Il nesso di causalità nella responsabilità sanitaria
di Daniele Calcaterra, Avvocato Scarica in PDFTrib. Catanzaro, 26.04.2023, sent. n. 663, Dott.ssa C. Ranieli
Responsabilità della struttura sanitaria – Nesso di causalità – onere della prova (art. 2697 c.c.)
Massima: “Nei giudizi di risarcimento del danno da responsabilità medica, è onere dell’attore, paziente danneggiato, dimostrare l’esistenza del nesso causale tra la condotta del medico e il danno di cui chiede il risarcimento (onere che va assolto dimostrando, con qualsiasi mezzo di prova, che la condotta del sanitario è stata, secondo il criterio del più probabile che non, la causa del danno), con la conseguenza che, se non risulti provato il nesso tra condotta ed evento la domanda va rigettata”.
CASO
Tizio cita in giudizio l’Azienda Ospedaliera Alfa e il dott. Caio, per chiederne la loro condanna solidale al risarcimento dei danni subiti a causa della condotta imperita e negligente del predetto medico, che l’ebbe in cura nel corso dei numerosi ricoveri. In particolare, deduce che l’errore medico commesso sarebbe consistito nel ritardo con cui era stato eseguito l’intervento chirurgico, nonostante la diagnosi che palesava la sua necessità risalisse nel tempo alla data della prima visita medica. Tizio sostiene, dunque, che il sanitario che l’ebbe in cura aveva sottovalutato l’evoluzione del problema che, a causa del ritardo terapeutico, si era poi trasformato in una neoplasia maligna, laddove invece l’affezione avrebbe dovuto essere trattata sin dall’inizio con un tempestivo intervento chirurgico, che avrebbe senz’altro evitato l’insorgere della neoplasia e tutto ciò che ne è seguito. Costituendosi in giudizio, i convenuti hanno contestato la domanda dell’attore, sottolineando la correttezza dell’operato del sanitario secondo le linee guida operanti nel caso di specie e comunque la mancanza di prova in ordine al nesso causale tra condotta omissiva e danno.
SOLUZIONE
Il Tribunale accoglie la domanda esprimendo il principio di diritto di cui alla massima (non ufficiale).
QUESTIONI
La vicenda in commento ruota attorno alla prova che il paziente-danneggiato deve fornire per vedere accolta la sua domanda risarcitoria; tema che non può non prendere le mosse dal primo comma dell’art. 2697 c.c., secondo cui “chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento”. Chi lamenta il danno deve dunque provare il fatto lamentato, le conseguenze che ne sono derivate e anche (per quello che qui ci interessa) il nesso causale tra fatto e pregiudizio.
Non solo quindi il danno, ma anche la sua eziologia è parte del fatto costitutivo che incombe all’attore provare; quand’anche si discuta di responsabilità contrattuale, la previsione dell’art. 1218 c.c. solleva infatti il creditore dell’obbligazione che si afferma non adempiuta (o non esattamente adempiuta) dall’onere di provare la colpa del debitore, ma non dall’onere di provare il nesso di causa tra la condotta del debitore e il danno di cui domanda il risarcimento. La previsione dell’art. 1218 c.c. trova giustificazione nella opportunità di far gravare sulla parte che si assume inadempiente o non esattamente adempiente l’onere di fornire la prova positiva dell’avvenuto adempimento o dell’esattezza dell’adempimento, sulla base del criterio della maggiore vicinanza della prova, secondo cui essa va posta a carico della parte che più agevolmente può fornirla (cfr. Cass. S.U. n. 13533/2001), ma tale maggiore vicinanza del debitore non sussiste in relazione al nesso causale fra la condotta dell’obbligato e il danno lamentato dal creditore, rispetto al quale non ha dunque ragion d’essere l’inversione dell’onere prevista dall’art. 1218 c.c. e non può che valere il già richiamato principio generale sancito dall’art. 2697 c.c. Anche nei giudizi di risarcimento del danno da responsabilità medica, pertanto, è onere del paziente danneggiato dimostrare l’esistenza del nesso causale tra la condotta del medico e il danno di cui chiede il risarcimento.
Soffermiamoci ancora su questo aspetto e svolgiamo alcune considerazioni generali. Volendo sintetizzare, è noto che una delle teorie del nesso causale che si riscontra nell’ordinamento giuridico è quella della “regolarità causale”, per la quale un danno è conseguenza di un fatto qualora ne costituisca un effetto normale. Va però anche ricordato che, almeno a partire dal 2008, è stata accolta con favore la teoria della “preponderanza dell’evidenza”, altrimenti detta del “è più probabile che non”. La Cassazione a Sezioni Unite, infatti, ha affermato che in assenza di norme civili che specificamente regolino il rapporto causale, occorre fare riferimento ai principi generali di cui agli artt. 40 e 41 c.p.: un evento, quindi, è da considerare causato da un altro se, ferme restando le altre condizioni, il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo (cosiddetta teoria della condicio sine qua non) (Cass. Sez. Un. 11.01.2008, n. 581).
Deve essere però chiaro che l’analisi sul nesso causale non va svolta in termini di certezza assoluta («oltre ogni ragionevole dubbio», come in sede penale) né di mera possibilità, quanto piuttosto in termini di rilevante probabilità, nel senso cioè che l’azione o l’omissione del medico deve avere causato il danno lamentato dal paziente con un grado di efficienza causale così alto da rendere più che plausibile l’esclusione di fattori concomitanti o addirittura assorbenti. Il concetto di “rilevante probabilità” rifugge poi da valutazioni aprioristiche e non può essere ancorato esclusivamente alla determinazione quantitativa/statistica delle frequenze di classi di eventi (cosiddetta probabilità quantitativa o pascaliana, secondo cui il nesso causale sussiste solo quando una certa causa ha una probabilità maggiore del 50% di determinare l’evento), ma richiede una valutazione caso per caso, all’esito della quale potrà affermarsi che il nesso causale sussiste ogni qualvolta una certa causa ha una probabilità più alta rispetto ad altre cause aventi una probabilità inferiore (cosiddetta probabilità logica o baconiana); anche il 20% di probabilità può condurre pertanto a ritenere esistente il nesso causale se le altre possibili cause concorrenti hanno una probabilità inferiore.
Infine, occorre ricordare che il nesso causale è escluso quando interviene una causa autonoma e successiva che si inserisce nel processo causale in maniera eccezionale ed imprevedibile interrompendolo e non quando si verifica una causa successiva, che abbia soltanto accelerato un evento che si sarebbe comunque verificato, secondo una valutazione caratterizzata da un elevato grado di probabilità logica. Per tale motivo, si ritiene che il nesso di causalità sussista nel caso di ritardata diagnosi di tumore anche quando la morte del paziente fosse certa: perché non va considerata soltanto la morte del paziente ma anche il suo diritto di sopravvivenza per un tempo significativo dopo la morte e va considerata anche la perdita di chance terapeutiche dovute alla ritardata diagnosi (Cass. 50975/2017). Ed è per questo che la malattia incurabile non scrimina la condotta del medico che per mesi abbia ritardato la corretta diagnosi perché il prolungamento della vita del paziente, anche solo di alcune settimane se non addirittura per anni, è un elemento che va considerato nella valutazione della responsabilità del medico sia in campo penale sia in campo civile (Cass. 50975/2017).
Ciò posto, venendo al caso di specie, il tribunale ha ritenuto che Tizio avesse dimostrato il fatto costitutivo del proprio diritto, ossia il nesso di causalità tra il danno patito e il ritardo nella diagnosi della neoplasia da parte del medico che l’ebbe in cura, motivo per cui ha accolto la domanda risarcitoria formulata dall’attore.
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