27 Febbraio 2024

Mediazione e clausole abusive

di Daniele Calcaterra, Avvocato Scarica in PDF

Cass. Civ., 9 Gennaio 2024, n. 785, Sent., Rel. Dott R. Giannaccari

Mediazione – Conclusione dell’affare da persona diversa – nesso causale nell’attività del mediatore – Provvigione – Clausole abusive (art. 1755 c.c.)

[1] È vessatoria ed abusiva, ai sensi dell’art. 1341 c.c. e dell’art. 33 Cod. Consumo, la clausola, predisposta unilateralmente dal mediatore, che prevede il diritto del compenso provvigionale, dopo la scadenza del contratto e senza limiti di tempo, da parte di un soggetto che si sia avvalso della sua attività qualora l’affare sia stato successivamente concluso da un familiare, società o persona “riconducibile”; detta clausola determina un significativo squilibrio a carico del consumatore perché lo obbliga ad una prestazione in favore del professionista indipendentemente da ogni accertamento, anche in via presuntiva, del preventivo accordo con il soggetto che ha concluso l’affare o di ogni altra circostanza concreta da cui risulti che l’affare sia stato agevolato in ragione dei rapporti familiari o personali tra le parti.

CASO

Tizio (mediatore) conveniva in giudizio Caia e Sempronia, al fine di ottenerne la loro condanna al pagamento della provvigione maturata a seguito dell’attività di mediazione posta in essere e finalizzata alla locazione di un immobile.

Tizio esponeva infatti di avere concluso un contratto di mediazione con Caia, avente ad oggetto la locazione di un immobile e di avere ottenuto da parte di Sempronia la sottoscrizione di una proposta di locazione che non veniva accettata da Caia pur essendo conforme a quanto richiesto. Aggiungeva altresì che Sempronia, con detta proposta, si era obbligata a corrispondere la provvigione anche in caso di locazione dell’immobile dopo la scadenza dell’ incarico e pure qualora il contratto fosse stato concluso da parte di soggetti ad essa riconducibili (familiari, società partecipate) e che scaduto il mandato, Filano, marito di Sempronia, aveva in effetti concluso il contratto con la locatrice Caia stabilendo nell’immobile la residenza sua e della moglie.

Sempronia si costituiva in giudizio per resistere alla domanda e, in via riconvenzionale, chiedeva fosse accertata la nullità della clausola da ultimo ricordata, deducendone la vessatorietà.

Il giudice di primo grado accoglieva la domanda di Tizio e condannava Caia e Sempronia al pagamento della provvigione.

La sola Sempronia proponeva appello. Il giudice del gravame dava ragione a Sempronia e dichiarava che nulla era dovuto a Tizio, mancando la prova del rapporto causale tra la sua attività e la conclusione dell’affare.

Tizio propone quindi ricorso per cassazione, mentre Sempronia resiste con controricorso e propone a sua volta ricorso incidentale condizionato affidato a due motivi.

SOLUZIONE

La Corte di Cassazione, con la sentenza in commento, accoglie il ricorso principale ed accoglie anche il primo motivo del ricorso incidentale, dichiarando assorbito il secondo motivo del ricorso incidentale.

QUESTIONI

Tizio deduce l’omesso esame di fatti e documenti atti a fornire la prova del nesso causale tra l’attività di mediazione e la conclusione dell’affare, dati dalla circostanza che Sempronia aveva visitato l’immobile con il marito, aveva fatto una proposta di locazione rifiutata dalla proprietaria e che, dopo la scadenza dell’incarico con l’agenzia immobiliare, il contratto di locazione era stato concluso dal coniuge Filano. Considerando che Sempronia si era obbligata a corrispondere il compenso al mediatore anche se, dopo la scadenza dell’incarico, l’affare fosse stato concluso da parte di familiari o altri soggetti a lei riconducibili, il giudice l’avrebbe dovuta condannare a pagare la detta provvigione.

La Corte, sul punto, richiama anzitutto i principi già enucleati in materia di nesso di causalità tra l’attività svolta dal mediatore e la conclusione dell’affare. Ai fini del riconoscimento del diritto del mediatore alla provvigione, ribadisce la Corte, non è richiesto un nesso eziologico diretto ed esclusivo tra l’attività svolta dal mediatore e la conclusione dell’affare ed è sufficiente (salvo quanto subito si dirà) che il mediatore abbia messo in relazione le parti, così da realizzare l’antecedente indispensabile per pervenire alla conclusione del contratto, secondo i principi della causalità adeguata (in proposito, si veda anche Cass. 25851/2014, Cass. 19705/2008 e Cass. 28231/2005). Per affermare che la conclusione dell’affare sia l’effetto dell’intervento del mediatore, il giudice deve accertare però anche il carattere adeguato dell’apporto causale del mediatore: è necessario cioè che la conclusione dell’affare sia effetto causato adeguatamente dall’intervento del mediatore e l’aver messo le parti in relazione tra loro può non essere di per sé sufficiente allo scopo (al riguardo, si veda anche Cass. 3165/2023). Il diritto alla provvigione sorge cioè tutte le volte in cui la conclusione dell’affare è in rapporto causale con l’attività del mediatore, che sussiste quando il mediatore abbia messo in relazione le parti in modo da realizzare l’antecedente indispensabile per pervenire alla conclusione del contratto, indipendentemente dal suo intervento nelle varie fasi delle trattative sino alla stipulazione del contratto, ma sempre che questo possa ritenersi conseguenza dell’opera dell’intermediario tale che, senza di essa il contratto stesso non si sarebbe concluso (v. Cass. 11443/2022).

È ovviamente possibile, aggiunge la Corte, che il nesso di causalità tra l’attività del mediatore e la successiva conclusione dell’affare venga reciso; ma allo scopo è necessario che dopo una prima fase delle trattative avviate con l’intervento del mediatore che non abbia dato esito positivo, la finalizzazione dell’affare sia indipendente dall’ intervento del mediatore che le aveva poste originariamente in contatto (v. Cass. 22426/2020) e, allo scopo, non è sufficiente che alla iniziale fase delle trattative ne sia seguita un’altra con l’intervento di un secondo mediatore (v. Cass. 869/2018).

Ciò premesso, la Corte rileva che la sentenza impugnata aveva fatto errata applicazione di questi principi, avendo omesso di considerare la portata della clausola che obbligava l’aspirante conduttrice a versare la provigione anche in caso di successiva conclusione del contratto con un congiunto di essa; clausola che era astrattamente idonea a risolvere la controversia in favore del mediatore e che pertanto doveva essere esaminata. Inoltre, la sentenza impugnata aveva del tutto omesso la valutazione delle circostanze dedotte da Tizio circa la visita dell’immobile, che sarebbe stata effettuata da Sempronia unitamente al marito Filano; che proprio questi avesse successivamente stipulato la locazione e che Sempronia avesse formulato una proposta di locazione evidentemente ritenendo idoneo l’immobile.

La S.C. accoglie pertanto il ricorso principale. L’accoglimento del ricorso principale implica però l’esame anche del ricorso incidentale condizionato proposto da Sempronia.

Sempronia deduce la violazione degli artt. 1341 c.c. e degli artt. 33 e 34 del D. Lgs 206 del 2005 (Cod. Consumo), per essere nulla la clausola con cui si era obbligata a corrispondere il compenso al mediatore anche nel caso in cui l’immobile fosse stato locato dopo la scadenza dell’incarico e qualora il contratto fosse stato concluso da parte di soggetti ad essa riconducibili (familiari, società partecipate). Sempronia rileva come la clausola, redatta su un modulo predisposto da Tizio, limiti la sua libertà contrattuale nei rapporti con i terzi senza limiti di tempo, sicché avrebbe richiesto la specifica approvazione per iscritto, attesa la sua natura vessatoria; inoltre, aggiunge, detta clausola determinerebbe un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto in cui è parte un consumatore, in violazione dell’art. 33 Cod. Consumo. Infine, l’art. 34 Cod. Consumo, in caso di contratto concluso su moduli o formulari, porrebbe a carico del professionista l’onere di provare che le clausole abusive, malgrado siano state unilateralmente predisposte, siano state oggetto di specifica trattativa mentre il giudice dell’appello non avrebbe svolto tale accertamento.

La S.C. ritiene il motivo fondato. È pacifico, infatti, osserva la Corte, che il contratto di mediazione predisposto su formulario da Tizio conteneva una clausola, non specificamente sottoscritta da Sempronia, che la obbligava a corrispondere il compenso al mediatore anche nel caso in cui l’immobile fosse stato locato dopo la scadenza dell’incarico e qualora il contratto fosse stato concluso da parte di soggetti ad essa riconducibili (familiari, società partecipate). Inoltre, non è stata nemmeno valutata e quindi negata la qualità di consumatore di Sempronia e l’applicabilità del Codice del Consumo, dalla stessa espressamente invocato.

La Corte a questo punto fa un interessante excursus della normativa in materia. Dall’art.1469 bis c.c. (introdotto dall’art. 142 Cod. Consumo) risulta che le disposizioni del codice civile contenute nel titolo “Dei contratti in generale” si applicano ai contratti del consumatore, ove non derogate dal Codice del Consumo o da altre disposizioni più favorevoli per il consumatore. Esiste quindi una chiara preferenza del legislatore per la normativa del Codice del Consumo, applicabile non solo al contratto di vendita ma a tutti i contratti in cui è parte il consumatore (ex multis Cass. 2019/14775). Tutto il sistema di tutela del consumatore (istituito con la Direttiva UE 93/2013) si fonda sull’idea che questi si trovi in una posizione di inferiorità nei confronti del professionista, sia per quanto riguarda il potere negoziale sia per quanto riguarda il livello di informazione; per tale motivo la normativa speciale introduce una specifica disciplina diretta ad appianare le disuguaglianze sostanziali fra soggetti titolari di poteri contrattuali differenti, integrativa della normativa codicistica, enucleando una forma di tutela applicabile esclusivamente in ragione della qualifica soggettiva rivestita dalle parti contraenti.

È obbligo del giudice rilevare, anche d’ufficio, la natura abusiva delle clausole predisposte dal professionista, al fine di ovviare allo squilibrio che esiste tra il consumatore ed il professionista anche nell’ipotesi in cui il consumatore sia rimasto contumace, come affermato dalla Corte di Giustizia con la sentenza del 4.6.2020, nella causa C-495/19. Tant’è che la Corte di Giustizia UE (con la recente sentenza del 17.5.2022 nelle cause riunite C-693/19 e C-831/19) ha esteso il dovere officioso del giudice di rilevare la nullità del contratto anche al procedimento esecutivo basato su un decreto ingiuntivo non opposto dal consumatore, ovvero nelle ipotesi di “consumatore inerte”. Di recente poi con la sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione del 6.4.2023, n. 9479 è stato previsto un obbligo di accertamento e di indagine da parte del giudice del monitorio, al fine di accertare l’abusività delle clausole, attraverso una relazione costante con il ricorrente per decreto ingiuntivo, al quale il giudice può chiedere di produrre il contratto e di fornire gli eventuali chiarimenti necessari anche in ordine alla qualifica di consumatore del debitore.

A questo punto, la Corte focalizza l’attenzione sulle c.d. clausole vessatorie, la cui disciplina è cristallizzata negli artt. 33ss. Cod. Consumo. In particolare, l’art. 33 prevede che le clausole abusive non vincolino i consumatori se, malgrado la buona fede, determinano un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto in danno del consumatore. Si tratta di una disposizione imperativa tesa a sostituire all’equilibrio formale che il contratto determina fra i diritti e gli obblighi delle parti contraenti, un equilibrio reale finalizzato a ristabilire l’uguaglianza tra queste ultime.

A tale enunciazione di principio la norma fa seguire una lista di clausole che assume carattere orientativo ed indicativo, lasciando tuttavia aperta sia la possibilità di ritenere vessatorie clausole che non sono contemplate nella lista, sia di ritenere in concreto non vessatorie clausole che rientrerebbero nella lista, qualora si superi la presunzione di vessatorietà. L’elenco ha la funzione cioè di tipizzare le clausole abusive, agevolando l’indagine giudiziale attraverso la presunzione assoluta di vessatorietà (c.d. lista grigia), in forza della quale una previsione negoziale astrattamente riconducibile ad una o più delle clausole espressamente contemplate dal suddetto elenco si presume vessatoria, salvo che il professionista fornisca la prova contraria. L’onere probatorio gravante sul professionista al fine di confutare la natura presumibilmente vessatoria di una clausola contrattuale si considera assolto al ricorrere di determinati presupposti, tra cui, in primis, la dimostrazione che la clausola censurata non sia stata unilateralmente imposta dallo stesso, ma abbia formato oggetto di specifica trattativa individuale tra le parti (art. 34, co. 4, Cod. Consumo), sempre che la trattativa risulti caratterizzata dagli indefettibili requisiti dell’individualità, serietà ed effettività (v. Cass. 2016/6802 e Cass. 2008/24262).

Nel caso di specie, la clausola in contestazione, inserita nel modulo contrattuale predisposto da Tizio, secondo la Corte determinava certamente uno squilibrio significativo perché vincolava il consumatore (Sempronia) al pagamento della provvigione per un periodo indeterminato “dopo la scadenza del contratto”, nell’ ipotesi in cui il contratto fosse stato concluso da un familiare, una società partecipate dalla prima o da altre persone a lei riconducibili. Si trattava cioè di una formulazione estremamente ampia e generica, che illegittimamente vincola al pagamento la parte che è entrata in contatto con il mediatore. Detta clausola, che non rientra nell’ambito dell’elenco previsto dall’art. 33 Cod. Consumo, attribuendo al mediatore il diritto al compenso indipendentemente dalla prova dell’accordo tra la parte, che si è avvalsa della sua attività ed il terzo che ha concluso successivamente l’affare, implica una tacita proroga del vincolo contrattuale successiva alla scadenza  dell’ incarico (come previsto dall’art. 1341 c.c.), obbligando chi si sia avvalso dell’attività del mediatore a corrispondere la provvigione ogni qual volta il contratto sia concluso, dopo la scadenza dell’ incarico, da qualunque soggetto lui legato da rapporti personali o familiari.

Lo scopo di tale clausola è evidentemente quello di tutelare il mediatore nell’ipotesi in cui, dopo la scadenza del contratto, la parte concluda l’affare per il tramite di un terzo, sottraendosi all’obbligo di corrispondere la mediazione. Detta esigenza non può, tuttavia, trascendere in una tutela preventiva ed assoluta della posizione del mediatore, svincolata da qualunque accertamento anche in via presuntiva che vi sia stato un accordo fraudolento con il terzo, attuato al fine di sottrarsi al pagamento della provvigione da parte di chi si era avvalso dell’attività del mediatore. L’esigenza di tutela del mediatore deve essere cioè bilanciata con la tutela del consumatore, che è parte debole nei contratti predisposti unilateralmente dal professionista. Si pone, quindi, un problema di compatibilità della clausola con l’art. 33 Cod. Consumo. In tema di mediazione, in passato, la Corte, esaminando l’ipotesi di una clausola che attribuiva al mediatore il diritto alla provvigione anche in caso di recesso da parte del venditore, ne ha affermato la vessatorietà nelle ipotesi in cui il compenso non trovi giustificazione nella prestazione svolta dal mediatore, determinando un significativo squilibrio contrattuale tra le parti la clausola che riconoscere al mediatore l’importo pattuito a prescindere dall’attività svolta e dai risultati conseguiti. In tale ipotesi, è stato demandato al giudice di merito di valutare se una qualche attività fosse stata svolta dal mediatore attraverso le attività propedeutiche e necessarie per la ricerca di soggetti interessati all’acquisto del bene (v. Cass. 2020/19565). La provvigione, si è detto, doveva trovare giustificazione nello svolgimento di una concreta attività di ricerca di soggetti interessati all’affare, attraverso la predisposizione dei propri mezzi e della propria organizzazione.

Il principio da applicare non può che essere lo stesso, con la precisazione che la Corte non ha ritenuto rilevante che l’affare si sia concluso tra parti diverse da quelle cui è stato proposto originariamente, allorché vi sia comunque un legame tra queste ultime e quella con la quale è stato successivamente concluso, tale da giustificare, nell’ambito dei reciproci rapporti economici, lo spostamento della trattativa o la stessa conclusione dell’affare su un altro soggetto (in questo senso anche Cass. 2021/4644).

In conclusione, pertanto, si è ritenuto che la clausola che riconosce tout court il diritto del compenso al mediatore, dopo la scadenza del contratto e senza limiti di tempo, da parte di un soggetto che si sia avvalso dell’attività del mediatore, qualora l’affare sia stato concluso da un familiare, società o persona “riconducibile ” al preponente, ha natura vessatoria in quanto obbliga il consumatore ad una prestazione in favore del professionista indipendentemente da ogni accertamento del preventivo accordo tra le parti e di ogni altra circostanza concreta, da provarsi anche in via presuntiva, da cui risulti che l’affare sia stato agevolato in ragione dei rapporti familiari o personali tra le parti.

Il giudice di merito dovrà quindi valutare l’abusività della clausola, verificando in concreto la condotta di Sempronia nella conclusione dell’affare da parte del marito e, in applicazione dell’art. 34 Cod. Consumo, il giudice di merito dovrà accertare anche se la clausola è stata oggetto di trattativa individuale, essendo stata inserita in un modulo predisposto dal mediatore.

In conseguenza di ciò, la S.C. accoglie anche il ricorso incidentale, cassa la sentenza con rinvio al giudice dell’appello, in persona di altro magistrato, cui viene chiesto di applicare il principio di diritto espresso in precedenza.

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