Permuta di beni aventi valori diversi e liberalità indiretta
di Matteo Ramponi, Avvocato Scarica in PDFCassazione Civile, Sezione 2, Sentenza n. 32804 del 9 novembre 2021
SUCCESSIONI – Successioni testamentarie – Testamento olografo – Pretermissione di legittimari – Lesione dei diritti di legittima – Accertamento – Permuta di beni immobili – Beni aventi valori diversi – Negotium mixtum cum donatione – Donazione indiretta
* Per la identificazione del negotium mixtum cum donatione non basta la qualifica che all’atto hanno voluto attribuire le parti, né la obiettiva sproporzione, ma occorre la volontà di compiere un atto a titolo oneroso, che presenta una causa, tipica o atipica, accompagnata dalla volontà di determinare l’arricchimento, come risultato dell’atto, e che la sproporzione sia voluta per spirito di liberalità.
Incombe alla parte che intenda far valere in giudizio il negotium mixtum cum donatione l’onere di provare sia la sussistenza di una sproporzione di significativa entità tra le prestazioni, sia la consapevolezza di essa e la sua volontaria accettazione da parte dell’alienante in quanto indotto al trasferimento del bene a tali condizioni dall’animus donandi nei confronti dell’acquirente.
* Massima non ufficiale
Disposizioni applicate
Articoli 769 e 809 cod. civ.
[1] Venuto a mancare Tizio, la sua successione era regolata da testamento olografo con il quale veniva nominata unica erede la di lui figlia Caia. Si vedevano così pretermessi dalla successione gli altri legittimari Caio e Tizia (rispettivamente figlio e moglie del defunto).
Caio conveniva in giudizio la sorella e la madre, domandando la reintegrazione nella propria quota di legittima. Tizia, costituendosi in giudizio, formulava analoga domanda di riduzione.
Il Tribunale di primo grado, nel ricostruire il patrimonio ereditario al netto dei debiti e considerando le donazioni effettuate in vita dal de cuius, definiva la lite rigettando la domanda di Caio ed accogliendo, invece, la domanda di Tizia nei confronti della quale ravvisava una lesione di legittima e, conseguentemente, reintegrandola nella quota di riserva a scapito non solo dell’erede testamentaria, bensì anche dell’altro figlio Caio.
Nell’ambito del giudizio, infatti, il giudice di prime cure riconosceva natura di liberalità ad un atto di permuta stipulato tra Tizio e Caio.
Con tale atto, in particolare, genitore e figlio avevano tra di loro scambiato quote immobiliari di valore diverso.
La Corte d’appello, nel confermare la sentenza di primo grado, aveva riconosciuto che il divario di valore, fra i beni oggetto di permuta, era di tale entità da far presumere che il de cuius, esperto imprenditore, fosse consapevole della sproporzione, dovendosi pertanto ritenere che la volontà del genitore fosse quella di arricchire la controparte.
[2] Caio proponeva ricorso avverso la sentenza di secondo grado, fondandolo su tre motivi.
Ai fini della presente analisi occorre analizzare il primo di tali motivi.
In particolare, la sentenza era oggetto di censura nella parte in cui la Corte d’appello, in relazione alla permuta intercorsa fra padre e figlio, aveva considerato oggetto di donazione la differenza di valore fra i beni scambiati. Il ricorrente rimproverava alla corte di merito di aver giustificato tale decisione alla stregua di una valutazione squisitamente oggettiva, mentre, al fine di riconoscere l’esistenza di una liberalità, occorreva un’indagine sulla sussistenza dell’animus donandi.
Gli Ermellini hanno ritenuto infondato tale motivo di ricorso, ritenendo pacifico che “l’ipotesi della permuta nella quale uno dei contraenti ottiene, coscientemente e per spirito di liberalità, un bene di valore inferiore a quello trasferito all’altro contraente, può farsi rientrare nel negotium mixtum cum donatione. L’ipotesi di tale figura certamente più frequente è quella della vendita per un prezzo minore del valore della cosa venduta, ma essa può intervenire in qualsiasi contratto a titolo oneroso, ove la prestazione del cedente superi il valore della controprestazione, sempreché la differenza di valore sia voluta per spirito di liberalità”.[1]
I Giudici della Suprema Corte ricordano “che per la identificazione del negotium mixtum cum donatione non basta la qualifica che all’atto hanno voluto attribuire le parti, né la obiettiva sproporzione, ma occorre la volontà di compiere un atto a titolo oneroso, che presenta una causa, tipica o atipica, accompagnata dalla volontà di determinare l’arricchimento, come risultato dell’atto, e che la sproporzione sia voluta per spirito di liberalità”.[2]
L’onere della prova, sia in merito alla sussistenza di una sproporzione di significativa entità tra le prestazioni, sia in ordine alla consapevolezza di essa ed alla sua volontaria accettazione da parte dell’alienante in quanto indotto al trasferimento del bene a tali condizioni dall’animus donandi nei confronti dell’acquirente grava, ovviamente, su colui che invochi la natura liberale dell’atto.[3]
Gli Ermellini, nel caso di specie, hanno ritenuto assolto tale onere affermando che la ricostruzione operata dal giudice di merito non rivelasse errori nella identificazione dei requisiti che debbono ricorrere ai fini della sussistenza del negotium mixtum cum donatione e che il punto, contrariamente a quanto ritenuto dal ricorrente, fosse stato oggetto di specifica valutazione da parte della Corte d’appello laddove aveva posto l’accento sull’oggettivo divario dei valori e deducendo, sulla base di considerazioni attinenti alla qualità professionale del defunto e alla notevole entità della sproporzione, che il genitore permutante l’avesse consapevolmente accettata con il mero fine di arricchire il proprio figlio. Al riguardo, poi, gli Ermellini non hanno potuto che ricordare come tale valutazione si risolvesse in un apprezzamento di fatto, incensurabile in Cassazione.
[3] La sentenza in commento offre lo spunto per una breve disanima dei riflessi che il negotium mixtum cum donatione può avere nella tutela dei diritti dei legittimari.
Come anche ricordato dalla Suprema Corte, è principio pacifico che tale tipo negoziale rientri nell’ambito delle donazioni indirette, poiché attraverso un negozio mezzo tipicamente oneroso le parti raggiungono l’ulteriore scopo di arricchirne una per scopo liberale.
Ci si può e deve chiedere, a questo punto, quale sia l’oggetto della liberalità e, in ottica di tutela dei diritti dei legittimari e di collazione, quale sia il valore da tenere in considerazione all’apertura della successione.
In linea astratta, sembra riproporsi il dibattito sorto in ordine alla generale figura della donazione indiretta e, in particolare, alle ipotesi in cui un bene sia acquistato con denaro altrui (tipico è il caso in cui un bene venga acquistato dal figlio con provvista fornita dal genitore). A giudizio di alcuni, dovrebbe valutarsi, ai fini sopra richiamati, solo il denaro fornito dal genitore, senza che possa ritenersi oggetto della donazione indiretta il bene acquistato. In giurisprudenza prevale l’opposta tesi, forte di un pronunciato a Sezioni Unite del 1992 ove si è affermato che “nell’ipotesi di acquisto di un immobile con denaro proprio del disponente ed intestazione ad altro soggetto, che il disponente medesimo intenda in tal modo beneficiare, con la sua adesione, la compravendita costituisce strumento formale per il trasferimento del bene ed il corrispondente arricchimento del patrimonio del destinatario, e, quindi, integra donazione indiretta del bene stesso, non del denaro. Pertanto, in caso di collazione, secondo le previsioni dell’art. 737 cod. civ., il conferimento deve avere ad oggetto l’immobile, non il denaro impiegato per il suo acquisto”.[4]
L’orientamento della Suprema Corte viene criticato in base alla considerazione che pare una forzatura ritenere oggetto di collazione (ovvero di imputazione o riunione fittiziamente in caso di domanda di riduzione) un bene che, in realtà, mai ha fatto parte del patrimonio del de cuius: costui ha messo a disposizione esclusivamente una somma di denaro.
Se tali argomentazioni possono apparire condivisibili nell’ambito sopra delineato, esse cedono il passo in caso di negotium mixtum cum donationem. In tale ipotesi, infatti, si realizza la liberalità in ragione della sproporzione tra le prestazioni: il cedente/donante a fronte di un bene di un determinato valore ne trasferisce uno di valore sensibilmente superiore. È di tutta evidenza che, pertanto, dal patrimonio del donante esce un bene che era effettivamente nella sua disponibilità e, pertanto, appare corretto ritenere che sia il bene a dover essere oggetto di collazione/imputazione. Si tratterà, tuttalpiù, di comprendere in quale misura: non può infatti non tenersi conto della controprestazione (seppur di valore inferiore) effettuata dal beneficiato.
In relazione a tale aspetto, la Suprema Corte è orientata nel senso di ritenere oggetto della liberalità il bene in proporzione alla parte per la quale non vi è corrispondenza con la controprestazione ricevuta.[5] Di diverso avviso, parte della dottrina che afferma, anche in tal caso, doversi considerare oggetto della donazione una somma di denaro che rappresenti la differenza tra il valore reale del bene ed il valore della controprestazione al momento della sottoscrizione dell’atto.[6]
Altri, ancora, ritengono che la valutazione debba effettuarsi caso per caso, al fine di comprendere quale fosse il volere delle parti, ossia se esse mirassero a far conseguire una frazione del bene ovvero il corrispondente valore monetario.[7]
[4] Preme allo scrivente porre l’accento su un ulteriore e fondamentale aspetto della fattispecie in esame.
Come anche riconosciuto dalla Suprema Corte, per aversi negozio misto, occorre la presenza di un animus donandi del disponente. Non è sufficiente il solo divario economico tra le diverse prestazioni, poiché esso potrebbe trovare giustificazione in altre e differenti motivazioni.
E, rimanendo al caso concreto che ha dato origine al giudizio de qua, è bene sottolineare come nel contratto di permuta non sia richiesto che i beni scambiati abbiano valore identico. Eventuali differenze potranno essere colmate attraverso conguagli (ed in questo caso assumeranno, altresì, rilievo fiscale) ovvero potranno anche essere ritenute ininfluenti sulla conclusione del contratto. Le parti, infatti, possono anche valutare, per motivi di natura non liberale, di non doversi far luogo ad alcun conguaglio e, non per questo, voler donare alcunché uno all’altra. Si pensi ad una permuta di opere d’arte che, al momento dello scambio, siano valutabili (ferma restando l’aleatorietà intrinseca che caratterizza la valutazione delle opere d’arte) in un ammontare differente. Colui che cede l’opera di maggior valore può voler speculare sulla propria cessione e “puntare” su una futura curva di mercato favorevole per l’artista oggi di secondo piano (magari in vista di una importante mostra personale od altri fenomeni che possano influenzare le quotazioni delle opere di quell’artista); orbene, è di tutta evidenza come in tal caso non vi sia alcuno spirito di liberalità ed il contratto di permuta mantenga la propria causa tipica, anche in assenza di conguagli.
[1] Cass. Civ., Sez. 2 – , Sentenza n. 7681 del 19/03/2019: “Nei contratti di scambio, la donazione indiretta è configurabile solo a condizione che le parti abbiano volutamente stabilito un corrispettivo di gran lunga inferiore a quello che sarebbe dovuto, con l’intento, desumibile dalla notevole entità della sproporzione tra il valore reale del bene e la misura del corrispettivo, di arricchire la parte acquirente per la parte eccedente quanto pattuito.”
[2] Si vedano, in tal senso e tra le molte, Cass. Civ., Sez. 2, Sentenza n. 10614 del 23/05/2016 “La compravendita di un bene ad un prezzo inferiore a quello effettivo non realizza, di per sé, un “negotium mixtum cum donatione”, occorrendo non solo una sproporzione tra le prestazioni di entità significativa, ma anche la consapevolezza, da parte dell’alienante, dell’insufficienza del corrispettivo ricevuto rispetto al valore del bene ceduto, sì da porre in essere un trasferimento volutamente funzionale all’arricchimento della controparte acquirente della differenza tra il valore reale del bene e la minore entità del corrispettivo ricevuto”; Cass. Civ., Sez. 2, Sentenza n. 23297 del 03/11/2009: “Nel “negotium mixtum cum donatione”, la causa del contratto ha natura onerosa ma il negozio commutativo stipulato tra i contraenti ha lo scopo di raggiungere per via indiretta, attraverso la voluta sproporzione tra le prestazioni corrispettive, una finalità diversa e ulteriore rispetto a quella dello scambio, consistente nell’arricchimento, per puro spirito di liberalità, di quello tra i contraenti che riceve la prestazione di maggior valore realizzandosi così una donazione indiretta. Per la validità di tale “negotium” non è necessaria la forma della donazione ma quella prescritta per lo schema negoziale effettivamente adottato dalle parti, sia perché l’art. 809 cod. civ., nel sancire l’applicabilità delle norme sulle donazioni agli altri atti di liberalità realizzati con negozi diversi da quelli previsti dall’art. 769 cod. civ., non richiama l’art. 782 cod. civ., che prescrive la forma dell’atto pubblico per la donazione, sia perché, essendo la norma appena richiamata volta a tutelare il donante, essa, a differenza delle norme che tutelano i terzi, non può essere estesa a quei negozi che perseguono l’intento di liberalità con schemi negoziali previsti per il raggiungimento di finalità diverse”; Cass. Civ., Sez. 2, Sentenza n. 1955 del 30/01/2007.
[3] Così, anche Cass. Civ., Sez. 2, Sentenza n. 19601 del 29/09/2004
[4] Cass. Civ. Sez. Unite, sentenza n. 9282 del 05/08/1992
[5] Così la citata Cass. Civ., sez U., n. 9282/1992 e, da ultimo, Cass. Civ., Sez. 2, ordinanza n. 10759 del 17/04/2019
[6] Burdese, La divisione ereditaria, in Trattato di diritto civile italiano diretto da Vassalli, Torino, 1980, pag. 289
[7] In tal senso, Albanese, La collazione, in Trattato delle successioni e donazioni diretto da Bonilini, Milano, 2009, pag. 512
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