnica processuale – il rispetto dei rigidi dettami di cui all’art. 342 c.p.c. nonché dei tempi di cui all’art. 343 c.p.c., pena l’inammissibilità del gravame ed il conseguente passaggio in giudicato interno della stessa questione ex art. 329, co. 2, c.p.c.
- La diversa soluzione avallata da Cass., sez. II, 16 febbraio 2018, n. 3843: un isolato ritorno al passato?
Questa nuova presa di posizione della giurisprudenza di legittimità, tutta incentrata sul requisito formale della soccombenza, in relazione alla quale, come già detto, l’onere di impugnazione sorge per il semplice fatto che un’istanza della parte, latamente intesa, non abbia trovato accoglimento nella sentenza e ciò, si badi bene, a prescindere dall’esito finale della lite, sembra essere stata messa in discussione da una recente pronuncia della Seconda Sezione (cfr. Cass., sez. II, 16 febbraio 2018, n. 3843).
Pronuncia di cui risultano chiari i passaggi argomentativi, sebbene non sia possibile ricostruirne con esattezza la vicenda di merito.
Al riguardo, e senza addentrarci negli incerti sviluppi processuali della lite, si afferma – muovendo da un risalente insegnamento delle Sezioni Unite del 2007 (cfr. Cass., sez. un., 24 maggio 2007, n. 12067) – che l’interesse all’impugnazione sussiste solamente in presenza di una posizione di soccombenza pratica, intesa come situazione di fatto in ragione della quale, il provvedimento finale abbia tolto o negato alla parte un bene della vita, accordandolo altresì all’avversario.
Di contro, invece, sempre secondo la sentenza in commento, una mera situazione di soccombenza teorica non dovrebbe far sorgere l’interesse ad impugnare, ma imporrebbe in capo alla parte, vittoriosa nel merito, soltanto un onere di riproposizione ex art. 346 c.p.c. delle domande e/o delle eccezioni respinte o dichiarate assorbite nel corso del giudizio di primo grado.
Ne segue che, traducendo in concreto i principi enunciati dalla Seconda Sezione, nell’esempio richiamato sul finire del precedente paragrafo, la parte totalmente vittoriosa nel merito, ma soccombente su questione pregiudiziale di rito e/o preliminare di merito, potrebbe semplicemente limitarsi a riproporre la questione rigettata, così sottraendosi all’onere di specificità dei motivi di gravame di cui all’art. 342 c.p.c., alle rigide tempistiche di cui all’art. 343.c.p.c. (ben potendo riproporre la questione sino all’udienza di precisazione delle conclusioni, ma su tale profilo cfr. par. 3), oltre che al pagamento del c.d. contributo unificato di cui all’art. 13, comma 1 bis, d.p.r. 115/2002.
2.1. (Segue) Le basi teorico-dogmatiche cui attinge la motivazione di Cass. 3843/2018. Critica.
Alla luce delle considerazioni svolte nell’ambito del par. 2, sembra dunque evidente che le argomentazioni utilizzate dalla sentenza n. 3843 del 2018 ed il precedente ivi richiamato contrastino con i più recenti sviluppi della giurisprudenza di legittimità in tema di rapporti fra impugnazione incidentale ed onere di riproposizione, facendo rivivere un orientamento, le cui basi teorico-dogmatiche (tesi della c.d. indifferenza utiliratistica: sul punto, v. A. Tedoldi, L’onere di appello incidentale nel processo civile, in Giur. it., 2001, 1304 nonché 1310; Id., L’appello civile, Torino, 2016, 204 e ss.) sembravano definitivamente superate.
Infatti, prima del duplice intervento della Suprema Corte, nella sua massima composizione nomofilattica, si era soliti affermare che l’interposizione del gravame, principale o incidentale, presupponeva necessariamente il verificarsi di una situazione di soccombenza pratica, correlata, come è noto, all’esito meritale della lite (mancato conseguimento del bene della vita). Di conseguenza, al ricorrere di una mera situazione di soccombenza virtuale (rigetto di una eccezione oppure di una delle distinte ragioni poste a fondamento della domanda), l’interposizione del gravame non sarebbe stato necessario, giacché la soccombenza maturata sarebbe stata in ogni caso superata dalla vittoria meritale altrimenti conseguita (accoglimento di un’altra eccezione oppure valutazione di fondatezza di un’altra causa petendi): in altre parole, stando a questa pregressa impostazione, il rigetto della questione sollevata rimaneva assorbito (c.d. assorbimento in senso lato) dalla vittoria comunque ottenuta e sarebbe dunque risultato indifferente per la parte che lo subiva.
Proprio in ragione della natura non pregiudizievole, e quindi minimale di tale soccombenza, la precedente giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass., sez. VI, 24 febbraio 2015, n. 3715; Cass., sez. III, 17 febbraio 2014, n. 3602; Cass., sez. III, 14 marzo, 2013, n. 6550; Cass., sez. I, 26 novembre 2010, n. 24021; Cass., sez. un., 2 luglio 2004, n. 12138) riteneva sufficiente la mera riproposizione della questione respinta, finendo dunque coll’interpretare in senso ampio la locuzione “non accolte” di cui all’art. 346 c.p.c., in quanto si ritenevano ricomprese al suo interno tanto le ipotesi di soccombenza virtuale quanto le ipotesi di rituale assorbimento.
Ora, sembra chiaro che alla base di questo distinto orientamento vi fosse l’intento di valorizzare il requisito dell’interesse ad impugnare, inteso come astratta possibilità di conseguire una pronuncia più favorevole in fase di gravame e quindi di circoscrivere l’esercizio dell’impugnazione ai soli casi di effettivo pregiudizio sostanziale. Nondimeno, tale impostazione è stata definitivamente accantonata dalle più volte menzionate pronunce delle Sezioni Unite, che, in un’ottica di semplificazione dei rapporti fra appello incidentale e onere di riproposizione, hanno inteso ricollegare l’interposizione del gravame al ricorrere di una mera posizione di “torto” (su tale terminologia, v. Cass., sez. un., 20 ottobre 2016, n. 21260), risultando irrilevante la sua natura pratica oppure virtuale.
La pronuncia della Sezione Seconda, dunque, desta più d’una perplessità, poiché, da un lato, mina lo sforzo nomofilattico compiuto dalle Sezioni Unite e, dall’altro lato, ingenera un senso di incertezza nell’operatore, anche alla luce delle rilevanti conseguenze pratiche che il nuovo corso giurisprudenziale implica.
Peraltro, si segnala che, in un precedente anteriore di pochi giorni rispetto a quello oggetto di commento (cfr. Cass., sez. II, 12 febbraio 2018, n. 3350), la medesima Sezione Seconda ha altresì fatto corretta applicazione del nuovo orientamento avallato dalle Sezioni Unite: con il che, si auspica che la pronuncia annotata resti un precedente isolato.
- Un’ulteriore questione problematica sollevata da Cass. 3843 del 2018: le forme della riproposizione.
La lettura del provvedimento in commento pone un’ulteriore rilevante questione, vale a dire quella relativa alle forme della riproposizione (sui tempi di esercizio della facoltà di cui all’art. 346 c.p.c., si veda invece la recente ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite: Cass., sez. III, 7 dicembre 2017, n. 29499).
Più precisamente, Cass. 3843 del 2018 ha ritenuto sufficiente, ai fini della devoluzione innanzi al giudice superiore delle domande ed eccezioni non accolte, un esplicito ma generico richiamo a tutte le “… deduzioni, eccezioni e richieste”, spiegate nel corso del giudizio di primo grado.
Anche questa affermazione, a ben vedere, sembra porsi in contrasto con quelle che sono le tradizionali, se così si può dire, indicazioni pratiche provenienti dalla giurisprudenza di legittimità.
La Suprema Corte, infatti, se, per un verso, è solita affermare che la riproposizione può avvenire in qualsiasi forma idonea ad evidenziare in modo inequivoco la chiara e precisa volontà della parte di sottoporre, alla cognitio del giudice ad quem, la questione (assorbita), per altro verso, è pure solita richiedere che la riproposizione venga effettuata in modo specifico, non ritenendo dunque sufficiente un generico richiamo alle deduzioni e conclusioni di primo grado (così ex multis Cass., sez. lav., 25 novembre 2010, n. 23925; Cass., sez. V, 24 gennaio 2007, n. 1545; Cass., sez. III, 26 aprile 2004, n. 7918).
L’orientamento appena richiamato, ancorché più rigido, sembra tuttavia di gran lunga preferibile, poiché la precisa delimitazione dei materialia causae devoluti al giudice dell’impugnazione risponde all’esigenza di garantire la corretta instaurazione del contraddittorio in fase di gravame e di riflesso il diritto di difesa della parte appellante.
Peraltro, affinché queste due ultime esigenze, costituzionalmente tutelate, trovino effettiva realizzazione, sembra indispensabile propendere per un inevitabile collegamento, sul piano temporale, della facoltà di cui all’art. 346 c.p.c. alla tempestiva costituzione in appello. E si auspica dunque che le Sezioni Unite, chiamate a pronunciarsi sulla questione, possano prediligere quest’ultima soluzione non solo per gli appelli introdotti prima della novella del 2005 (l. 80/2005) – questione che costituisce l’oggetto immediato dell’ordinanza di rimessione più sopra citata –, ma anche per gli appelli proposti successivamente alla sua entrata in vigore.