L’obbligazione di pagamento del canone di locazione è debito di valuta e quindi non è soggetto ad automatica rivalutazion
di Saverio Luppino, Avvocato Scarica in PDFCorte di Cassazione, Sezione 6-3, Civile, Ordinanza 8 luglio 2020 n. 14158, Pres. Dott. Frasca Raffaele, Est. Dott.ssa Gorgoni Marilena.
Massima: “L’obbligazione di pagamento dei canoni di locazione costituisce un debito di valuta e, come tale, non è suscettibile di automatica rivalutazione per effetto del processo inflattivo della moneta; pertanto, spetta al creditore di allegare e dimostrare il maggior danno derivato dalla mancata disponibilità della somma durante il periodo di mora e non compensato dalla corresponsione degli interessi legali ex art. 1224, comma 2, c.c.”.
CASO
Il ricorrente Tizio esponeva in fatto che il Tribunale di Sant’Angelo dei Lombardi aveva rigettato la sua domanda di risarcimento danni avanzata nei confronti dei rispettivi professionisti incaricati dell’esecuzione del progetto di una struttura alberghiero-ristorativa nell’area, rispettivamente Caio e Sempronio.
La Corte d’Appello di Napoli, competente del giudizio di gravame, con sentenza accoglieva parzialmente l’appello di Tizio e condannava Caio al pagamento di Euro 7.200,00, oltre agli interessi dalla sentenza al saldo, di Euro 1.700,00 pari alla metà delle spese del giudizio di primo grado e di Euro 2.470,00, per la metà delle spese del giudizio di appello, confermando nel resto la sentenza impugnata e dichiarando non ripetibili le spese di appello nei confronti di Sempronio, rimasto contumace.
Tizio ricorreva dunque al giudizio di Cassazione ed il relatore designato, avendo ritenuto sussistenti le condizioni per la trattazione ai sensi dell’articolo 380-bis c.p.c., redigeva proposta, che veniva ritualmente notificata, unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza della Corte.
SOLUZIONE
La Suprema Corte di Cassazione rigettava il ricorso proposto da Tizio dichiarandolo inammissibile.
QUESTIONI
Preliminarmente all’analisi dei motivi di ricorso, gli Ermellini rilevarono come l’esposizione del fatto fosse gravemente carente, in quanto il ricorrente avrebbe omesso di indicare: le ragioni della domanda proposta; lo svolgimento del giudizio di primo grado; le ragioni della decisione assunta dal giudice di primo grado.
A fronte di tale mancanza, se ne concluse che il ricorso non fosse rispettoso del requisito dell’esposizione sommaria dei fatti[1] che, essendo considerato da tale norma come uno specifico requisito di contenuto-forma del ricorso, deve consistere in una esposizione “che sia capace di garantire alla Corte di cassazione di avere una chiara e completa cognizione del fatto sostanziale che ha originato la controversia e del fatto processuale, senza dover ricorrere ad altre fonti o atti in suo possesso, compresa la stessa sentenza impugnata”[2]. Venne inoltre specificato che tale prescrizione trova la propria ratio non nell’esigenza di mero formalismo, ma in quella di consentire una conoscenza chiara e completa dei fatti di causa, sostanziali e/o processuali, che permetta ai giudici di legittimità di cogliere il significato e la portata delle censure rivolte al provvedimento impugnato[3].
Tanto precisato, affinchè possa essere soddisfatto il requisito imposto dall’articolo 366 c.p.c., comma 1, n. 3, diviene imperativo che il ricorso per cassazione contenga, senza particolari gradi di specificazione o minuzia di dettagli, “l’indicazione sommaria delle reciproche pretese delle parti, con i presupposti di fatto e le ragioni di diritto che le hanno giustificate, delle eccezioni, delle difese e delle deduzioni di ciascuna parte in relazione alla posizione avversaria, dello svolgersi della vicenda processuale nelle sue articolazioni e, dunque, delle argomentazioni essenziali, in fatto e in diritto, su cui si e’ fondata la sentenza di primo grado, delle difese svolte dalle parti in appello, ed infine del tenore della sentenza impugnata”.
Proseguendo nella disamina delle ragioni del ricorso, in via gradata, con il primo motivo il ricorrente denunciò l’omesso esame della CTU redatta da Caio nell’ambito del giudizio di appello, ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 5. Infatti, nell’opinione del ricorrente, la CTU avrebbe rilevato l’esistenza di errori imputabili ai due professionisti che avevano determinato la mancata approvazione della pratica e la revoca dell’assegnazione dei lotti ed aveva quantificato il danno derivante dalla mancata assegnazione dei lotti in Euro 25.610,00, tuttavia, la voce di danno sarebbe stata completamente disattesa dal giudice, senza alcuna valida giustificazione.
Venne tuttavia rilevato che il primo motivo, proprio a causa delle insufficienze già segnalate in ordine all’esposizione del fatto, non venne ritenuto apprezzabile in termini di decisività, non ponendo l’adito Collegio nella posizione di comprendere se quanto riprodotto avesse un qualche rilievo rispetto a quanto la Corte di merito, che fra l’altro esclude una integrazione della C.T.U., ha motivato, e nemmeno riportò l’indicazione del se e del dove sarebbe esaminabile la C.T.U., giacchè non la si dice prodotta in copia e nemmeno se ne dichiara la sua presenza nel fascicolo d’ufficio[4].
Con il secondo motivo il ricorrente censurò la sentenza della Corte territoriale per violazione dell’articolo 132 c.p.c., comma 2, n. 4, in relazione all’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 4.
L’assunto del ricorrente fu che il giudice a quo non avesse esaminato l’iter argomentativo del giudice di prime cure e che non avesse effettivamente sottoposto a scrutinio gli elementi di prova ed i fatti emersi nel corso del giudizio, giudicando sull’operatività delle norme giuridiche che sarebbero state applicate dal giudice di primo grado, assecondandone l’assunto secondo cui non sarebbe stato provato che nell’ambito dell’incarico conferito ai professionisti rientrasse l’attività materiale del deposito del progetto e della documentazione a suo corredo presso le amministrazioni interessate. Mancando un autonomo processo deliberativo, essendo stata la sentenza di appello motivata per relationem alla sentenza di primo grado, attraverso una generica condivisione della medesima ricostruzione in fatto e in diritto, senza alcun esame critico delle stesse in base ai motivi di appello, il ricorrente riteneva che la sentenza si sarebbe dovuta considerare nulla.
Anche il secondo motivo venne tuttavia valutato come inammissibile alla stregua del principio di diritto secondo cui “in tema di ricorso per cassazione, ove la sentenza di appello sia motivata per relationem alla pronuncia di primo grado, al fine di ritenere assolto l’onere ex articolo 366 c.p.c., n. 6, occorre che la censura identifichi il tenore della motivazione del primo giudice specificamente condivisa dal giudice di appello nonche’ le critiche ad essa mosse con l’atto di gravame, che e’ necessario individuare per evidenziare che, con la resa motivazione, il giudice di secondo grado ha, in realta’, eluso i suoi doveri motivazionali” [5].
Infine con il terzo motivo il ricorrente imputò al giudice a quo la violazione e falsa applicazione dell’articolo 1224 c.c., comma 2, in relazione all’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Il motivo venne ritenuto inammissibile ai sensi dell’articolo 360-bis c.p.c., n. 1.
Il giudice di Appello, nella ricostruzione dei fatti fornita, avrebbe accertato che Caio aveva preso in locazione dall’odierno ricorrente un immobile uso ufficio e che non aveva pagato i relativi canoni di locazione, condannando lo stesso al pagamento dei suddetti, ma avrebbe violato l’articolo 1224 c.c., comma 2, in tema di rivalutazione ed interessi, conglobando nella condanna di pagamento canoni ed interessi e quindi in violazione della norma.
In ordine al terzo motivo, la cassazione è costante nel ritenere che l’obbligazione di pagamento dei canoni di locazione costituisce un debito di valuta [6] e come tale non suscettibile di automatica rivalutazione per effetto del processo inflattivo della moneta, ma necessita che il richiedente debba dedurre e provare il “maggior danno” derivatogli dall’impossibilità di disporre della somma di denaro durante il periodo della mora[7].
Nel caso di specie, il ricorrente non fornì prove del maggior danno nè dedusse di aver allegato e dimostrato l’esistenza del maggior danno derivato dalla mancata disponibilità della somma durante il periodo di mora, non compensato dalla corresponsione degli interessi legali previsti con funzione risarcitoria in misura forfettariamente predeterminata dall’articolo 1224 c.c., comma 1. Costituisce ius receptum, infatti, che in caso di inadempimento o di ritardato adempimento dell’obbligazione la rivalutazione monetaria del credito può essere riconosciuta, semprechè il creditore alleghi e dimostri sensi dell’articolo 1224 c.c., comma 2, che, sostituendosi al danno presunto costituito dagli interessi legali, “è idonea a reintegrare totalmente il patrimonio del creditore, sicche’ non possono essere riconosciuti gli interessi sulla somma rivalutata, se non dal momento della sentenza con cui, a seguito e per effetto della liquidazione, il credito – divenuto liquido ed esigibile produce interessi corrispettivi ai sensi dell’articolo 1282 c.c.”[8].
Nella sentenza impugnata, la Corte d’appello ha riconosciuto a carico del resistente l’inadempimento dell’obbligo di pagamento dei canoni di locazione per un quinquennio, perciò, in sintonia con la giurisprudenza di legittimità ha rivalutato all’attualità la somma corrispondente ai canoni dovuti e sulla somma rivalutata, in assenza evidentemente di prova del maggior danno, ha provveduto a stabilire la produzione degli interessi corrispettivi al tasso legale dalla sentenza al saldo.
[1] Prescritto a pena di inammissibilità del ricorso per cassazione dall’articolo 366 c.p.c., comma 1, n. 3.
[2] Cass., Sez. un., 18/05/2006 n. 11653.
[3] Cass., Sez. Un., 20/02/2003 n. 2602.
[4] come ammette Cass., sez. un., 03/11/2011, n. 22726 –
[5] Cass., Sez., Un., 20/03/2017, n. 7074.
[6] Cass. 29/09/2015, n. 19222.
[7] Cass. 02/02/1995, n. 1239.
[8] Cass. 12/11/2019, n. 29212.
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