Locazione finanziaria: disciplina applicabile, “la teoria della prevalenza o la combinazione”?
di Saverio Luppino, Avvocato Scarica in PDFCassazione civile, Sez. I, Ordinanza del 05.05.2022 n. 14212, Pres. A. Scaldaferri, Est. L. Nazzicone
Massima: “Ai contratti atipici o socialmente tipici, al pari che ai contratti misti, si applicano non soltanto le regole dettate per il contratto in generale, ma anche quelle del contratto tipico, nel cui schema siano riconducibili gli elementi prevalenti del negozio, senza escludere, peraltro, la rilevanza giuridica degli altri elementi, che sono voluti dalle parti e concorrono a fissare il contenuto e l’ampiezza del vincolo contrattuale, ai quali si applicano le norme proprie del contratto cui essi appartengono, in quanto compatibili con quelle del contratto prevalente”.
CASO
La Corte d’Appello di Catania rigettava l’appello principale e incidentale, contro la decisione di primo grado, che aveva accolto la domanda di risarcimento del danno proposta dalla Società Alfa contro Tizio in merito al mancato rilascio dello stabilimento industriale concesso in locazione finanziaria alla Società Beta e da questa società sublocato al predetto Tizio.
La sentenza impugnata riteneva che nessun vizio di ultrapetizione della prima decisione sussistesse, avendo la concedente chiesto l’accertamento dell’illegittima detenzione dello stabilimento, a seguito della risoluzione del contratto di locazione finanziaria e, conseguentemente, del contratto di sublocazione.
Nel merito, la corte catanese rilevava che l’art. 10 delle condizioni generali del contratto di leasing contenesse l’espresso divieto contrattuale di concedere il bene in sublocazione, clausola assolutamente valida, ad integrazione della disciplina generale della vendita con riserva di proprietà ed in assenza di una compiuta regolamentazione normativa della figura; pertanto, prima dell’esercizio dell’opzione di acquisto contrattuale, la conduttrice non aveva il potere di sublocare il bene, né poteva applicarsi la disciplina di cui all’art. 1524 c.c., comma 2, relativo ai beni mobili.
Inoltre, i giudici del gravame evidenziavano che il contratto di leasing si fosse risolto a seguito della comunicazione della concedente di volersi avvalere della clausola risolutiva espressa, e di conseguenza, ai sensi dell’art. 1595 c.c., il contratto di sublocazione veniva automaticamente caducato in virtù della risoluzione del primo negozio.
Pertanto, la concedente aveva diritto al risarcimento del danno da mancata restituzione del bene, a decorrere dalla risoluzione del contratto e sino alla riconsegna, secondo il valore locativo accertato dal CTU, e senza che, al riguardo, assuma rilievo la circostanza del rifiuto della concedente di vendergli il bene, pur in seguito venduto a terzi a prezzo superiore: invero, nessuna condotta concorrente della danneggiata era individuabile ex art. 1227 c.c., comma 2, non gravando sulla stessa nessun obbligo a contrarre al riguardo.
Avverso questa sentenza ricorreva per cassazione Tizio, sulla base di quattro motivi. Resisteva con controricorso la società Alfa.
SOLUZIONE
La Corte di Cassazione rigettava il ricorso e condannava il ricorrente al pagamento delle spese processuali in favore della controricorrente.
QUESTIONI
Con il primo motivo, il ricorrente deduceva la violazione e la falsa applicazione degli artt. 1322, 1523 e 1524 c.c., in quanto la corte territoriale, pur avendo correttamente qualificato il leasing come contratto traslativo, non applicava l’art. 1524 c.c., secondo cui il contratto sarebbe stato inopponibile al subconduttore perché non trascritto nell’apposito registro, tanto che non avrebbe potuto reputarsi efficace la clausola contrattuale sul divieto di sublocazione.
Secondo la Corte di legittimità il motivo era infondato, poiché la disposizione dell’art. 1524 c.c. si applica, per lettera e per ratio normativa, ai soli beni mobili poiché la vendita di un bene mobile con riserva di proprietà può essere validamente stipulata anche verbalmente; pertanto, il legislatore ha previsto l’atto scritto come necessario unicamente ai fini dell’opponibilità della detta riserva di proprietà ai creditori del compratore.
Secondo i giudici di legittimità quindi la sentenza impugnata interpretava correttamente la norma.
Oltretutto, anche se risulta sufficiente per concedere in locazione il bene la mera disponibilità di fatto dello stesso, purché in base a titolo non contrario a norme di ordine pubblico e la detenzione non sia stata acquistata illecitamente, resta in ogni caso la subordinazione del rapporto di sublocazione alla sorte del rapporto principale, quale contratto c.d. derivato, figura da ricondurre allo schema più generale del “collegamento tipico” tra negozi, in quanto previsto dalla legge[1].
Pertanto, se il contratto di locazione principale viene meno, per qualsiasi motivo, anche il contratto di sublocazione subirà la medesima fine, con la conseguenza che il subconduttore potrà lamentare eventuali pregiudizi subiti soltanto verso il suo diretto dante causa.
In ogni caso, il subconduttore sarà responsabile a titolo extracontrattuale nei confronti della società di leasing locatrice, per occupazione senza titolo del relativo immobile, tutte le volte che sia accertata la ritardata restituzione dell’immobile locato[2].
Con il secondo motivo, Tizio deduceva la violazione e la falsa applicazione degli articoli 1322, 1323, 1458 e 1595 c.c., perché, secondo il ricorrente, il leasing traslativo è un contratto atipico, al quale si possono applicare solo le norme generali sul contratto e quelle che regolano la vendita con riserva di proprietà, non invece la disciplina relativa al contratto di locazione, art. 1595 c.c..
Oltretutto, ai sensi dell’art. 1458 c.c., i diritti acquistati da terzi prima della risoluzione del leasing non sono pregiudicati e tale è quello del subconduttore, essendosi, perciò, la sublocazione protratta sino alla sua naturale scadenza, con rinnovazione tacita, ed essa era ancora in corso quando il bene è stato spontaneamente rilasciato.
Uno dei principi cardine del diritto civile è senz’altro l’autonomia contrattuale, la quale, stando alla disciplina prevista all’art. 1322, comma 2, c.c., si concreta nel potere dei privati di concludere contratti diversi da quelli previsti e disciplinati dalla legge (cd. contratti atipici o innominati)[3].
La figura dei contratti atipici fa sorgere due distinte questioni: le condizioni di ammissibilità degli stessi e la disciplina applicabile a tali contratti.
Per quanto riguarda l’ammissibilità di tali negozi, il legislatore, all’art. 1322, comma 2, c.c., ha previsto la possibilità della validità ed efficacia anche dei contratti atipici nel momento in cui questi siano diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico.
Relativamente alla disciplina applicabile ai contratti atipici, quest’ultimi risultano regolati, oltre che dalle clausole pattuite dalle parti, anche dalla disciplina generale del contratto, poiché l’art. 1323 c.c. prevede che tutti i contratti, quantunque non appartengano ai tipi che hanno una disciplina particolare, sono sottoposti alle norme generali contenute nel Titolo II^ (Dei contratti in generale) del codice civile.
Oltre che la disciplina generale dei contratti, come affermato anche dalla Corte di legittimità, l’interprete è tenuto ad applicare anche le norme specifiche dei contratti tipici con i quali presentino elementi di affinità.
In dottrina e giurisprudenza sono state elaborate due tesi per determinare il regolamento concreto dei contratti atipici: la teoria della prevalenza o assorbimento e la teoria della combinazione.
Per la prima, la c. d. teoria della prevalenza o assorbimento, il contratto atipico deve essere disciplinato con l’ausilio delle norme previste per il tipo di contratto al quale appartengono gli elementi prevalenti, pertanto, il regolamento dell’intero contratto atipico deve essere individuato applicando soltanto la disciplina del contratto tipico che risulta in concreto prevalente; la seconda teoria, c.d. della combinazione, prevede che ogni elemento da cui è costituito il contratto atipico deve essere disciplinato dalle norme stabilite per il contratto tipico corrispondente agli stessi.
Gli Ermellini, sul punto, evidenziavano infatti come “ai contratti atipici o socialmente tipici, al pari che ai contratti misti, si applicano non soltanto le regole dettate per il contratto in generale, ma anche quelle del contratto tipico, nel cui schema siano riconducibili gli elementi prevalenti del negozio (cosiddetta teoria dell’assorbimento o della prevalenza), senza escludere, peraltro, la rilevanza giuridica degli altri elementi, che sono voluti dalle parti e concorrono a fissare il contenuto e l’ampiezza del vincolo contrattuale, ai quali si applicano le norme proprie del contratto cui essi appartengono, in quanto compatibili con quelle del contratto prevalente”[4].
Pertanto, alla locazione finanziaria, secondo la Corte di legittimità può essere certamente applicato l’art. 1595 c.c., ove se ne riscontrino gli elementi concreti propri della locazione ordinaria, non contrastanti con le clausole del contratto di locazione finanziaria e non divergenti dal suo schema normativo.
Del tutto corretta era stata l’applicazione, ad opera dei giudici catanesi, della disciplina dell’art. 1595 c.c., secondo la quale la subconduzione comporta la nascita di un rapporto obbligatorio derivato, la cui sorte dipende da quella del rapporto principale di conduzione, con il risultato che la nullità o la risoluzione del contratto di locazione hanno effetto anche nei confronti del subconduttore.
Di conseguenza, il contratto di sublocazione dipende, per ogni aspetto, dal rapporto principale tra locatore e conduttore-sublocatore, così, venendo meno il contratto di locazione, il conduttore non avrà più un titolo giuridico per sublocare ed il subconduttore per conservare il godimento del bene.
In definitiva, secondo la Corte di Cassazione tale motivo di ricorso risultava manifestamente infondato.
Con la terza doglianza, il ricorrente asseriva in primis la violazione dell’art. 112 c.p.c., poiché il giudice del gravame aveva dichiarato la risoluzione del leasing senza che vi fosse stato un accertamento giudiziale al riguardo e senza che la questione formasse oggetto di domanda di parte; in secondo luogo lamentava la violazione e falsa applicazione degli artt. 1218, 1456 c.c. e L. Fall., art. 99, per avere la corte territoriale ritenuto un giudicato derivante dalla sentenza del giudizio di opposizione al passivo fallimentare; per ultimo il ricorrente sollevava la presunta violazione e falsa applicazione degli artt. 1218, 1456 c.c. e l’omesso esame di fatto decisivo, per non essere mai stato accertato l’inadempimento colpevole ad opera della conduttrice.
Il Supremo Collegio, tuttavia, emendava quanto dichiarato dal ricorrente, poiché al giudice del merito era stato domandato l’accertamento dell’illegittima detenzione dello stabilimento in capo al subconduttore e di condannare lo stesso al corrispondente pregiudizio cagionato e su tanto la sentenza aveva deciso, con conseguente radicale insussistenza del vizio di mancata corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato.
Sulla pronuncia resa in sede fallimentare la corte territoriale non aveva, invece, in alcun modo affermato il giudicato esterno sul punto.
L’ultima parte del motivo riguardava, secondo la Cassazione, una questione inammissibile, in quanto non oggetto del presente giudizio, relativa alla verifica dell’imputabilità dell’inadempimento. Infatti nessun previo accertamento anteriore al presente giudizio era necessario in merito, oltre che il ricorrente non aveva allegato eccezioni fondate in merito all’inapplicabilità della risoluzione contrattuale tra le parti del leasing.
Con il quarto e ultimo motivo, il ricorrente deduceva la violazione e la falsa applicazione dell’art. 1227 c.c., degli artt. 115, 116 e 132 c.p.c., oltre all’omesso esame di fatto decisivo, in quanto il giudice del merito avrebbe dovuto considerare il concorso del debitore all’aggravamento del danno, dato che il ricorrente stesso si era offerto di comprare il capannone, ma il rifiuto della controparte aveva prodotto ad essa il danno da mancato tempestivo rilascio del bene.
Sul punto, tuttavia, i giudici di Piazza Cavour ritenevano inammissibile la censura poiché costituisce principio consolidato che l’accertamento dei presupposti per l’applicabilità della disciplina di cui all’art. 1227 c.c., comma 2, integra un’indagine di fatto, come tale riservata al giudice di merito e sottratta al sindacato di legittimità[5].
Alla luce di tutto quanto esposto, la Corte di Cassazione rigettava integralmente il ricorso proposto da Tizio.
[1] Cfr. ex multis Cass. civ., Sent n. 22346/2014.
[2] Cfr. Cass. civ., Ord. n. 24821/2019.
[3] Per approfondimenti, in via autoreferenziale, S. Luppino, “Autonomia contrattuale e rinegoziazione”, Giuffrè, 2022
[4] Cfr. Cass. civ., Ord. n. 26485/2019.
[5] Cfr. ex multis Cass. civ., Ord. n. 3319/2020.
Centro Studi Forense - Euroconference consiglia