Moglie straniera perde la cittadinanza italiana perché il matrimonio era nullo
di Giuseppina Vassallo, Avvocato Scarica in PDFCass. civ., sez I, 11.11.2020 n. 25441
Il provvedimento di riconoscimento della cittadinanza per matrimonio da parte di una cittadina straniera, può essere annullato anche se il provvedimento che dichiara la nullità del vincolo matrimoniale sia successivo all’emissione del provvedimento.
La pubblica amministrazione agisce in autotutela d’ufficio, una volta constatata, anche successivamente, la mancanza dei requisiti originari per l’emissione del provvedimento.
Acquisto e perdita della cittadinanza italiana– nullità del matrimonio – L. n. 91/1992 art. 5, art. 8 – art. 129 c.c. – L. n. 241/1990 art. 21-nonies
CASO
Una donna russa contraeva matrimonio con un cittadino italiano nel 2006. Sei mesi dopo veniva chiesto il riconoscimento della cittadinanza italiana, ai sensi dell’art. 5 della legge n. 91/1992, che le era concessa nell’aprile 2010.
Nel frattempo, con sentenza pronunciata dal Tribunale di Milano il 24 febbraio 2010, era dichiarata la nullità del matrimonio, per errore sulle qualità essenziali del coniuge (art. 122 c.c., comma 3 n. 1).
Il Ministero dell’Interno, con decreto del 2 marzo 2011, disponeva l’annullamento del provvedimento di concessione della cittadina italiana, per mancanza dei requisiti richiesti dalla legge.
La donna ricorreva al Tribunale di Venezia il quale, accogliendo la domanda, disapplicava il decreto ministeriale e accertava la cittadinanza italiana di parte attrice.
Secondo i giudici veneti, la legge richiede che il matrimonio sia esistente al momento in cui la cittadinanza è concessa. Rispetto a quel momento deve essere verificato se vi sia scioglimento, annullamento, cessazione degli effetti civili del matrimonio o separazione legale, essendo irrilevante ciò che accade in seguito.
Su impugnazione del ministero dell’Interno, la Corte d’appello di Venezia, ribaltava la decisione, respingendo la domanda di accertamento della cittadina della donna.
Il provvedimento è stato portato all’esame della Cassazione, con tre motivi di ricorso.
In primo luogo si denuncia l’omesso esame di un fatto decisivo, ossia che alla data di concessione della cittadinanza, risalente all’11 marzo 2010, la ricorrente era coniuge di un cittadino italiano, poiché la sentenza di nullità del matrimonio era passata in giudicato soltanto il 1° luglio 2010.
Con il secondo motivo si fa rilevare che alla data del provvedimento di revoca della cittadinanza era già maturato il termine di due anni per la conclusione del procedimento previsto dall’art. 8, comma 2 della legge n. 91/1992.
In base a tale disposto l’emanazione del decreto di rigetto dell’istanza è preclusa quando dalla data di presentazione dell’istanza stessa, corredata dalla prescritta documentazione, sia decorso il termine di due anni.
Infine, la ricorrente lamentava la mancata valutazione della presunzione di buona fede, a cui aveva fatto seguito l’errata applicazione dell’art. 128 c.c.
La Corte d’appello avrebbe totalmente ignorato che il matrimonio nullo produce effetti fino alla sentenza che pronunzia la nullità, a meno che lo stesso non sia stato contratto in mala fede (c.d. matrimonio putativo).
La causa è stata tenuta in pubblica udienza, in ragione dei profili di novità e rilevanza nomofilattica da affrontare.
SOLUZIONE
Percorso argomentativo seguito dalla Cassazione
I primi due motivi sono stati dichiarati infondati e il terzo ritenuto inammissibile.
La Corte ha esaminato i principi in tema di trasmissibilità della cittadinanza da parte di un coniuge ad un altro.
L’acquisto della cittadinanza non si consegue automaticamente con il matrimonio, essendo necessario l’intervento dell’amministrazione per verificare la presenza dei requisiti richiesti dalla legge.
L’autorità amministrativa ha spazi di valutazione discrezionale soltanto rispetto alla sussistenza di comprovati motivi di sicurezza che impediscono il riconoscimento della cittadinanza, e di conseguenza, può sempre verificare la mancanza dei requisiti anche oltre il biennio.
La Corte ha affrontato la questione della validità erga omnes del giudicato nascente dalle decisioni sugli status.
In presenza di questo giudicato il giudice di legittimità può direttamente accertarne l’esistenza, anche attraverso il riesame degli atti del processo e la valutazione ed interpretazione degli atti processuali (così, Cass. Civ. 10383/2017, Cass. Civ. 21200/2009, Cass. Civ. S.U. 24664/2007).
L’esame diretto della sentenza del Tribunale di Milano, allegata agli atti, ha consentito alla Corte di rilevare che il matrimonio fu dichiarato nullo per fatti e comportamenti preesistenti al matrimonio, ignoti al marito ma imputabili – e dunque conosciuti – dalla moglie.
Su tali basi non ha errato la Corte distrettuale dichiarando che il vincolo matrimoniale non esisteva, poiché ciò era determinato dall’efficacia retroattiva della decisione assunta sulla validità del vincolo coniugale.
Quanto al termine biennale, il suo decorso aveva fatto venire meno il potere discrezionale della Pubblica Amministrazione di rilevare l’esistenza di comprovati motivi inerenti alla sicurezza dello Stato e ostativi alla concessione della cittadinanza, ma persisteva, inalterato, il potere di verifica della mancanza dei requisiti previsti per il riconoscimento della cittadinanza.
La P.A. poteva dunque procedere all’annullamento d’ufficio – in autotutela L. n. 241/ 1990 –del decreto che ha riconosciuto la cittadinanza una volta constatata, anche successivamente, la mancanza dei requisiti originari per l’emissione del provvedimento.
QUESTIONI
Quanto alla rilevanza del così detto matrimonio putativo che consente nel nostro ordinamento di conservare gli effetti del vincolo fino alla data della statuizione giudiziale – efficacia ex nunc – è necessario dimostrare la buona fede del coniuge.
Nel caso di specie la Cassazione ha potuto acquisire gli elementi da cui risultava che solo il marito ignorasse la causa di nullità, mentre la moglie ne era a conoscenza.
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