Il luogo dell’adempimento nelle obbligazioni pecuniarie: l’intervento delle Sezioni Unite sul requisito della liquidità
di Alessandra Sorrentino, Avvocato Scarica in PDFAbstract: Il contributo che segue esamina il concetto di liquidità della somma nelle obbligazioni aventi ad oggetto una somma di denaro ai fini dell’individuazione del forum destinatae solutionis in caso di obbligazioni c.d. portabili ai sensi dell’art. 1182, co. 3°, c.c. In particolare, si esaminano gli orientamenti giurisprudenziali che si sono contrapposti prima della pronuncia delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, che con la sentenza 13.09.2016, n. 17989, è intervenuta a chiarire i requisiti in presenza dei quali le obbligazioni pecuniarie devono essere adempiute al domicilio del creditore.
L’art. 1182 c.c. disciplina il luogo dell’adempimento delle obbligazioni, fissando alcuni criteri relativi all’individuazione dello stesso. Si tratta di criteri suppletivi che intervengono solo laddove le parti non abbiano convenuto il luogo dell’adempimento oppure nel caso in cui lo stesso non sia individuabile sulla base della natura della prestazione, delle circostanze o degli usi (art. 1182, co. 1°, c.c.).
In tali ipotesi, ove l’obbligazione sia quella di consegnare una cosa certa e determinata, il luogo dell’adempimento è quello in cui si trovava la cosa quando l’obbligazione è sorta (art. 1182, co.2, c.c.).
Nel caso di obbligazioni aventi per oggetto somme di denaro, il luogo dell’adempimento è il domicilio del creditore al tempo della scadenza (obbligazioni c.d. portabili); ove tale domicilio sia diverso da quello che il creditore aveva al tempo della nascita dell’obbligazione (ad es. a seguito di cessione del credito) e ciò renda più gravoso l’adempimento, il debitore, previa dichiarazione al creditore, ha diritto di eseguire il pagamento nel proprio domicilio (art. 1182, co. 3°, c.c.).
In tutti gli altri casi l’adempimento ha luogo presso il domicilio del debitore (obbligazioni c.d. chiedibili) (art. 1182, co. 4°, c.c.).
Il terzo comma, oggetto di analisi del presente contributo, fa riferimento al luogo in cui è adempiuto un preciso tipo di obbligazione: le obbligazioni pecuniarie.
Queste ultime si distinguono dalle altre per la peculiarità del proprio oggetto, cioè il denaro, il quale può essere usato come mezzo di adempimento dell’obbligazione, oppure come unità di misura di un valore.
Nel primo caso, l’adempimento dell’obbligazione è garantita attraverso la diretta consegna della somma indicata ab origine nel titolo obbligatorio; nel secondo caso, invece, il bene denaro è utilizzato per quantificare un generico valore.
In entrambi i casi si parla di obbligazione pecuniaria, giacché in entrambi oggetto dell’obbligazione è il denaro. La differenza è individuabile nel momento della genesi dell’obbligazione: nel primo esempio, la somma di denaro costituisce oggetto dell’obbligazione già nel momento in cui sorge il legame; nel secondo, invece, l’oggetto, al momento della nascita dell’obbligazione, è rappresentato da un valore generico, che solo in un secondo momento sarà quantificato in una somma di denaro, che diventerà, quindi, vero oggetto dell’obbligazione.
Chiarito, sia pure molto sinteticamente, il concetto di obbligazione pecuniaria, occorre analizzare la portata applicativa dell’art. 1182, co. 3°, c.c.
Sebbene la formulazione letterale della norma non sembrerebbe dare adito a fraintendimenti, tuttavia una querelle è nata in seno al terzo comma dell’art. 1182 c.c.
Due elementi sono pacifici:
- il tenore della disposizione si riferisce – come abbiamo poc’anzi precisato – evidentemente e senza alcun dubbio alle “obbligazioni pecuniarie”;
- l’opinione giurisprudenziale, oramai consolidata, è nel senso per cui – nonostante il silenzio della legge – le obbligazioni aventi ad oggetto una somma di denaro di cui al terzo comma dell’art. 1182 c.c. sono unicamente quelle “liquide” (ex multis, Cass. civ., 2011/21000, Cass. civ., 1999/5627; Cass. civ.,1996/633; contra in dottrina C. Consolo, Spiegazioni di diritto processuale civile, 2012, p. 43).
Dubbi sorgono invece sul concetto di liquidità della somma e cosa si debba intendere per essa, posto che il terzo comma dell’articolo in analisi non menziona il requisito della liquidità, per cui, stando al tenore della norma, sembrerebbe potersi desumere che ogni obbligazione avente ad oggetto una somma di denaro, anche se illiquida, sia da adempiere al domicilio del creditore.
La definizione dell’ambito di applicazione della norma è di non poco rilievo, rispondendo a diverse esigenze sia sul piano sostanziale sia su quello processuale.
In primo luogo, vi è un’esigenza di certezza, in quanto le parti del rapporto obbligatorio devono poter conoscere, sin dall’origine, il luogo ove la prestazione dovrà essere adempiuta dal debitore e ricevuta dal creditore. Ciò anche al fine di consentire alle parti di valutare, nell’economia complessiva del rapporto, gli eventuali costi e rischi che una sede dell’adempimento diversa dal proprio domicilio può comportare.
Inoltre, la definizione dell’ambito applicativo dell’art. 1182, co. 3°, c.c. incide anche sul regime della mora del debitore. Infatti, ai sensi dell’art. 1219, co. 2°, n. 3, c.c., quando è scaduto il termine, se la prestazione dev’essere adempiuta al domicilio del creditore, la mora scatta ex re, cioè in modo automatico, senza necessità di costituzione in mora ex persona.
Ma la portata applicativa dell’art. 1182, co. 3°, c.c. incide anche sul piano processuale, in quanto si ripercuote sull’individuazione del foro competente a conoscere le controversie sorte in relazione all’obbligazione, secondo quanto disposto dall’art. 20 c.p.c., che istituisce, rispetto alle cause relative a diritti obbligatori, due fori caratterizzati tra loro da facoltatività e alternatività e che consistono nel giudice del luogo in cui è sorta l’obbligazione, ovvero nel giudice del luogo in cui l’obbligazione deve eseguirsi.
Le predette questioni hanno visto contrapporsi negli anni due orientamenti giurisprudenziali, che hanno alimentato il contrasto interpretativo devoluto alle Sezioni Unite, che sono intervenute a dirimerlo con la pronuncia 13.09.2016, n. 17989.
Gli indirizzi giurisprudenziali sul concetto di liquidità in senso stretto ed in senso lato
Secondo un orientamento che possiamo definire tradizionale e restrittivo, l’ambito applicativo del terzo comma dell’art. 1182 c.c. è limitato alle sole obbligazioni pecuniarie che siano determinate fin dall’origine nel loro preciso ammontare, alle quali vengono equiparate anche quelle facilmente determinabili mediante semplici operazioni matematiche ovvero sulla base di elementi certi e prestabiliti risultanti da un titolo convenzionale o giudiziale (Cass. civ., 22.10.2015, n. 21547, Cass. civ., 6.11.2012, n. 19150, Cass. civ., 18.12.2009, n. 26790, Cass. civ., 24.10.2007, n. 22326, Cass. civ. 14.05.2002, n. 7021). Diversamente, qualora il credito debba essere ancora liquidato dalle parti o dal giudice, a seguito di indagini più o meno complesse ma che, comunque, esulano dal mero calcolo matematico, troverà applicazione il quarto comma della norma in commento.
Questa tesi, dunque, qualifica come obbligazione pecuniaria soltanto il debito avente ad oggetto, fin dalla sua origine, la prestazione di una somma di danaro determinata (o determinabile, nel senso suddetto), nel qual caso il pagamento va effettuato al domicilio del creditore.
Tale indirizzo trova il suo fondamento nella circostanza che gli oneri ed i rischi legati all’adempimento presso il domicilio del creditore possono essere imposti al debitore solo se l’obbligazione è precisamente specificata sin dall’origine o, comunque, agevolmente determinabile. Quindi, una volta che il debito è scaduto, l’adempimento non richiede alcuna collaborazione da
parte del creditore se non quella di rendersi disponibile a ricevere la somma dovuta, sicché è giustificabile che sia il debitore a muoversi per dare esecuzione alla propria obbligazione (in tal senso v. A. Oriani, Le Sezioni Unite e la portabilità (ridotta) dei crediti pecuniari, in Corr. Giur., 2017, p. 324).
Inoltre, si è osservato che l’orientamento restrittivo troverebbe giustificazione anche nel tentativo di evitare che al debitore sia accollato il rischio relativo al mancato conseguimento della somma da parte del creditore.
Tale tesi restrittiva è largamente diffusa in giurisprudenza e trova parecchi riscontri favorevoli anche in dottrina (A. Torrente – P. Schlesinger, Manuale di diritto privato, a cura di F. Anelli – C. Granelli, 2015, p. 428), talché essa può essere considerata l’orientamento predominante.
Secondo altro, più estensivo e minoritario orientamento, i crediti aventi ad oggetto una somma di denaro vanno indistintamente soddisfatti presso il domicilio del creditore, non rilevando che il titolo predetermini l’importo dovuto o i criteri per determinarlo o che la loro esatta quantificazione richieda il preventivo accertamento, più o meno complesso, ad opera delle parti o del giudice. Sotto il profilo processuale, secondo tale orientamento, la competenza del giudice è sempre radicata nel luogo di domicilio del creditore qualora, facendo riferimento alla domanda formulata dall’attore, questi abbia richiesto il pagamento di una somma determinata. Quindi, non incide sull’individuazione della competenza territoriale la maggiore o minore complessità dell’indagine sull’ammontare effettivo del credito, la quale attiene esclusivamente alla successiva fase di merito (Cass. civ., 06.11.2012, n. 19150; Cass. civ., 17.05.2011, n. 10837; Cass. civ., 12.10.2011, n. 21000; Cass. civ., 13.05.2004, n. 9092; Cass. civ., 26.07.2001, n. 10226; da ultimo dopo l’intervento delle S.U. del 2016, Cass. civ., 04.01.2017, n. 118).
Seguire l’uno o l’altro orientamento implica talune conseguenze pratiche, cui si è già accennato.
Infatti, cambiando il luogo dell’adempimento non solo muta il forum destintae solutionis, bensì anche il regime della mora del debitore. Ma la delimitazione della portata applicativa dell’art. 1182, co. 3, c.c. incide anche sul piano processuale, in quanto si ripercuote sull’individuazione del foro competente a conoscere le controversie sorte intorno all’obbligazione, secondo quanto disposto dall’art. 20 c.p.c.
L’intervento delle Sezioni Unite
A dirimere il contrasto giurisprudenziale appena delineato, sono intervenute le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 17989/2016, che molto sinteticamente hanno affrontato la questione preliminare relativa al requisito della liquidità delle obbligazioni pecuniarie. Sebbene il terzo comma dell’art. 1182 c.c. si riferisca in modo generico alle sole obbligazioni aventi per oggetto una somma di denaro, senza menzionare il requisito della liquidità, come il legislatore ha espressamente fatto altrove (art. 1243 c.c. o art. 1282 c.c.), tuttavia secondo le Sezioni Unite l’omissione non impedisce di ritenere che le obbligazioni portabili di cui al terzo comma dell’art. 1182 c.c. siano solo quelle liquide.
Quindi, posto che, secondo la Corte, il contrasto non riguarderebbe tanto la circostanza se debba sussistere oppure no il requisito della liquidità, affinché un’obbligazione pecuniaria debba essere adempiuta al domicilio del creditore – concetto che, come si è detto, nella giurisprudenza di legittimità non è stato mai messo in discussione –, l’aspetto da chiarire è invece il modo di intendere tale requisito.
Al riguardo, le Sezioni Unite hanno aderito all’orientamento più restrittivo, cui la giurisprudenza e la dottrina (M. De Cristofaro, Il foro delle obbligazioni. Profili di competenza e giurisdizione, 1999, p. 4; G. Bozzi, Comportamento del debitore e attuazione del rapporto obbligatorio, in Diritto civile, diretto da N. Lipari – P. Rescigno, III.1, 2009, p. 191) prevalenti avevano già aderito, affermando che per obbligazione liquida non deve intendersi soltanto quella derivante da titolo convenzionale o giudiziale che ne abbia stabilito la misura, ma anche quella il cui ammontare può essere determinato con un semplice calcolo aritmetico e senza indagini od operazioni ulteriori, in base a quanto risulta dallo stesso titolo. Senza, quindi, che possano residuare margini di discrezionalità.
La decisione della Corte va poi conciliata con l’art. 10 c.p.c., norma dettata in tema di competenza
per valore, ma ritenuta in alcune pronunce (Cass. civ., 13.04.2005, n. 7674) espressione di un principio valevole anche nel campo della competenza territoriale, che impone di far riferimento, allo scopo di determinare il giudice competente, esclusivamente alla domanda attorea.
Al riguardo, un indirizzo giurisprudenziale ha affermato che quando si tratti di stabilire se un’obbligazione sia liquida o illiquida, il giudice sia tenuto ad attenersi a quanto afferma l’attore, senza aver riguardo ad eventuali contestazioni di parte convenuta, giacché quelle contestazioni atterrebbero invece esclusivamente al giudizio di merito (cfr. Cass. 27 gennaio 1998, n. 789; Cass. 5 marzo 1999, n. 1877).
Le Sezioni Unite discostandosi dal predetto indirizzo, hanno affermato che l’art. 10 c.p.c. va necessariamente letto in relazione all’art. 38 c.p.c. a norma del quale ai fini della competenza è necessario tenere conto delle eccezioni del convenuto e dei rilievi d’ufficio, assunte sommarie informazioni. Ne consegue che non si possa ritenere liquido un credito che si assuma tale solo a seguito di una determinazione meramente unilaterale del suo ammontare da parte dell’attore-creditore al momento della domanda.
Del resto, se così non fosse si avrebbe un palese contrasto con il primo comma dell’art 25 Cost., secondo cui nessuno può essere distolto dal giudice naturale, precostituito per legge. In altre parole, si arriverebbe all’intollerabile conseguenza per cui l’attore-creditore avrebbe la possibilità di rendere competente il tribunale del luogo in cui egli stesso ha il domicilio; e ciò per il semplice fatto di avere indicato arbitrariamente nella propria domanda una somma determinata.
Per cui il Supremo Collegio, in coerenza con quanto affermato in passato in altre pronunce (Cass. civ., 02.04.2014, n. 7697; tra le sentenze di merito Trib. Pisa 17.08.2016, n. 1085; Trib. Livorno 2.08.2016, n. 1030; Trib. Napoli 4.05.2016, n. 5611. In dottrina A. Luminoso, Obbligazioni di valuta e di valore, in Riv. giur. sarda, 2009, p. 830), ha statuito che al fine di rendere liquido un debito in sé illiquido, non sia sufficiente la domanda dell’attore che indichi una somma determinata, bensì debba realizzarsi il passaggio in giudicato di una sentenza che liquidi la somma dovuta.
In dottrina si è ritenuto che l’operazione richiesta dalle Sezioni Unite ai fini di determinare la competenza territoriale nella fattispecie non contraddice il principio secondo il quale si dovrebbe far riferimento esclusivamente alla domanda dell’attore: non si chiede infatti al giudice di valutare nel merito la fondatezza della domanda, ma di svolgere un mero controllo allo stato degli atti: in altre parole, il giudice dovrà valutare solo se a fondamento della pretesa dell’attore sia allegato un titolo che indichi una certa somma o, almeno, fornisca i criteri per identificarla (T. Dalla Massara, Liquidità e illiquidità, valuta e valore: per una ridefinizione dei confini concettuali, in Riv. dir.civ., 2/2018, p. 542). In caso positivo si rientra nella competenza del giudice del domicilio del creditore, altrimenti questi sarà tenuto a dichiarare la propria incompetenza in favore del tribunale del luogo in cui ha domicilio il debitore.
Debiti liquidi e debiti illiquidi – debiti di valuta e debiti di valore
Le Sezioni Unite nell’esaminare le categorie di obbligazioni liquide ed illiquide non allude mai all’ulteriore e tradizionale classificazione con riguardo alle obbligazioni pecuniarie, secondo cui si distinguerebbero debiti “di valuta” e debiti “di valore”. Tuttavia la giurisprudenza e la dottrina per decenni hanno ricondotto alla nozione di obbligazioni di valuta i debiti di somma di denaro non solo quando essi siano determinati ma anche quando siano determinabili sulla base di criteri prestabiliti, estendendo tale categoria anche ai casi in cui siano necessarie ulteriori operazioni di liquidazione per giungere a una somma certa, purché l’obbligazione sia stata concepita sin dal suo sorgere come avente ad oggetto una somma di denaro, rappresentando quest’ultima circostanza il criterio dirimente per individuare i debiti valutari (Cass. civ., 18.07.2008, n. 19958; Cass. civ., 20.01.1995, n. 634; Cass. civ., 22.06.2007, n. 14573. Tra le pronunce di merito, cfr. Trib. Genova 16.06.2015; Trib. Palermo 19.10.2012). Nella categoria dei debiti di valore rientrerebbero invece le obbligazioni in cui il denaro è un bene succedaneo, in cui esso è strumentale per la quantificazione del valore di un bene “altro”.
Ciò posto è legittimo chiedersi se sia possibile identificare il debito liquido – secondo l’attuale definizione delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione – con la nozione di debito di valuta.
Va osservato che la categoria dei debiti di valuta non si esaurisce nell’insieme dei debiti liquidi e che “non tutti i debiti illiquidi sono però debiti di valore” (v. T. Ascarelli, La moneta. Considerazioni di diritto privato. 1928, p. 231 ss.); in particolare, nella categoria di debiti di valuta “illiquidi” rientrerebbero tutti i debiti che – pur non essendo liquidabili secondo fissi criteri predeterminati – sorgono sin dall’origine come debiti di somma di denaro. Non è vero, invece, il contrario, difatti tutti i debiti di valore sono illiquidi, tant’è vero che nel momento in cui essi vengono liquidati si trasformano in debiti di valuta e vengono conseguentemente assoggettati alla disciplina propria di questi ultimi.
Ciò posto, va appurato se la nozione di liquidità elaborata dalle Sezioni Unite incida oppure no sull’applicabilità della disciplina delle obbligazioni pecuniarie di cui agli artt. 1277 c.c. ss.
Secondo l’opinione della dottrina maggioritaria – sebbene non manchino voci contrarie – la disciplina suddetta si applica esclusivamente ai debiti c.d. “di valuta”. Il terzo comma dell’art. 1182 c.c., infatti, non parla genericamente di “obbligazioni pecuniarie”, ma si riferisce espressamente a quelle “aventi ad oggetto una somma di denaro”: è evidente, allora, che occorra liberare il campo d’indagine anzitutto dalle obbligazioni di valore, focalizzando l’attenzione esclusivamente su quelle di valuta.
Ciò posto, ne consegue che la liquidità o non dell’obbligazione rileva fondamentalmente al fine di determinare in quale luogo essa debba essere adempiuta e, dunque, di individuare il forum destinatae solutionis, nonché al fine dell’operatività della mora ex re di cui all’art. 1219, comma 2, n. 3, c.c..
E torniamo, quindi, a tali aspetti su cui direttamente si è pronunciata la sentenza del 2016.
Quanto alla mora del debitore, com’è noto, l’art. 1219, co. 2°, n. 3 c.c. esclude la necessità della costituzione in mora “quando è scaduto il termine, se la prestazione deve essere eseguita al domicilio del creditore”. Secondo il ragionamento seguito dalle Sezioni Unite, laddove in tale categoria si facessero rientrare anche le obbligazioni pecuniarie illiquide, il debitore si troverebbe automaticamente costituito in mora anche quando la prestazione dovuta risulti ancora incerta e quindi quando non sappia quanto effettivamente deve corrispondere. Si tratterebbe di una conclusione inaccettabile, in quanto contraria al sistema, il quale esclude la responsabilità del debitore la cui prestazione sia impossibile per causa a lui non imputabile (art. 1218 c.c.) ed in quanto in contrasto con il principio del favor debitoris, che impone di considerare il debitore in mora solo quando l’obbligazione abbia un ammontare certo o facilmente accertabile; conclusione che pertanto la giurisprudenza della stessa Corte esclude, negando che la mora automatica si verifichi anche per i crediti illiquidi.
La lettura restrittiva e rigorosa a cui le Sezioni Unite hanno scelto di aderire si giustifica anche nell’intento di assicurare una protezione al debitore, quale ratio ispiratrice della disciplina generale del quarto comma: tale assunto impone di ancorare la liquidità del credito a dati oggettivi, quali la determinazione contrattuale o la liquidazione operata dal giudice, svincolando l’esistenza di tale presupposto al mero arbitrio del creditore, nel quale si ricadrebbe laddove si riservasse a quest’ultimo il compito di definire o meno nell’ambito della domanda l’importo della somma dovuta.
Vero è che l’interpretazione della Corte si presta ad inevitabili e discutibili critiche.
Si è infatti osservato che un’interpretazione così restrittiva non troverebbe alcun riferimento normativo, giacché il terzo comma dell’art. 1182 c.c. si riferisce semplicemente all’obbligazione “avente ad oggetto una somma di denaro”, senza la necessità di ulteriori requisiti, quali la liquidità o l’esigibilità del credito, richiesti invece dalla giurisprudenza; condurrebbe ad un’eccessiva protezione del debitore, con conseguente sacrificio del creditore, ad esempio nelle ipotesi in cui il primo non collabori nella determinazione del quantum, costringendo così il secondo a citarlo in giudizio in un foro diverso dal proprio, con tutto ciò che ne consegue, anche sotto il profilo dei costi.
Tuttavia deve ritenersi che la scelta della giurisprudenza, e da ultimo delle Sezioni Unite del 2016, di aderire all’interpretazione più restrittiva dell’art. 1182, co. 3°, c.c. va incontro ad interessi di carattere processualistico: vale a dire la preoccupazione di contenere le ipotesi in cui il creditore possa convenire in giudizio il debitore di una somma di denaro davanti al proprio foro, con tutti i vantaggi che questo comporta.
Deve essere il solo dato oggettivo della liquidità del credito a radicare la controversia presso il forum creditoris, e non il mero arbitrio del creditore, il quale scelga di indicare una determinata somma come oggetto della sua domanda giudiziale, con conseguente lesione anche del principio costituzionale del giudice naturale precostituito per legge. Se così non fosse si attribuirebbe al creditore il diritto di scegliere non solo il luogo di adempimento dell’obbligazione, ma anche il foro a lui più conveniente nell’ipotesi di contenzioso.