Norme date dal testatore per la divisione e diritto dei coeredi a percepire beni di valore corrispondente alla quota
di Matteo Ramponi, Avvocato Scarica in PDFCassazione Civile, Sezione II, ordinanza n. 3675 del 12 febbraio 2021
DIVISIONE EREDITARIA – FATTA DEL TESTATORE – NORME PER LA FORMAZIONE DELLE PORZIONI – Divisione “regolata” dei beni caduti in successione, ex art. 733 c.c. – Diritti degli eredi
Qualora il testatore, ai sensi dell’art. 733 c.c., fissi regole per la formazione delle porzioni dei coeredi (ovvero legittimamente attribuisca tale facoltà ad un erede), benché venga meno il diritto di costoro di conseguire, per quanto possibile, una parte dei vari beni relitti dal “de cuius”, secondo quanto previsto dall’art. 727 c.c., permane in ogni caso il diritto degli stessi di ottenere beni di valore corrispondente a quello della quota che ad essi compete.
Disposizioni applicate
Articoli 727 e 733 cod. civ
[1] Alla morte di Tizio, la successione era regolata da testamento pubblico, nel quale venivano nominati eredi la moglie (Caia) ed i due figli (Mevia e Sempronio).
La scheda testamentaria, in particolare, prevedeva la devoluzione alla moglie per la quota di 1/2 ed ai figli per la quota di 1/4 ciascuno e che l’azienda riferibile al defunto spettasse a Sempronio nella misura del 65% e a Mevia per il restante 35%.
Mevia citava innanzi al Tribunale la madre ed il fratello ritenendo che l’attribuzione dell’azienda dovesse in ogni caso considerarsi effettuata nel limiti delle quote ereditarie stabilite nel testamento ed esponeva, altresì, che il fratello era stato in vario modo beneficiato in vita dal de cuius e si era appropriato dell’avviamento della azienda stessa.
Domandava, pertanto, di condannare il fratello – tra l’altro – a conferire alla massa ereditaria quanto a lui pervenuto a titolo di liberalità nonché’ a reintegrare la massa ereditaria – tra l’altro – del valore dell’avviamento, indi far luogo alla divisione dell’eredità paterna.
Espletata c.t.u., il Giudice di primo grado – tra l’altro – dichiarava aperta la successione di Tizio, faceva luogo all’accertamento delle cessioni di quote costituenti negotia mixta cum donatione da conferire in collazione, all’accertamento delle donazioni eseguite in vita dal de cuius da conferire parimenti in collazione, all’accertamento dell’avvenuta sottrazione dalla massa ereditaria da parte di Sempronio di beni immateriali del valore di Euro 1.300.000,00, alla formazione delle porzioni spettanti ai coeredi ed alla quantificazione dei conguagli, e dichiarava che, all’esito della resa di conti, Sempronio era debitore della massa per la somma di Euro 35.732,87, da attribuirsi – scomputata la quota inerente alla sua porzione di eredità – per Euro 17.866,43 alla madre e per Euro 8.933,21 alla sorella.
Caia e Sempronio proponevano appello, ma la Corte d’Appello rigettava il gravame.
Avverso tale sentenza, Sempronio ha proposto ricorso in Cassazione.
[2] Per i profili qui di interesse, basti riferirsi di come il ricorrente abbia impugnato la sentenza di secondo grado deducendo che la corte distrettuale e prima ancora il tribunale abbiano errato a reputar non vincolanti le disposizioni impartite dal testatore ai fini della formazione delle porzioni, tanto più che la propria madre, unica coerede destinata eventualmente ad esser danneggiata, nulla aveva prospettato al riguardo.
In ordine a tale aspetto gli Ermellini osservano che la corte di merito ha avallato la valutazione del tribunale circa l’inapplicabilità delle disposizioni dettate ai sensi dell’articolo 733 c.c. dal testatore ai fini della formazione delle porzioni.
Più esattamente i giudici di merito hanno puntualizzato che l’azienda costituiva il cespite di maggior valore, cosicché’ il valore delle relative quote del 65% e del 35%, da assegnare rispettivamente a Sempronio e Mevia, superava di gran lunga quello della quota di 1/4 dell’asse attribuita a ciascuno dei medesimi coeredi; che di conseguenza le disposizioni impartite dal testatore ai fini della formazione delle porzioni non potevano ricever seguito, siccome, altrimenti, la loro applicazione avrebbe abbattuto il valore della quota di 1/2 dell’asse devoluta al coniuge superstite e corrispondentemente accresciuto in modo abnorme il valore delle quote spettanti ai figli.
E tali valutazioni vengono sposate e confermate dalla Suprema Corte che richiama l’orientamento di legittimità “a tenor del quale, qualora il testatore ai sensi dell’articolo 733 c.c. fissi regole per la formazione delle porzioni dei coeredi (ovvero legittimamente attribuisca tale facoltà ad un erede), benché’ venga meno il diritto degli eredi, nel soddisfacimento delle loro spettanze ereditarie sancito dall’articolo 727 c.c., di conseguire, per quanto possibile, una parte dei vari beni relitti dal de cuius, permane in ogni caso il diritto degli eredi di ottenere beni di valore corrispondente a quello della quota che ad essi compete”.[1]
E tale “modalità operativa delle disposizioni impartite dal testatore ed il connesso limite del necessario rispetto della quota spettante a ciascun coerede sono naturaliter involte dalla domanda di divisione ereditaria”; non rileva, pertanto, che Caia non abbia, con specifica domanda, invocato nella fattispecie l’operatività del limite anzidetto.
[3] La sentenza epigrafata fornisce spunto per riprendere e schematicamente riassumere l’intervento del testatore nel processo di divisione ereditaria.
In linea generale, deve evidenziarsi come il codice civile riconosca ampie facoltà al testatore in ordine alla divisione dei propri beni.
Potrà, così, procedervi direttamente; ovvero prevedere norme vincolanti per gli eredi per la futura divisione; o, ancora e infine, incaricare un terzo di redigere una stima in forza della quale dovrà poi procedersi alla effettiva divisione del patrimonio tra i suoi eredi.
La prima opzione viene disciplinata dall’articolo 734 cod. civ., il quale prevede il c.d. assegno divisionale qualificato, che ricorre “ove il testatore intenda effettuare direttamente la divisione, totale o parziale, del suo patrimonio tra gli eredi attraverso la formazione delle quote e l’individuazione dei beni destinati a far parte di ciascuna di esse, impedendo così il sorgere della comunione ereditaria, con la conseguenza che la decisione del giudice ha carattere meramente dichiarativo, dovendosi prendere atto di un effetto ricollegato alla volontà del “de cuius” che si produce automaticamente al momento dell’apertura della successione”.[2]
Peculiarità di tale istituto è data dal fatto che, pur parlandosi di divisione, in realtà sembra mancare l’instaurarsi di alcuna comunione: in forza dell’effetto reale immediato della disposizione testamentaria (oggi pacificamente riconosciuto), infatti, i coeredi non si troveranno mai in uno stato di comunione. La dottrina tradizionale[3], per superare tale apparente contraddizione, ricorreva ad una fictio, affermando che la massa ereditaria si sarebbe trovata, per un istante ideale, in comunione tra gli eredi; in tal modo si configurava un doppio passaggio: dal de cuius agli eredi e, poi, da questi ultimi ai singoli beneficiati.
Superata questa impostazione, si ritiene oggi che, al fine di aversi divisione, non sia elemento imprescindibile la preesistenza materiale di uno stato di comunione: ciò che rileva è il rinvenimento di una funzione distributivo-attributiva. La divisione del testatore è diretta non a sciogliere una comunione, bensì a realizzare la distribuzione, a più soggetti, di determinati beni, facenti parte di un unico patrimonio.[4]
Pertanto, nonostante il dato letterale, non si tratta di divisione in senso tecnico, posto che al momento della apertura della successione i beni sono stati già direttamente attribuiti in proprietà esclusiva ai singoli eredi.
Se l’ampia autonomia concessa al testatore gli permette di distaccarsi dai principi generali in tema di divisione ordinaria – e, in particolare, da quello di omogeneità dei beni -, il legislatore impone comunque dei limiti, inerenti alla necessità di rispettare i diritti riconosciuti ai legittimari, nonché la proporzionalità tra quota astratta di eredità e valore effettivo dei beni assegnati.
Mentre, come visto, all’assegno divisionale qualificato è riconosciuta efficacia reale, natura obbligatoria deve attribuirsi al c.d. assegno divisionale semplice, disciplinato dall’articolo 733 cod. civ.. Tale fattispecie ricorre quando il de cuius si limita a dettare norme per la formazione delle porzioni nello scioglimento della comunione ereditaria, in previsione del sorgere di tale status per effetto dell’apertura della successione.[5]
In detta ipotesi, pertanto e a differenza della fattispecie disciplinata dall’art. 734, all’apertura della successione gli eredi si trovano effettivamente in una situazione di comunione ereditaria e dovranno solo rispettare le regole contenute nel testamento, per loro vincolanti.[6] Opportuno precisare che una divisione difforme da quanto disposto dal de cuius sarà comunque valida, salvo l’eventuale risarcimento del danno che potrà essere chiesto dall’erede leso.
Anche con riferimento alla fattispecie in esame, il legislatore stabilisce che il testatore debba rispettare la proporzione fra il valore dei beni (riferito al momento della divisione) e le quote astratte stabilite dal testatore stesso.
Ma cosa accade qualora tale proporzione non sia (come nel caso della sentenza in commento) rispettata? Il tenore letterale della norma sembra indirizzare verso una irrilevanza delle norme date dal testatore per il caso di non corrispondenza tra assegnazione e valore astratto.
Più articolate, tuttavia, appaiono le posizioni assunte da dottrina e giurisprudenza.
Al riguardo, la Suprema Corte ha avuto modo di affermare che “l’art. 733 cod. civ. – il quale stabilisce che le particolari norme poste dal testatore per la formazione delle porzioni sono vincolanti per gli eredi, salvo che l’effettivo valore dei beni non corrisponda alle quote stabilite dal testatore – va interpretato alla luce del “favor testamenti”, e cioè nel senso che la volontà del testatore rimanga vincolante ove sia compatibile con il valore delle quote, compatibilità riscontrabile tutte le volte che il perfetto equilibrio possa raggiungersi con l’imposizione di un conguaglio”.[7]
In dottrina, vi è chi ritiene che qualunque divario tra valore della porzione determinata sulla base delle disposizioni testamentarie e valore astratto della quota, comporterebbe il venir meno della vincolatività di cui all’art. 733 cod. civ..[8]
Altri assumono, e la tesi sembra prevalere, che non ogni divario rileverebbe, dovendo trovare applicazione, anche in tale ipotesi, la disciplina dell’art. 763 cod. civ.: solo una lesione superiore al quarto sarebbe rilevante ai fini della non vincolatività per gli eredi.[9]
Venendo all’ultima delle facoltà concesse al testatore, il secondo comma dell’articolo 733 cod. civ. prevede la possibilità che la divisione si effettui secondo la stima di persona da lui designata, purché non sia erede o legatario. La divisione proposta da questa persona non vincola gli eredi, se l’autorità giudiziaria, su istanza di taluno di essi, la riconosce contraria alla volontà del testatore o manifestamente iniqua.
Si tratta di un’eccezione al principio di personalità del testamento poiché è concesso che le quote degli eredi siano formate da un terzo estraneo.
Si discute, in dottrina, su quale sia la portata di tale norma e, in particolare, su quale sia il valore della “stima” del terzo.
Autorevole dottrina[10] ritiene che quest’ultimo possa effettuare direttamente la divisione, che produrrà effetti reali tra le parti.
Prevale, tuttavia, la tesi che configura la stima solo quale preparazione di un progetto di divisione, al quale gli eredi dovranno attenersi. Saranno gli eredi, sulla base di tale progetto, a porre in essere l’effettivo negozio divisorio. [11]
[1] In tal senso si vedano: Cass. Civ., Sez. 2, Sentenza n. 10797 del 11/05/2009; Cass. Civ. Sez. 2, Sentenza n. 8049 del 08/08/1990: “Qualora il testatore ai sensi dell’art. 733 cod. civ. fissi regole per la formazione delle porzioni dei coeredi, ovvero legittimamente attribuisca tale facoltà ad un erede, viene meno il diritto degli altri eredi, nel soddisfacimento delle loro spettanze ereditarie sancito dall’art. 727 cod. civ., di conseguire, per quanto possibile, una parte dei vari beni relitti dal de cuius, rimanendo ad essi soltanto il diritto di ottenere beni di valore corrispondente a quello della quota che ad essi compete”.
[2] Così Cass. Civ., Sez. 2, Ordinanza n. 10761 del 17/04/2019. Si vedano, altresì, Cass. Civ., Sez. 2, Sentenza n. 15501 del 14/07/2011: “Quando il testatore provvede alla ripartizione in quote tra gli eredi del suo patrimonio immobiliare, individuando i beni destinati a far parte di ciascuna di esse, non si configura l’ipotesi della cosiddetta divisione regolata (art. 733 cod. civ.), che ricorre se il “de cuius” si limita a dettare norme per la formazione delle porzioni nello scioglimento della comunione ereditaria, in previsione del sorgere di tale status per effetto dell’apertura della successione, bensì si verte in tema di cosiddetta “divisio inter liberos” (art. 734 cod. civ.), ossia di divisione fatta dal testatore attraverso la specificazione dei beni destinati a far parte di ciascuna quota, che, avendo effetto attributivo diretto dei beni al momento dell’apertura della successione, impedisce il sorgere della comunione ereditaria ed il conseguente compimento di operazioni divisionali”; Cass. Civ., Sez. 2, Sentenza n. 18561 del 20/08/2009.
[3] COVIELLO N., Delle Successioni, Parte Generale, Napoli, 1935, pag. 581; AZZARITI, Le successioni e le donazioni, Napoli, 1990, pag. 714.
[4] CAPOZZI, Successioni e donazioni, Milano, 2009, pag. 1430; FORCHIELLI e ANGELONI, Della divisione, Artt. 713-768, in Commentario al Codice Civile Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 2000, pag. 37; MENGONI, La divisione testamentaria, Milano, 1950, pag.78. Per CAPOZZI, Successioni e donazioni, op. cit., pag. 1431, sebbene non sia necessario ricorrere ad una finzione, deve evidenziarsi come sia pur sempre individuabile un momento logico di comunione ereditaria: la fattispecie di cui all’articolo 734 cod. civ., quindi, si compone di due negozi autonomi e collegati, l’istituzione e la divisione.
[5] Così Cass. Civ. n. 15501/2011 cit.
[6] La norma citata prevede, testualmente, il solo caso in cui il testatore abbia preventivamente fissato le quote di spettanza di ciascun erede, ma la dottrina ammette che possa utilizzarsi tale strumento anche in caso di successione legittima e, in particolare, qualora il testatore voglia escludere che un determinato bene vada a comporre la quota di uno degli eredi.
[7] Così Cass. Civ. n. 10797/2009 cit.; conforme Cass. Civ., Sez. 2, Sentenza n. 9905 del 24/05/2004
[8] In tal senso, MENGONI, La divisione testamentaria, op. cit., pag. 167.
[9] BUSANI, La successione mortis causa, Milano, 2020, pag. 1516; FORCHIELLI e ANGELONI, Della divisione, op. cit., pag. 291; MORELLI, La comunione e la divisione ereditaria, in Giur. sist. civ. e comm., fondata da Bigiavi, Torino, 1988, pag. 298.
[10] MENGONI, La divisione testamentaria, op. cit., pag. 162.
[11] MESSINEO, Manuale di diritto civile e commerciale, vol. 3, 2, Milano, 1952, pag. 401; MARINARO e IACOVELLI, in Codice civile annotato con la dottrina e giurisprudenza, a cura di Perlingeri, Artt. 713-736, sub. art. 733, Torino, 1984, pag. 599; in giurisprudenza si veda Cass. Civ. Sez. 2, Sentenza n. 4826 del 14/07/1983.
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