Procura speciale a vendere, incapacità naturale e onere probatorio
di Alessandra Sorrentino, Avvocato Scarica in PDFCass. civ., Sez. II, ord., 28.02.2022, n. 6598 – Pres. Giusti – Rel. Oliva
Procura a vendere – Incapacità di intendere e di volere – Incapacità naturale – Annullabilità del contratto – Presunzione – Apprezzamento del giudice di merito
(art. 428 c.c.)
Massima: “Al fine dell’invalidità del negozio per incapacità naturale non è necessaria la prova che il soggetto, nel momento del compimento dell’atto, versava in uno stato patologico tale da far venir meno, in modo totale e assoluto, le facoltà psichiche, essendo sufficiente accertare che tali facoltà erano perturbate al punto da impedire al soggetto una seria valutazione del contenuto e degli effetti del negozio, e quindi il formarsi di una volontà cosciente”.
CASO
A seguito di un ictus, un coniuge, comproprietario con la moglie di un immobile, circa due anni prima della morte, aveva conferito alla moglie una procura speciale a vendere il detto immobile, nella quale dichiarava di non essere in grado di firmarla per indebolimento delle mani.
Successivamente, in forza di tale procura, la moglie vendeva il cespite.
Dopo la morte del padre, il figlio citava in giudizio la madre e gli acquirenti dell’immobile, rilevando che, al momento del conferimento della procura, il genitore non fosse soltanto fisicamente impedito ma anche incapace di intendere e di volere e, pertanto, chiedeva l’accertamento dell’incapacità di intendere e di volere del padre, l’annullamento della procura speciale a vendere e, conseguentemente, la nullità e/o annullamento e/o inefficacia dell’atto di compravendita concluso dalla madre.
Esteso il contraddittorio anche alle sorelle dell’attore, in primo grado la domanda veniva parzialmente accolta, riconoscendo il Giudice di prime cure l’incapacità di intendere e di volere del rappresentato all’atto del rilascio della procura a vendere, che veniva, pertanto, annullata. Tuttavia, faceva salvi gli effetti della compravendita da parte dei terzi di buona fede e condannava soltanto la madre dell’attore al pagamento di una somma, a titolo di risarcimento, nei confronti dello stesso e delle sorelle.
In grado di appello l’attore insisteva per l’accoglimento della domanda di annullamento/nullità/inefficacia della compravendita; mentre la madre proponeva appello incidentale in relazione alla statuizione con cui il primo giudice aveva ravvisato la condizione di incapacità di intendere e di volere del marito, annullando, pertanto, la procura a vendere rilasciata in favore della moglie.
La Corte d’Appello respingeva l’impugnazione principale mentre accoglieva quella incidentale.
Avverso tale decisione il figlio proponeva ricorso per cassazione affidandolo a due motivi di doglianza.
SOLUZIONE
La Suprema Corte con l’ordinanza in commento richiama taluni principi consolidati in giurisprudenza, secondo cui la prova dell’incapacità naturale può essere data con ogni mezzo o in base ad indizi e presunzioni che, anche da soli, possono essere decisivi ai fini della sua configurabilità e il giudice è libero di utilizzare, ai fini del proprio convincimento, anche le prove raccolte in un giudizio intercorso tra le stesse parti o tra altre. L’apprezzamento di tale prova costituisce giudizio riservato al giudice di merito che sfugge al sindacato di legittimità, se sorretto da congrue motivazioni, esenti da vizi logici e da errori di diritto
QUESTIONI
Con il primo motivo di ricorso, il ricorrente lamentava la violazione degli artt. 2729 c.c. e 2697 c.c., affermando che il Giudice di secondo grado avesse errato nell’interpretazione delle risultanze istruttorie, in quanto aveva ritenuto che non fosse provato lo stato di incapacità di intendere e di volere del genitore al momento del conferimento della procura speciale a vendere.
In particolare, la corte di merito aveva ritenuto valida la procura per il fatto che nel rappresentato sussisteva una “alternanza di fasi di compromissione cognitiva rilevante e di fasi di remissione e sostanziale compenso”, pur avendo dato atto che il CTU aveva affermato che, dalle videoregistrazioni risalenti a soli tre mesi prima del rilascio della procura, il rappresentato presentava un “gravissimo stato di deficitarietà non solo motoria ma anche espressiva e di uno stato patologico di natura ed entità tale da precludere ogni efficace comunicazione, concludendo che, per tale ragione, il soggetto ripreso nella videoregistrazione deve essere ritenuto totalmente incapace di esprimere valide manifestazioni di volontà e in ragione di ciò deve essere ritenuto incapace di intendere e di volere”.
Secondo il ricorrente, la corte di merito avrebbe erroneamente valorizzato l’alternanza di momenti di presenza e di assenza cognitiva, mentre non avrebbe ritenuto decisive le risultanze delle videoregistrazioni, in considerazione dello stato di intermittente incapacità. La Corte d’appello avrebbe dovuto, invece, presumere l’incapacità fino a prova contraria, la quale avrebbe dovuto essere fornita dalla madre dell’attore.
Con il secondo motivo, il ricorrente lamentava la violazione dell’art. 132 c.p.c., rilevando un contrasto logico tra due passaggi della motivazione della gravata sentenza, nella parte in cui prima afferma e poi esclude l’esistenza di periodi di compromissione cognitiva successivi al momento del conferimento della procura speciale a vendere.
La Suprema Corte con l’ordinanza in commento ha ritenuto non fondati entrambi i motivi ed ha rigettato il ricorso, sul presupposto che il Giudice di seconde cure avesse valorizzato – mediante un giudizio di fatto non sindacabile in sede di legittimità – le risultanze del diario clinico del paziente, da cui emergeva un, sia pure parziale, recupero delle facoltà cognitive dello stesso (rectius: l’alternanza di fasi di incapacità e momenti di remissione e recupero delle facoltà cognitive).
Nel rigettare i motivi di ricorso, gli Ermellini hanno affrontato il centrale tema della dimostrazione dello stato di incapacità naturale e dell’onere probatorio, che incombe sulla parte che intenda farla valere.
Secondo l’orientamento consolidato dei giudici di legittimità, al fine dell’invalidità del negozio per incapacità naturale, non occorre provare che il soggetto, al momento del compimento dell’atto, versasse in uno stato patologico tale da fare venire meno, in modo totale ed assoluto, le facoltà psichiche, essendo sufficiente accertare che tali facoltà erano perturbate al punto tale da impedire al soggetto una seria valutazione del contenuto e degli effetti del negozio, e quindi il formarsi di una volontà cosciente.
D’altra parte, l’incapacità naturale di cui all’art 428 c.c. si connota non per la totale o sensibile privazione delle facoltà intellettive e volitive, essendo sufficiente la sola menomazione delle stesse, tale da impedire, comunque, la formazione di una volontà cosciente. In tal modo viene meno la capacità di autodeterminazione del soggetto e la consapevolezza in relazione all’atto che sta per compiere.
In particolare, è necessario e sufficiente che, a causa di tale menomazione, le facoltà intellettive e volitive appaiano diminuite, così da impedire o ostacolare una seria valutazione dell’atto e la formazione di una volontà cosciente.
Dopodichè, l’ordinanza in commento passa in rassegna una serie di principi consolidati in giurisprudenza.
Quanto alla prova dell’incapacità naturale, ribadiscono gli Ermellini, essa può essere data con ogni mezzo o in base ad indizi e presunzioni che, anche da soli, se del caso, possono essere decisivi ai fini della sua configurabilità e il giudice è libero di utilizzare, ai fini del proprio convincimento, anche le prove raccolte in un giudizio intercorso tra le stesse parti o tra altre. L’apprezzamento di tale prova costituisce giudizio riservato al giudice di merito che sfugge al sindacato di legittimità, se sorretto da congrue motivazioni, esenti da vizi logici e da errori di diritto (Cass. civ., 30.05.2017, n. 13659, Cass. civ., 08.06.2011, n. 12532).
Altro principio pacifico richiamato dalla Suprema Corte è quello secondo cui la prova dell’incapacità naturale non deve necessariamente far emergere l’esistenza di una malattia, che azzeri le facoltà intellettive del soggetto, ma l’esistenza di un fatto che abbia alterato e menomato gravemente quelle facoltà.
L’ordinanza richiama poi un ulteriore principio relativo al requisito della contemporaneità tra la causa di incapacità naturale ed il momento del compimento dell’atto (contemporaneità che è richiesta perché si abbia l’annullamento dell’atto compiuto dall’incapace), il quale non deve essere inteso in senso assoluto in relazione a quel preciso momento, potendosi avere riguardo alle condizioni in cui il soggetto si trovava prima e dopo il compimento dell’atto, onde accertare, nel caso in cui l’infermità sia dovuta a malattia, se questa sia suscettibile di regresso, di stabilità o di miglioramento, al fine di stabilire se la malattia manifestatasi anteriormente o successivamente possa ritenersi sussistente anche nel momento in cui fu posto in essere l’atto impugnato.
E’ principio pacifico, inoltre, che una volta accertata la totale incapacità di un soggetto in due determinati periodi, prossimi nel tempo, per il periodo intermedio la sussistenza dell’incapacità è presunta, iuris tantum, talché in concreto si verifica un’inversione dell’onere della prova, nel senso che, in tale ipotesi, deve essere dimostrato, da chi vi abbia interesse, che il soggetto abbia agito in una fase di lucido intervallo (Cass. civ., 09.08.2011, n. 17130; Cass. civ., 04.03.2016, n. 4316).
Pertanto, la prova dell’incapacità naturale non deve essere necessariamente riferita alla situazione esistente al momento in cui l’atto impugnato venne posto in essere, essendo possibile che tale situazione emerga da uno stato generale anteriore o posteriore al momento della redazione dell’atto, così che si possano trarre da circostanze note, mediante prova logica, elementi probatori conseguenti.
Quindi, l’incapacità maturale, ove si tratti di una situazione non transitoria, ma relativamente perdurante, quale una malattia, può essere provata anche attraverso il dato induttivo, rappresentato dalle condizioni del soggetto antecedenti o successive al compimento dell’atto pregiudizievole. E l’apprezzamento di tale prova costituisce un giudizio riservato, come si è detto, al giudice di merito, il quale ha il potere-dovere di valutare liberamente, ai fini del proprio convincimento, l’esattezza delle operazioni effettuate ed i relativi risultati; giudizio che sfugge al sindacato di legittimità, se sorretto da argomentazioni congrue, esenti da vizi logici e da errori di diritto.
Concludendo, quindi, secondo gli Ermellini, la gravata sentenza è conforme ai vari principi sopra esposti, in quanto la corte di merito aveva sottolineato la sussistenza di una situazione di pregressa infermità, tale da rendere il coniuge rappresentato “genericamente” incapace, privandolo così “almeno parzialmente di quelle piene facoltà di adeguatezza nei rapporti interpersonali e di collocazione di sé nel tempo e nello spazio”, ma aveva poi valorizzato per il periodo successivo al rilascio della procura “gli intervalli di lucidità risultanti dal diario clinico del paziente”, in cui lo stesso era descritto come “orientato personalmente, temporalmente e spazialmente”, e, pertanto, aveva considerato non raggiunta la prova della sua totale incapacità.
La corte di merito aveva correttamente escluso la presunzione di incapacità, nel periodo in cui era stata conferita la procura a vendere, stante la mancanza della prova che il soggetto fosse fin da “allora affetto da malattia psichica permanente” e che la procura a vendere dovesse essere inserita “in un periodo compreso tra due periodi di infermità psichica”.
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