19 Novembre 2024

Pedagogia in tema di giudicato interno delle eccezioni in senso stretto e deducibilità in Cassazione del c.d. “vizio di omessa pronuncia”

di Riccardo Rossi, Avvocato Scarica in PDF

Cass., Sez. II, ord., 26 settembre 2024, n. 25710 Pres. Di Virgilio – Rel. Varrone

Vizio di omessa pronuncia – Impugnazioni – Motivi di ricorso per cassazione – Statuizione implicita – Incompatibilità – Legittimazione attiva e passiva – Eccezioni in senso ampio – Rilevabilità d’ufficio – Oneri deduttivi della parte – Preclusioni processuali – Effetto devolutivo appello – Acquiescenza – Giudicato interno (Cost. 24, 111; c.p.c. 81, 96, 102, 324, 329, 360, 380-bis, 380-bis.1)

[1] Non ricorre il vizio di omessa pronuncia ove la decisione comporti una statuizione implicita di rigetto della domanda o eccezione, da ritenersi ravvisabile quando la pretesa non espressamente esaminata risulti incompatibile con l’impostazione logico-giuridica della pronuncia, nel senso che la domanda o l’eccezione, pur non espressamente trattate, siano superate e travolte dalla soluzione di altra questione, il cui esame presuppone, come necessario antecedente logico-giuridico, la loro irrilevanza o infondatezza.

CASO

[1] I fatti di causa possono essere riassunti come segue.

La società I. S.p.A., in qualità di procuratrice della C.F. S.r.l., a sua volta creditrice nei confronti della C. S.r.l. e dei garanti di questa, A.S., F.M., G.M., conveniva i predetti dinanzi al Tribunale di Roma chiedendo dichiararsi la nullità per simulazione assoluta dei contratti di compravendita con i quali i convenuti avevano trasferito alla L.P. Limited e alla R.P s.a. la nuda proprietà dei loro beni.

I chiamati, costituendosi, contestavano la domanda avversaria e ne chiedevano il rigetto. In particolare, eccepivano la carenza di legittimazione attiva di I. S.p.A. / C.F. S.r.l. con l’argomentazione per cui fideiussioni prestate dai soci della società C. S.r.l., essendo state predisposte in conformità ai modelli ABI, avrebbero dovuto considerarsi nulle.

Il Giudice di prime cure accoglieva parzialmente la domanda, ritenendo sussistente la simulazione assoluta dei contratti stipulati dai convenuti A.S. e F.M. Mentre veniva esclusa, all’opposto, la simulazione della vendita da G.M. alla R.P s.a., sussistendo la prova dell’avvenuto pagamento del prezzo (alle condizioni di mercato) contestualmente all’atto di compravendita e giusta l’assenza di rapporti tra acquirente e i soci della C. S.r.l.

L.P. Limited, A.S. e F.M., nonché I. S.p.A. impugnavano la sentenza con distinti atti di appello, che venivano tutti rigettati, ritenendo la Corte d’Appello provata la simulazione nei limiti di quanto già disposto dal Tribunale capitolino.

Sicché L.P. Limited proponeva ricorso per cassazione sulla base di due motivi.

Il primo rubricato: art. 360, primo comma, n. 3 c.p.c. – violazione dell’art. 112 c.p.c., per avere la sentenza impugnata omesso di pronunciarsi e persino di dare atto della proposizione, da parte della Società ricorrente, dell’eccezione di carenza di legittimazione attiva della Società attrice.

Il secondo rubricato: art. 360, primo comma, n. 5 c.p.c. – omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, per avere la sentenza impugnata omesso di dare atto della proposizione dell’eccezione di carenza di legittimazione attiva sollevata dalla Società comparente fin dal giudizio di primo grado e, conseguentemente, di pronunciarsi adeguatamente sul punto in contestazione, limitandosi a respingere l’appello della Società ricorrente soltanto per motivi “di merito”, rilevandone l’infondatezza, e non pronunciandosi sulla fondatezza o meno dell’eccezione di carenza di legittimazione attiva della Società attrice, così, in definitiva, da omettere l’esame di un fatto decisivo per il giudizio.

Resistevano I. S.p.A. e A.S. con controricorso.

Il consigliere delegato formulava proposta di definizione del giudizio ex art. 380-bis c.p.c., in quanto, pur avendo la decisione di prime cure rilevato la sussistenza della legittimazione ad agire della I. S.p.A., la statuizione non era stata oggetto di devoluzione con l’atto introduttivo di impugnazione da parte della L.P. Limited – avendo, la stessa, reiterato l’eccezione solo nelle more del gravame – così attivandosi, sul punto, una preclusione processuale derivante dal giudicato interno, che imponeva alla Corte di Cassazione di dichiarare inammissibile la doglianza.

Tuttavia, parte ricorrente chiedeva la decisione del ricorso e veniva, dunque, fissata udienza in camera di consiglio ai sensi dell’art. 380-bis.1 c.p.c. In limine, L.P. Limited depositava memoria, insistendo per l’accoglimento del ricorso, argomentando che le contestazioni sulla legitimatio ad processum -attiva o passiva- come anche sulla titolarità -attiva o passiva- del rapporto controverso avrebbero natura di mere difese e sarebbero, pertanto, proponibili in ogni fase del processo, oltre che, comunque rilevabili ex officio ove risultanti dagli atti di causa.

SOLUZIONE

[1] La Sezione II della Cassazione ha giudicato il ricorso infondato.

In ispecie, ha ritenuto: i) anzitutto, di dover dare continuità al principio di diritto già indicato nella proposta ex art. 380-bis c.p.c., secondo cui la legittimazione ad agire (e a resistere) è istituto processuale riferibile al soggetto che ha il potere di esercitare l’azione in giudizio ed a quello nei cui confronti tale azione può essere esercitata, con conseguente dovere del giudice di verificarne l’esistenza in ogni stato e grado del procedimento, salvo il formarsi di un giudicato interno circa la coincidenza dell’attore o del convenuto con i soggetti destinatari della pronuncia richiesta secondo la norma che regola il rapporto dedotto in giudizio; ii) inoltre, con riferimento al denunciato vizio di omessa pronuncia (pur inammissibile per il motivo sub i)), che esso non ricorre quando la decisione adottata comporti una statuizione implicita di rigetto della domanda o eccezione formulata dalla parte, dovendo ravvisarsi una statuizione implicita di rigetto quando la pretesa avanzata col capo di domanda non espressamente esaminato risulti incompatibile con l’impostazione logico-giuridica della pronuncia, come effettivamente era avvenuto nel caso di specie.

QUESTIONI

[1] Nella pronuncia in oggetto, la Suprema Corte affronta due questioni processuali, ovvero: i) la formazione del giudicato interno relativamente alle eccezioni in senso lato (i.e. soggette al rilievo officioso del giudice), in particolare, nel caso di specie, del difetto di legittimazione -attiva o passiva-; ii) la deducibilità in sede di legittimità del c.d. vizio di omessa pronuncia.

Nella fattispecie in discorso, le due questioni risultano interconnesse, in quanto il ricorrente deduceva – con due autonomi motivi di ricorso – il vizio de quo tanto ai sensi dell’art. 360, I, n. 3), c.p.c. per avere la sentenza impugnata omesso di pronunciarsi sulla proposta eccezione di carenza di legittimazione attiva, quanto ai sensi dell’art. 360, I, n. 5), c.p.c., ritenendo che la Corte d’Appello, omettendo di dare atto della proposizione dell’eccezione di carenza di legittimazione attiva sollevata (e dunque di pronunciarsi sulla stessa), avesse omesso l’esame di un fatto decisivo per il giudizio che era stato oggetto di discussione tra le parti, respingendo l’appello unicamente per motivi di merito.

Con riguardo alla questione sub i), la Cassazione ribadiva che il rigetto dell’eccezione di mancanza di legittimazione dell’attrice I. S.p.A. a proporre l’azione di simulazione era già stato decretato espressamente dal giudice di primo grado e, dunque, doveva essere oggetto di uno specifico motivo di appello, essendone altrimenti precluso al giudice di seconde cure il rilievo di ufficio. Sul punto, infatti, vige il principio – che già la Corte aveva evidenziato nel provvedimento ex art. 380-bis c.p.c. – secondo cui: “La legitimatio ad causam, attiva e passiva (che si ricollega al principio di cui all’art. 81 cod. proc. civ., inteso a prevenire una sentenza inutiliter data), è istituto processuale riferibile al soggetto che ha il potere di esercitare l’azione in giudizio ed a quello nei cui confronti tale azione può essere esercitata, con conseguente dovere del giudice di verificarne l’esistenza in ogni stato e grado del procedimento (salvo il formarsi di un giudicato interno circa la coincidenza dell’attore o del convenuto con i soggetti destinatari della pronuncia richiesta secondo la norma che regola il rapporto dedotto in giudizio)” (Cass. civ. 18/11/2005, n. 24457); e, dunque, qualora la decisione di prime cure che abbia disatteso tale eccezione non abbia formato oggetto di specifica impugnazione, si verifica sul punto, nonostante la sollecitazione al giudice del gravame ad esercitare il proprio potere di rilevazione ex officio, una preclusione processuale derivante dal giudicato interno. In altri termini, è certamente vero che l’oggetto del giudizio d’appello è formato anche dalle questioni rilevabili officiosamente, ma esse sono liberamente rilevabili dal giudice unicamente in primo grado e non nelle istanze successive di giudizio, in quanto, in mancanza di uno specifico motivo devolutivo, sulle stesse si forma inevitabilmente il giudicato interno, anche per il principio di acquiescenza che governa il giudizio di gravame. Si assiste, in ultima analisi, a una sorta di depotenziamento del principio iura novit curia, il quale può esplicarsi solo nell’ambito di una specifica e puntuale “riapertura” della questione attraverso la volontà devolutiva della parte (sul punto, v. R. Poli, I limiti oggettivi delle impugnazioni ordinarie, Padova, 2002, 300 ss.; A. Tedoldi, L’appello civile, Torino, 2016, 156 ss.; M. Di Marzio, L’appello civile, Milano, 2018, 185 ss.).

Tale principio è granitico nella giurisprudenza di legittimità e riposa sull’argomentazione sistematica per la quale “la regola della rilevabilità d’ufficio delle questioni, in ogni stato e grado del processo, va coordinata con i principi che governano il sistema delle impugnazioni, nel senso che essa opera solo quando sulle suddette questioni non vi sia stata una statuizione anteriore, mentre, ove questa vi sia stata, i giudici delle fasi successive possono conoscere delle questioni stesse solo se e in quanto esse siano state riproposte con l’impugnazione, posto che altrimenti si forma il giudicato interno che ne preclude ogni ulteriore esame” (ex multis, Cass., civ., 22/09/2017, n. 22207; Cass, civ., 02/10/2020, n. 2144).

La Suprema Corte si sofferma poi sulla questione sub ii), anche in questo caso ribadendo i noti principi che governano la deducibilità del vizio in discorso, così rafforzando la motivazione circa l’inammissibilità del ricorso.

Infatti, anche con riferimento alla questione testé menzionata, premettendo che il vizio di omessa pronuncia dev’essere dedotto ai sensi dell’art. 360, I, n. 4), c.p.c. (attenendo alla validità della sentenza), la Corte ricorda che, sul tema, l’insegnamento di legittimità è univoco nell’escludere la sussistenza del vizio allorquando “la decisione adottata comporti una statuizione implicita di rigetto della domanda o eccezione formulata dalla parte, dovendo ravvisarsi una statuizione implicita di rigetto quando la pretesa avanzata col capo di domanda non espressamente esaminato risulti incompatibile con l’impostazione logico-giuridica della pronuncia” (Cass., civ., 06/12/2017, n. 29191; Cass., civ., 13/10/2017, n. 24155; Cass., civ., 13/08/2018, n. 20718). In sostanza, la Corte differenzia l’ipotesi dell’inesistenza della pronuncia (i.e. la reiezione) da quella dell’esistenza, pur implicita, della stessa, ricordando che solo nel primo caso può tecnicamente parlarsi di “omessa pronuncia”, dovendo, invero, laddove sussista la seconda ipotesi, censurare la decisione non pel tramite del vizio di omessa pronunzia (e, dunque, per la violazione di una norma sul procedimento), ma deducendo il vizio di violazione di legge o di difetto di motivazione, censura che, peraltro, dev’essere formulata in modo tale, da portare il controllo di legittimità sulla decisione inespressa e sulla sua decisività, risultando, altrimenti, inammissibile.

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