Nessuna liberalità se la partecipazione nella società in accomandita semplice di famiglia ceduta al figlio ha lo stesso valore dell’incremento dell’azienda derivante dal suo apporto
di Virginie Lopes, Avvocato Scarica in PDFCassazione civile, Sez. VI-2, ordinanza 29 settembre 2021, n. 26229
Parole chiave: Società – Società in accomandita semplice – Partecipazione sociale – Donazione – Liberalità – Apporto
Massima: È escluso che, in concomitanza della costituzione di una società in accomandita semplice, sia stata realizzata dal de cuius una liberalità in favore del figlio, se il valore della partecipazione sociale di quest’ultimo corrispondeva all’incremento di valore dell’azienda derivante dal suo apporto nell’impresa familiare.
Disposizioni applicate: art. 769 c.c.
Nel caso di specie in esame, uno dei figli (e erede) di una defunta ha chiamato in giudizio gli altri eredi nonché la società in accomandita semplice di famiglia in relazione alla successione della madre, lamentando che, al momento della costituzione della suddetta società, era stata realizzata dalla de cuius una liberalità in favore di uno dei figli, ledendo i propri diritti di legittimario.
In particolare, l’attore asseriva che, all’atto della costituzione della società in accomandita semplice mediante conferimento della farmacia di proprietà della de cuius, il figlio in favore del quale sarebbe stata posta in essere una liberalità, sarebbe diventato compartecipe della società in misura del 49%, allorquando la madre – nonostante il conferimento dell’intera azienda – avrebbe acquistato soltanto la partecipazione del 51%.
Sia il Tribunale di prime cure, che la Corte d’Appello respingevano tuttavia le pretese attoree, escludendo che fosse stata realizzata dalla de cuius una liberalità in favore del figlio (convenuto in giudizio) all’atto della costituzione della società, giacché la partecipazione sociale corrispondeva all’incremento di valore dell’azienda conseguente all’apporto di tale figlio nell’impresa familiare, circostanza peraltro oggetto di valutazione da parte del consulente tecnico d’ufficio.
L’erede soccombente in primo grado e in appello proponeva pertanto ricorso in Cassazione, ribadendo che l’impresa familiare era di proprietà esclusiva della madre, che il figlio che aveva partecipato insieme alla madre alla gestione dell’impresa vantava tutt’al più un diritto di credito nei confronti della titolare e che la Corte d’appello aveva usato un criterio di calcolo errato che aveva portato alla duplicazione di tale credito, in quanto usato sia in sede di determinazione del valore dell’azienda conferita nella società di nuova costituzione, sia quando il conferimento del figlio è stato ritenuto pressoché paritario con quello rettificato della madre.
La Corte di Cassazione ha tuttavia rammentato qual era stato il ragionamento logico della Corte d’Appello, sottolineando che il ricorrente non lo avesse preso in considerazione. Pare infatti che l’atto costitutivo della società in accomandita semplice prevedesse specificamente che la de cuius avesse conferito nella società l’azienda commerciale, nonché ogni credito e debito derivante dalla gestione della stessa fino a tale data. In questa logica, la quota di incremento di valore dell’azienda riferita alla attività di gestione dell’impresa del figlio rappresentava un credito vantato da quest’ultimo nei confronti della titolare dell’impresa e al tempo stesso un debito di quest’ultima nei confronti del figlio.
Ciò premesso, la partita attiva del figlio, creditore della madre, e quella passiva della madre debitrice del figlio si sono neutralizzate quando la madre, invece di pagare in denaro il proprio debito, lo ha estinto rendendo il figlio creditore compartecipe dell’azienda per un importo corrispondente al suo credito.
Orbene, a norma dell’art. 769 c.c., la donazione è “il contratto col quale, per spirito di liberalità, una parte arricchisce l’altra, disponendo a favore di questa di un suo diritto o assumendo verso la stessa un’obbligazione”, circostanza che non si è verificata nel caso di specie, in quanto né la madre ha subito un impoverimento, né il figlio ha beneficiato di alcun arricchimento, non sussistendo pertanto i requisiti oggettivi della donazione.
Alla luce di quanto precede, la Corte di Cassazione, rifacendosi al ragionamento della Corte d’Appello e ai precedenti giurisprudenziali costanti sul punto, ha respinto il ricorso.