11 Dicembre 2018

I presupposti per la condanna alla rifusione delle spese di lite e la pronuncia sull’applicazione del doppio contributo unificato

di Lucia Di Paolantonio, Avvocato Scarica in PDF

Cass., Sez. Terza, Sent., ud. 19 febbraio 2018, 24.10.2018, n. 26907

Spese giudiziali in materia civile – in genere (cod. prc. Civ., artt. 91 e 10; d.P.R. n. 115/2002, art. 13)

[1] [2] In punto di condanna alle spese di lite deve farsi applicazione del principio di causalità con la precisazione che, in capo alla parte in favore della quale dette spese siano liquidate, deve sussistere la necessità di costituirsi nel giudizio e ciò sul presupposto che la domanda sia posta contro di essa in via diretta ovvero in via indiretta, e cioè in modo da provocare un qualche effetto, anche riflesso, sulla sua posizione, anche nel caso di inscindibilità delle domande.

[3] In relazione all’applicazione dell’art. 1, comma 1-quater del d.P.R. n. 115 del 2002 il Giudice è investito del semplice potere di attestazione dei requisiti di applicazione della predetta norma, con esclusione del potere di dichiarare se la parte sia tenuta o meno al versamento del richiamato contributo in quanto tale potere spetta all amministrazione giudiziaria. Di conseguenza la pronuncia relativa all’esistenza dei presupposti per l’applicazione della predetta norma non può leggersi come di debenza della doppia contribuzione, atteso che essa non ha tale oggetto.

 CASO

C.N., debitore esecutato in una procedura esecutiva immobiliare esattoriale, proponeva opposizione all’esecuzione ottenendo la sospensione della vendita ai sensi dell’art. 586 cod. proc. civ., sospensione successivamente revocata con ordinanza. Il debitore, pertanto, introduceva il giudizio di merito, in pendenza del quale l’aggiudicatario dell’immobile, Ru., otteneva il decreto di trasferimento e alienava l’immobile a R.

Successivamente, il Tribunale di Bari, con sentenza accoglieva l’opposizione dichiarando la nullità dell’ordinanza che disponeva la revoca della sospensione ex art. 586 cod. proc. civ. La predetta sentenza era appellata dall’aggiudicatario, tuttavia l’appello era dichiarato inammissibile.

In pendenza di appello, il debitore esecutato C. chiedeva al Giudice dell’Esecuzione la sospensione del procedimento esecutivo, pur in presenza dell’emissione del decreto di trasferimento, non essendo ancora stato distribuito il ricavato della vendita e successivamente alla sentenza di inammissibilità pronunciata dalla Corte di Appello di Bari riassumeva il giudizio di esecuzione chiedendo la revoca dell’aggiudicazione provvisoria e del decreto di trasferimento emessi in favore di Ru. Nel detto procedimento interveniva R., avente causa di Ru. Il Giudice dell’Esecuzione, con ordinanza disponeva “l’archiviazione della procedura esecutiva” reputandola “definitivamente estinta a seguito dell’emissione del decreto di trasferimento”.

Il provvedimento di estinzione veniva impugnato da C.N. con opposizione agli atti esecutivi, ma nel contempo depositava reclamo ai sensi dell’art. 630 cod. proc. civ., promossa nei confronti del creditore procedente (che non si costituiva), nei confronti di Ru. e di R., che si costituivano in giudizio. Il Tribunale dichiarava inammissibile il reclamo e condannava C.N. alla rifusione delle spese di giudizio in favore di R. La sentenza era appellata nella parte in cui condannava C.N. alla rifusione delle spese di lite in favore di R.; l’appello era rigettato con condanna di C.N. alla rifusione delle spese in favore sia di R., sia della creditrice procedente e con statuizione dell’esistenza dei requisiti per l’applicazione del contributi unificato ex art. 13 comma 1-quater d.P.R. n. 115/2002. Avverso la sentenza di appello C.N. ha proposto ricorso per Cassazione, affidandosi a sei motivi, di cui l’ultimo assorbito, tutti aventi ad oggetto la richiesta di cassazione della sentenza in punto di spese legali e condanna al pagamento del contributo unificato.

I motivi addotti da C.N. nel ricorso per Cassazione e dalla stessa analizzati, sostanzialmente si articolano come di seguito specificato:

[1] i primi due motivi con i quali era lamentata la violazione e falsa applicazione degli artt. 91, 630 e 632 cod. proc. civ., e art. 187 disp. att. cod. proc. civ. e degli artt. 100 e 105 cod. proc. civ., nonché 1362 e 1363 cod. civ. in quanto R. non sarebbe stata legittimata ad agire nel procedimento di reclamo e nel successivo appello e, pertanto, alla stessa non doveva essere riconosciuto il diritto alla rifusione delle spese di lite;

[2] il terzo motivo con il quale era lamentata la violazione falsa applicazione degli artt. 91 e 100 cod. proc. civ., in merito alla condanna alle spese pronunciata in favore della creditrice procedente, in quanto l’appello era stato notificato soltanto sub specie di litis denuntiatio;

[3] il quarto con il quale era dedotta la violazione e falsa applicazione del d.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, in quanto la corte territoriale, ancorché il ricorrente risultasse ammesso al patrocinio a spese dello Stato, aveva dichiarato dovuto dal medesimo al versamento del doppio contributo unificato.

SOLUZIONE

La Terza Sezione Civile della Corte di Cassazione ha accolto il terzo motivo di ricorso e cassato senza rinvio la sentenza impugnata quanto alla statuizione di condanna alle spese a favore del creditore procedente, per il resto ha rigettato il ricorso e compensato le spese del giudizio di cassazione dando atto della insussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello eventualmente dovuto per il ricorso a norma del comma 1-bis dell’art. 13 d.P.R. n. 115/2002.

QUESTIONI

La pronuncia qui annotata affronta diverse questioni, le quali per eterogeneità devono essere trattate separatamente.

[1] [2] La prima questione attiene all’applicazione del principio di causalità al governo delle spese di lite, per cui il soccombente deve essere condannato al rimborso delle spese a favore dell’altra parte, sul riflesso di aver provocato il giudizio, sia nel caso in cui la partecipazione al processo sia stata provocata a seguito di vocatio in ius, sia nel caso in cui sia stato spiegato intervento e ciò allorquando sussista l’interesse a resistere ovvero ad intervenire.

La questione sottesa alla decisione della Corte, invero, trae origine dall’analisi di due posizioni distinte ma speculari, la prima relativa alla partecipazione al processo dell’avente causa dell’aggiudicatario al quale è stato riconosciuto l’interesse a partecipare al giudizio di reclamo diretto a postulare il riconoscimento dell’indifferenza della sua posizione rispetto alla vicenda esecutiva, la seconda relativa alla partecipazione al processo di appello del creditore procedente, al quale l’appello era stato notificato soltanto sub specie di litis denuntiatio, la cui partecipazione, pertanto, è stata definita dalla Corte del tutto inutile.

La pronuncia qui annotata, non discostandosi dall’indirizzo giurisprudenziale cristallizzatosi, fa applicazione del principio di causalità con la precisazione che deve essere presente l’interesse della parte a costituirsi nel giudizio e ciò avviene quando la domanda è posta contro di essa in via diretta ovvero in via indiretta, e cioè in modo da provocare un qualche effetto, anche riflesso, sulla sua posizione, anche nel caso di inscindibilità delle domande. In caso la costituzione in causa non sia necessaria alla produzione di effetti giuridici nei confronti di chi la spiega, questi non avrà diritto alla rifusione delle spese legali.

[3] La seconda questione che assume rilevanza è quella relativa all’esistenza in capo al Giudice del semplice potere di attestazione dei requisiti di applicazione del d.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, con esclusione del potere di dichiarare se la parte sia tenuta o meno al versamento del richiamato contributo.

Nella sentenza in commento, infatti, la Corte specifica chiaramente i limiti di attestazione del giudice ordinario, il quale deve limitarsi ad “incasellare” la propria decisione come pronuncia di inammissibilità o improcedibilità o come di “respingimento integrale”, senza provvedere ad accertare se si debba procedere all’esazione del contributo; ciò in quanto – dice la Corte – l’accertamento relativo all’effettiva debenza ed esigibilità del tributo è un atto amministrativo – quindi non rientrante nella iurisdictio del Giudice ordinario – che spetta al personale di cancelleria ex art. 15 d.P.R. n. 115/2002 e, di conseguenza, le doglianze relative all’esazione eventualmente illegittima, dovranno essere fatte valere dinanzi al Giudice Tributario, unico competente.

La sentenza in commento, sostanzialmente, stabilisce che la pronuncia del Giudice si limita ad attestare se ricorra uno dei casi previsti dall’art. 13, comma 1-quater del T.U. Spese di giustizia e che, tale norma <<deve essere letta, quando si riferisce al dovere di attestazione dei presupposti di cui al periodo precedente, non già nel senso che il giudice deve dichiarare oltre alla ricorrenza di un caso di infondatezza, inammissibilità o improcedibilità dell’impugnazione, anche se la parte, in dipendenza di tale esito, sia in concreto tenuta oppure non al versamento del contributo>>. Da ciò ne consegue che non trattasi di pronuncia di condanna al pagamento della somma e, pertanto, mentre per i rilievi relativi alla qualificazione dei presupposti l’utente dovrà contestarne il merito dinanzi al giudice ordinario, quanto alle doglianze relative all’effettivo diritto alla riscossione, invece, dovrà essere adito il Giudice Tributario con applicazione della normativa speciale in materia.