Licenziamento per giusta causa del dipendente in malattia
di Evangelista Basile Scarica in PDFCorte di Cassazione, Sezione Lavoro, 10 febbraio 2017, n. 3630
Licenziamento – giusta causa – dipendente in malattia – sorpreso a lavorare nell’azienda di famiglia – sussiste
MASSIMA
Deve ritenersi legittimo il licenziamento per giusta causa del dipendente che mentre si trova in malattia è sorpreso dall’investigatore privato ingaggiato dal datore a lavorare nell’azienda di famiglia dovendosi ritenere leso in modo irrimediabile il vincolo fiduciario, anche in ragione del carattere doloso desumibile dalla prima negazione dei fatti, laddove il giudice del merito ha effettuato una valutazione complessiva della condotta anti doverosa senza limitarsi alla considerazione dell’incidenza dell’attività lavorativa sui tempi di guarigione
COMMENTO
La questione oggetto di commento riguarda il licenziamento per giusta causa di un lavoratore che, assente dal lavoro per infortunio, veniva sorpreso dal datore di lavoro – attraverso l’impiego di una agenzia investigativa – a lavorare nel negozio della moglie. Nonostante infatti l’aiuto alla consorte non avesse aggravato le condizioni fisiche del dipendente e quindi il suo rientro in azienda, la società procedeva ciò nonostante con un provvedimento esclusivo nei confronti dello stesso.
Investita della questione, la Suprema Corte ha ribadito il proprio orientamento giurisprudenziale per cui l’art. 2 St. Lav. non preclude al datore di lavoro di ricorrere ad agenzie investigative – purché non si sconfini nella vigilanza dell’attività lavorativa vera e propria – restando giustificato il loro intervento anche in ragione del solo sospetto che illeciti siano in corso di esecuzione. Sul tema, inoltre, la Corte richiama Cass. n. 25162/2014, secondo cui l’art. 5 St. Lav. non esclude che il datore possa procedere ad “accertamenti di circostanze di fatto atte a dimostrare l’insussistenza della malattia o la non idoneità di quest’ultima a determinare uno stato d’incapacità lavorativa e, quindi, a giustificare l’assenza”. Osservava la Corte di Cassazione, infatti, come la Corte d’appello avesse del tutto correttamente ritenuto che la condotta del lavoratore avesse integrato “una grave negazione dei canoni desumibili dall’art. 2104 cc. e dal codice etico, nonché dal disposto di cui all’art. 54 lett. d) del c.c.n.l. del settore, secondo il quale è dovere del lavoratore ‘astenersi da qualunque attività – a titolo gratuito od oneroso – o da qualunque altra forma di partecipazione in imprese ed organizzazioni di fornitori, clienti, concorrenti e distributori, che possano configurare conflitto di interessi con la società e astenersi altresì, in periodo di malattia od infortunio, dallo svolgere attività lavorativa ancorché non remunerata’”. La Corte d’appello, infatti, nel compiere tale valutazione, aveva “evidenziato che quello posto in essere dal lavoratore era comportamento grave, incidente sul dovere fondamentale del dipendente di rendere la prestazione di lavoro e lesivo del vincolo fiduciario, anche in ragione del carattere doloso, desumibile anche dalla prima negazione dei fatti”.
Alla luce di tali considerazioni, dunque, la Corte di Cassazione rigettava il ricorso proposto dal lavoratore, confermando integralmente la sentenza di secondo grado e condannando il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Articolo tratto dalla Rivista Euroconference “IL GIURISTA DEL LAVORO”