Motivazione ad abundantiam sul merito e interesse ad impugnare
di Marco Russo, Avvocato Scarica in PDFI. La nozione di motivazione sovrabbondante
Si intende per motivazione ad abundantiam quella con cui il giudice – ad esempio, a sostegno dell’infondatezza della domanda della quale abbia già ravvisato l’inidoneità, per ragioni processuali, ad essere esaminata nel merito – illustri un ipotetico percorso logico-giuridico alternativo a quello trasfuso in sentenza, vòlto forse a convincere il soccombente in ordine all’inattendibilità astratta delle sue tesi anche laddove egli (o il giudice dell’impugnazione) dissenta dalla ratio decidendi in concreto posta a base della pronuncia.
A tal proposito è consolidato in giurisprudenza – a partire da Cass., sez. un., 14 marzo 1990, n. 2078, e confermato da Cass., sez. un., 20 febbraio 2007, n. 3840 e, tra le sezioni semplici, ribadito più recentemente da Cass., 9 maggio 2016, n. 9319, Cass., 20 agosto 2015, n. 17004, Cass., 19 dicembre 2014, n. 27049 – l’orientamento per cui la statuizione sull’inammissibilità dell’impugnazione esaurisce il potere decisionale del giudice di secondo grado e, precludendo l’esame delle ulteriori censure fondate sul merito, rende inidoneo al giudicato ogni statuizione svolta ad abundantiam a sostegno della correttezza della decisione assunta dal primo giudice.
Da tale orientamento la Cassazione risulta essersi discostata in due sole decisioni (Cass., 26 maggio 2004, n. 10134; Cass., 25 ottobre 1988, n. 5778).
Nella più recente delle due occasioni, la Corte ha soffermato la propria attenzione su un’ipotesi in cui il giudice del merito aveva espressamente subordinato l’efficacia delle considerazioni svolte in motivazione sul merito della causa (nella fattispecie, in tema di prescrizione dell’azione) all’eventualità che il giudice superiore avesse a riformare la decisione di primo grado quanto al rilievo dell’inammissibilità dell’azione per difetto di legittimazione processuale in capo all’attore.
In quell’occasione, la Cassazione aveva argomentato il dissenso dalla tesi prevalente – e dunque aveva motivato l’affermazione dell’interesse, e del conseguente onere, ad impugnare anche la motivazione ad abundantiam – osservando che la portata precettiva di una pronuncia giurisdizionale deve essere individuata tenendo conto «non soltanto delle statuizioni formalmente contenute nel dispositivo», ma anche delle «enunciazioni contenute nella motivazione, che costituiscono le necessarie premesse logiche e giuridiche della decisione»: conseguentemente, qualora il dispositivo della sentenza dichiari l’inammissibilità del gravame ma la motivazione affronti il merito giudicando infondate alcune delle doglianze proposte dall’appellante, la pronunzia di inammissibilità deve ritenersi riferita alle sole censure che non siano state esaminate nel merito. Sulla parte soccombente, concludeva la Corte, grava dunque l’onere di proporre «articolate e specifiche censure» con riguardo a tutti i punti sui quali in sentenza si rinvenga, malgrado la formula di inammissibilità adottata in dispositivo, una sostanziale «motivazione di rigetto».
Una conferma sistematica veniva ravvisata nella fattispecie, ritenuta accomunabile per identità di ratio, in cui l’oggetto della domanda si fondi «su un duplice ordine di ragioni giuridiche, collegate a presupposti antitetici e formulate in via alternativa o subordinata»: in questo caso, osservava la Corte, la sentenza del giudice del merito che, dopo aver aderito alla prima ragione, esamini e accolga anche la seconda al fine di rafforzare l’impianto motivazionale della propria decisione non contiene un mero obiter dictum, ma configura al contrario una pronuncia che, fondandosi su rationes decidendi distinte e ciascuna di per sé sufficiente a sorreggere la soluzione adottata, può essere utilmente impugnata soltanto mediante la censura di entrambe.
II. La posizione assunta da Cass., sez.un., 20 febbraio 2007, n. 3840
Il contrasto interpretativo è stato risolto dalle Sezioni Unite del 2007 attraverso la conferma della soluzione largamente maggioritaria (secondo cui è ammissibile l’impugnazione volta a rimuovere la statuizione pregiudiziale, mentre deve al contrario sanzionarsi con l’inammissibilità per difetto di interesse l’impugnazione tesa a censurare i soli passaggi logici svolti sul merito) e la confutazione della ricostruzione operata dalle due isolate decisioni del 1988 e del 2004, le quali, secondo la Corte, avevano errato nel pretendere un’irragionevole «identità di valutazione – in termini di efficacia e conseguente suscettibilità di consolidazione nel giudicato – di ogni subordinata ratio decidendi additivamente comunque svolta in sentenza».
Secondo le Sezioni Unite deve infatti distinguersi tra un primo genere di ipotesi in cui l’eccedenza di motivazione sia vòlta a sorreggere con più argomenti la decisione di un medesimo aspetto della domanda – in relazione al quale l’impugnazione, secondo l’espressione adottata dalla Corte, deve «vincere» tutte quelle ragioni, ciascuna delle quali «si pone come autonoma ed autosufficiente ratio decidendi» – dai diversi casi in cui la sussistenza dell’argomentazione ultronea, attenendo a domande o ad eccezioni diverse da quelle fondanti la decisione e «il cui esame è per di più precluso al giudice proprio in ragione della natura della questione (di rito) decisa principaliter», non attribuisce né l’onere, né l’interesse all’impugnazione.
Il criterio era per altro evocativo di conclusioni già raggiunte dalla dottrina, per cui gli obiter dicta e la sovrapposizione di rationes decidendi non possono più considerarsi un elemento accessorio e al limite superfluo dell’argomentazione, ma anzi si configurano come elementi-chiave della motivazione ‘valutativa’: v. in questo senso Taruffo, La motivazione della sentenza civile, Padova, 1975, 317, il quale distingue tra tre fattispecie, la prima attinente ai casi in cui un’unica statuizione è giustificata da più argomentazioni ognuna delle quali astrattamente idonea a sorreggerla, tanto da potersi parlare di un «eccesso di giustificazione» e di «autoapologia […] di fronte a destinatari nei confronti dei quali egli assume la responsabilità della decisione»; la seconda riguardante i casi in cui ad una giustificazione sufficiente se ne aggiungano altre che, di per sé, non sarebbero idonee a fondare l’asserzione cui si riferiscono, ma vengano inserite in motivazione in funzione esclusivamente persuasiva; e la terza, caratterizzata da una sostanziale «accumulazione di argomenti di natura meramente persuasiva», in cui ad un’asserzione si riferiscano più argomentazioni, nessuna delle quali di per sé idonea a costituire una vera e propria argomentazione.
L’applicazione di tale criterio induceva le Sezioni Unite a concludere che, nel caso di specie, la pronuncia in rito resa dal giudice dell’appello doveva inserirsi nella seconda delle due classi di ipotesi descritte: la Corte territoriale, dopo aver statuito l’inammissibilità dell’impugnazione (per altro con motivazione già duplice, incentrata da un lato sulla tardività della proposizione e dall’altro sull’unitarietà dell’atto d’appello proposto da due distinti soggetti che in primo grado avevano interposto autonome opposizioni ad un provvedimento di dichiarazione di insolvenza), aveva infatti esteso l’oggetto della propria analisi a ipotetiche considerazioni sul merito, come tali indipendenti dalla questione di rito oggetto della decisione principale.
La ridondanza dell’argomentazione aveva dunque sortito l’effetto di destinare la motivazione svolta ad abundantiam ad una dimensione, secondo le parole della Corte, «irrimediabilmente esterna» all’ambito della decisione, e ciò non tanto in considerazione del fatto che essa non aveva trovato conferma nel dispositivo (il quale, per giurisprudenza costante, può considerarsi integrabile con la motivazione stessa), quanto per la provenienza da un giudice che, arrestando il proprio potere e dovere decisorio alle soglie del rito, si era automaticamente “spogliato” della potestas iudicandi in relazione al merito.
III. I vantaggi (soltanto) ipotetici connessi all’eccesso di motivazione
Le recenti conferme giurisprudenziali della tesi avallata dalle Sezioni unite nel 2007 sembrano in realtà portatrici di un criterio lineare in astratto e di difficile applicazione per gli operatori, atteso che spesso l’interazione tra la declaratoria dell’inammissibilità della domanda e l’attrazione intellettuale del giudice verso l’approfondimento del merito produce in effetti fattispecie contraddistinte da un’obiettiva ambiguità quanto all’individuazione dell’unica ratio decidendi posta a fondamento della decisione.
Pur condivisibile quanto all’esclusione dell’onere di impugnazione dei capi di motivazione in cui il giudice si sia espressamente premurato di sottolineare il carattere ipotetico, per così dire “virtuale” delle proprie considerazioni sul merito, la soluzione tranciante tralatiziamente ribadita dalla Cassazione non sembra infatti offrire risposte adeguate a due ipotesi.
La prima è quella in cui la sovrabbondanza della motivazione derivi dal fatto che il giudice, ritenendo problematica l’ammissibilità della domanda e invece pacifica l’infondatezza della pretesa sostanziale, ha preferito fondare la propria decisione sul merito pur non mancando di tratteggiare, in motivazione, l’astratta idoneità della questione pregiudiziale a risolvere il giudizio: in questo caso, la motivazione contiene sia un’argomentazione nel merito che una decisione pregiudiziale che «suona come di ammissibilità», con la conseguenza che «l’onere di impugnazione ed il dovere di controllo critico del giudice dell’impugnazione possono dunque abbracciarle entrambe».
La seconda attiene al caso in cui l’estensore del provvedimento, senza far emergere spie linguistiche che attestino il “dubbio”, abbia pronunciato sia sul profilo dell’ammissibilità della domanda – per negarla – che sul merito della questione (nel qual caso è necessario ipotizzare un’ulteriore alternativa: se la sentenza, a fronte della dichiarazione preliminare di inammissibilità dell’azione, ha rigettato nel merito la domanda, dovrà ritenersi che l’intrinseca contraddittorietà tra le statuizioni comporti la nullità della decisione e, pertanto, la sua riformabilità in sede di impugnazione; qualora invece il giudice abbia accolto nel merito una domanda già ritenuta inammissibile, la gravità dell’aporia logica tra i due enunciati induce a ritenere la sentenza addirittura inesistente).
La soluzione adottata dalla giurisprudenza appare invece convincente nella misura in cui argina l’incidenza negativa che le eccedenze didascaliche dei giudici del merito, già di per sé contrastanti con il principio di economia degli atti processuali, sono inevitabilmente destinate a comportare sul piano del correlato canone della ragionevole durata del processo qualora le considerazioni svolte ad abundantiam sul merito, incrementando l’insoddisfazione verso l’esito del giudizio della parte già soccombente in rito, diano adito ad ulteriori ed autonomi motivi di impugnazione avverso la pronuncia di inammissibilità della domanda.
In questo senso, l’opzione che relega nell’irrilevanza giuridica i capi di motivazione che contengano argomentazioni eccedenti l’illustrazione del percorso logico che ha sorretto l’adozione della decisione principale appare tanto più opportuna se si considera che il legislatore degli ultimi anni – nel vincolare l’estensore della sentenza alla “concisa” esposizione delle ragioni di fatto e di diritto che sorreggono la decisione e nel sostituire ex art. 52 della l. 18 giugno 2009, n. 69 la precedente formulazione dell’art. 118 disp. att. c.p.c., secondo cui il giudice era tenuto all’illustrazione dei «fatti rilevanti della causa e delle ragioni giuridiche della decisione», con la diversa regola che limita l’oggetto della motivazione alla «succinta» esposizione degli stessi elementi, addirittura mediante il semplice riferimento ai «precedenti conformi» – ha sostanzialmente richiamato gli estensori del provvedimenti giurisdizionali all’adozione di criteri espositivi evidentemente incompatibili con la scelta di dilungarsi in questioni esorbitanti la spiegazione della ratio decidendi.
Tanto più che il profilo sul quale l’esternazione del ragionamento del giudicante conserva le maggiori chances di scongiurare, con la forza e la logicità dell’argomentazione, il rischio di impugnazioni non sembra risiedere nell’estensione dell’oggetto della motivazione ad aspetti diversi, seppur correlati a quello costituente la ragione della decisione, quanto, al contrario, nell’offerta di un quadro quanto più esauriente sul percorso adottato per arrivare alla statuizione principale.
E anche sul piano dei riflessi pratici prodotti sulle esigenze di ragionevole durata del processo, non sembrano apprezzabili i risultati dell’investimento operato dal giudice del merito il quale sacrifichi parte del tempo dedicato alla redazione di altre sentenze per scendere in un approfondimento ultroneo che, “rassicurando” il soccombente in rito sulla probabile infondatezza nel merito delle pretese azionate, argini le probabilità che il contenzioso prosegua verso gradi di giudizio destinati, nell’opinione del primo giudice, a concludersi senza possibilità di esiti maggiormente soddisfacenti per l’impugnante rispetto al semplice spostamento della soccombenza dal piano del processo a quello del merito.
Il calcolo non sembra infatti premiante se si considera, da un lato, la frequenza del principio di diritto confermato dalla decisione in commento fra le massime riportate dai repertori giurisprudenziali, di per sé indicativa di un contenzioso non irrilevante originato dalle eccedenze didascaliche dei giudici del merito o comunque correlato all’individuazione delle conseguenze che ne derivano sul piano della formazione del giudicato; e, dall’altro, il possibile verificarsi di fattispecie in cui, censurando i motivi di ricorso le sole argomentazioni rese ad abundantiam sul merito e non la preliminare statuizione di inammissibilità, è lecito ipotizzare che la motivazione complessa abbia addirittura originato un’impugnazione che, se il giudice si fosse limitato alla concisa illustrazione del percorso logico adottato per giungere alla decisione principale, non sarebbe stata promossa.
IV. Cenni bibliografici
In dottrina, sul tema della motivazione ad abundantiam v. anche Comoglio, Il principio di economia processuale, I, Padova, 1980, 227 ss., il quale osserva che «a volte l’estensore è portato a dilungarsi nel discorso giustificativo, anche oltre la necessità di argomentazione manifestatesi nella deliberazione, per corroborare con maggior forza di persuasione la correttezza del dictum decisorio, accomunando due o più ragioni giuridiche, le quali siano in grado di fornire autonomamente le basi del suo convincimento. A volte, invece, pur fondando la decisione sulla risoluzione affermativa di una questione pregiudiziale, egli preferisce analizzare, anche in forma subordinata, altre questioni che a rigore sarebbero assorbite, al precipuo scopo di tratte dalla loro prospettata soluzione (conforme) una convalidazione aggiuntiva della legittimità della pronunzia finale (assolutoria), che comunque non varierebbe»; Consolo, Inutiliter data e non bisognosa di gravame la decisione di merito resa dopo (e nonostante) una statuizione assorbente in rito: le Sezioni Unite tornano a ispirarsi al duplice oggetto del giudizio, in Corr. giur., 2008, 375 ss.; Ronco, L’esame del merito nonostante l’affermata inammissibilità della domanda o dell’impugnazione: atteggiamenti linguistici del Giudice a quo, onere dell’impugnazione e poteri decisori del Giudice ad quem, in Giur. it., 2008, I, 1211; Turroni, La sentenza civile sul processo, Torino, 2006, 111 ss., il quale, dalla conferma della teoria tradizionale secondo cui «i requisiti processuali sono pregiudiziali non al solo accoglimento della domanda ma anche alla decisione della causa nel merito, sia essa di accoglimento o di rigetto», trae la conclusione che il giudice, qualora le questioni pregiudiziali sollevate evidenzino ragioni sia processuali che sostanziali idonee a giustificare il rigetto della domanda, deve definire il giudizio in rito: qualora invece l’estensore del provvedimento estenda l’oggetto delle sue valutazioni al merito della pretesa, si dovrà concludere – così come già opinato dalla dottrina tedesca (Zeiss – Schreiber, Zivilprozessrecht, Tubingen, 2003, 109; Huber, Das Zivilurteil, in www.kammergericht.de) riferita dallo stesso Autore – che «in parte qua non si tratta neppure di decisione, ma di mera valutazione inidonea al giudicato, utile soltanto a orientare il futuro comportamento delle parti (soprattutto la parte soccombente valuterà se impugnare la sentenza di rigetto in rito anche in considerazione della chances di ottenere una vittoria nel merito)».