È nulla la delibera assembleare con cui, quantunque all’unanimità, un condomino venga escluso dal diritto di proprietà sulle parti comuni
di Saverio Luppino, Avvocato Scarica in PDFÈ nulla la delibera condominiale elusiva del divieto della rinuncia alla proprietà comune. L’art. 1118 c. 2 c.c. infatti fa assoluto divieto di rinuncia al diritto sulle parti comuni e tale assolutezza non consente di sottrarsi alla partecipazione alle spese di conservazione delle parti comuni di cui al terzo comma del citato articolo. Nel condominio, invero, non è possibile scindere la proprietà esclusiva dalla proprietà sulle parti comuni, con conseguente divieto, in capo a tutti i comunisti, di sottrarsi alla partecipazione alle spese per la conservazione del bene comune. Pertanto, secondo quanto previsto all’art. 1138, co. 4, c.c., norma di portata inderogabile, la rinuncia alla proprietà delle parti comuni è nulla.
CASO
Il condominio di via Alfa 6, agiva in giudizio contro il condomino YY, convenuto, impugnando la delibera condominiale del 09 novembre 2017 con cui era stato deciso, all’unanimità, che il condomino YY non faceva più parte del condominio Alfa. Parte attrice deduceva l’inesistenza, la nullità o annullabilità di tale delibera assembleare. Parte convenuta si costituiva e si opponeva all’accoglimento della domanda attorea, allegando che la delibera impugnata costituisse una mera pattuizione in ordine alla differente regimentazione delle spese e pertanto valida in quanto decisione unanime.
SOLUZIONE
Il Tribunale accoglieva la domanda attorea dichiarando la nullità della delibera assembleare impugnata.
QUESTIONI
La sentenza in esame pone in particolare rilievo due questioni di interesse: in primis, la distinzione tra inesistenza, nullità ed annullabilità di una delibera assembleare condominiale e, in secundis, l’eventualità in cui il condomino voglia essere escluso dalla proprietà condominiale.
In relazione alla prima questione, il Tribunale ha preliminarmente precisato che ai sensi dell’art. 1137 c.c. sono impugnabili le deliberazioni contrarie alla legge o al regolamento condominiale ed in difetto di ciò non è consentito al giudice sindacare la volontà manifestata dall’assemblea, che resta una manifestazione caratteristica dell’autonomia che l’ordinamento riconosce ai privati e come tale tutela. Facendo poi riferimento alla giurisprudenza della Corte di Cassazione, viene chiarito che «il rapporto tra nullità ed inesistenza di un atto giuridico esprime uno snodo, storicamente, tra i più problematici dell’intera teoria dell’invalidità degli atti giuridici. Tuttavia, è sufficiente evidenziare che un atto è giuridicamente inesistente se manca degli elementi “rudimentali” tale che non è possibile identificarlo o almeno identificare, strutturalmente, un atto giuridico. In tutti i casi in cui, invece, l’atto è strutturalmente identificabile, lo stesso può essere, eventualmente, nullo, cioè, tamquam non esset, improduttivo di effetti giuridici, o annullabile perché, per così dire, malformato. Solo un atto esistente può essere nullo o annullabile, come è anche vero che se un atto è nullo o annullabile vuoi significare per sé stesso che è un atto “strutturalmente” esistente»[1].
Nel caso in oggetto, il Tribunale ha ritenuto integrati gli estremi di una decisione illegittima: erronea in quanto tale, ma non inesistente. Esclusa l’inesistenza, per la delibera oggetto del giudizio si è posta l’alternativa tra nullità ovvero annullabilità. Il condominio attore con la prima ed unica doglianza censurava appunto la nullità e non l’annullabilità della delibera del Condominio del 9 novembre 2017, secondo la quale “dopo lunga discussione all’unanimità si concorda che il YY non fa più parte del condominio“. Tale censura veniva accolta dal Tribunale, in quanto la delibera assembleare impugnata era manifestamente elusiva del divieto, in materia condominiale, della rinuncia alla proprietà comune. Ai sensi dell’art. 1118, co. 2, c.c. infatti “il condomino non può rinunziare al suo diritto sulle parti comuni”. Tale previsione introduce un divieto assoluto di rinuncia al diritto sulle parti comuni e tale assolutezza non consente di sottrarsi alla partecipazione alle spese di conservazione delle parti comuni di cui al terzo comma del citato articolo. Nel condominio, invero, non è possibile scindere la proprietà esclusiva dalla proprietà sulle parti comuni, con conseguente divieto, in capo a tutti i comunisti, di sottrarsi alla partecipazione alle spese per la conservazione del bene comune. In tal senso, la giurisprudenza di legittimità stabilisce che «il secondo comma dell’art. 1118 c.c., a norma del quale il condomino non può, rinunciando al diritto sulle parti comuni, sottrarsi al contributo sulle spese per la loro conservazione, non si limita a regolare la partecipazione dei condomini alle spese delle parti comuni nonostante la rinuncia del relativo diritto da parte del singolo condomino ma, indirettamente, esclude la validità della predetta rinuncia dato che le parti comuni necessarie per l’esistenza e l’uso dei piani o delle porzioni di piano ovvero destinate al loro uso o servizio continuerebbero a servire il condomino anche dopo, e nonostante, la rinuncia. E’ pertanto nulla la clausola contenuta nel contratto di compravendita di un appartamento sorto in un edificio in condominio con cui viene esclusa dal trasferimento la proprietà di alcune parti dell’edificio comuni per legge o per volontà delle parti avendo una siffatta clausola il contenuto e gli effetti di una rinuncia del condomino (acquirente) alla predette parti (nella specie, si trattava di un’area comune destinata, per convenzione, al parcheggio delle macchine dei condomini )»[2]
Pertanto, secondo quanto previsto all’art. 1138, co. 4, c.c., norma di portata inderogabile, la rinuncia alla proprietà delle parti comuni è nulla.
Il Tribunale non ha ritenuto condivisibile la tesi del condomino convenuto secondo cui con la delibera impugnata si addiveniva ad una mera pattuizione in ordine alla differente regimentazione delle spese, in quanto per una differente ripartizione delle spese sono necessarie le indicazioni della loro natura e del diverso parametro della loro imputabilità. Secondo il giudice monocratico, tali aspetti erano nel concreto non solo inesistenti, ma “apparentemente rimessi, secondo il convenuto medesimo, al suo insindacabile arbitrio: ciò contrasta con i principi basilari della proprietà comune e con il dovere di contribuzione proporzionale alla gestione alla res communis omnium.”
Il Giudice ha ritenuto illegittima la pretesa avanzata dal condomino convenuto, considerato che in materia condominiale la qualità di debitore dipende dalla titolarità del diritto di proprietà o di altro diritto reale sulla cosa[3] e che l’obbligo di pagamento degli oneri condominiali relativi ai beni comuni sorge per effetto della delibera di approvazione delle stesse spese.
Il Tribunale ha concluso che, in caso di future doglianze su delibere per somme non dovute, in quanto non documentate o per altre ragioni, ben possa il condomino ricorrere alla apposita tutela giudiziaria prevista nel codice civile all’art. 1137 c.c.
Infine, presenta altresì profili di interesse la valutazione del tribunale in ordine alla compensazione delle spese del giudizio e della precedente mediazione, in ragione dell’esito del giudizio, causato dall’equivoco ingenerato da una delibera – che per quanto nulla – è stata assunta all’unanimità dei condomini.
[1] Cfr. la parte motiva della sentenza della Cassazione Civile n. 10586 del 16.04.2019, relativa ad una fattispecie per cui la Suprema Corte aveva dichiarato la nullità (e non l’annullabilità) di una delibera assembleare che aveva modificato il criterio legale di ripartizione delle spese stabilito dall’art. 1126 c.c., per quanto assunta all’unanimità. Nel caso di specie veniva peraltro stabilito che la nullità poteva essere fatta valere anche dal condomino che aveva partecipato all’assemblea esprimendo voto conforme alla deliberazione stessa.
In tempi ancora più recenti la Corte Regolatrice si è espressa nuovamente sulla materia statuendo che “in tema di condominio degli edifici, l’azione di annullamento delle delibere assembleari costituisce la regola generale, ai sensi dell’art. 1137 c.c., come modificato dall’art. 15 della l. n. 220 del 2012, mentre la categoria della nullità ha un’estensione residuale ed è rinvenibile nelle seguenti ipotesi: mancanza originaria degli elementi costitutivi essenziali, impossibilità dell’oggetto in senso materiale o giuridico – quest’ultima da valutarsi in relazione al “difetto assoluto di attribuzioni” -, contenuto illecito, ossia contrario a “norme imperative” o all'”ordine pubblico” o al “buon costume”. Pertanto, sono nulle le deliberazioni con le quali, a maggioranza, siano stabiliti o modificati i generali criteri di ripartizione delle spese previsti dalla legge o dalla convenzione, da valere per il futuro, trattandosi di materia che esula dalle attribuzioni dell’assemblea previste dall’art. 1135, nn. 2) e 3), c.c., mentre sono meramente annullabili le deliberazioni aventi ad oggetto la ripartizione in concreto tra i condomini delle spese relative alla gestione delle parti e dei servizi comuni adottate in violazione dei criteri generali previsti dalla legge o dalla convenzione stessi, trattandosi di deliberazioni assunte nell’esercizio di dette attribuzioni assembleari, cosicché la relativa impugnazione va proposta nel termine di decadenza previsto dall’art. 1137, comma 2, c.c.”
(cfr. Corte di Cassazione, Sezioni Unite, Sentenza n. 9839 del 14 aprile 2021).
[2] Cfr. Cass., Sez. 2, Sentenza n. 6036 del 29/05/1995; in senso conforme, Cass., Sez. 2, Sentenza n. 3309 del 25/07/1977; successivamente, tra le più recenti, Cass., Sez. 2, Sentenza n. 1680 del 29/01/2015, Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 20216 del 21/08/2017.
[3] Cfr. Cass. Civ. Sez. II, sentenza n. 23291del 27 ottobre 2006, secondo la quale peraltro “non è consentito all’assemblea interferire sulla imputazione e sulla ripartizione dei contributi stabiliti dalla legge in ragione della loro natura, non rientrando nei suoi poteri introdurre deroghe che verrebbero a incidere su diritti individuali.”
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