L’eterna promessa del consenso consapevole; esigenza indifferibile del Referendum Eutanasia Legale e rischi derivanti dal ridimensionamento dell’art. 579 c.p.
di Francesco Schippa, AvvocatoIl quesito referendario del c.d. Referendum Eutanasia Legale, secondo quanto esternato dal Comitato Promotore per il tramite del proprio sito web, ha l’obiettivo di “abrogare parzialmente la norma penale che impedisce l’introduzione dell’eutanasia legale in Italia”, pur mantenendo intatta la tutela delle persone il cui status biologico, anagrafico, psichico o emotivo, non consenta di esprimere un consenso libero e consapevole[1].
In particolare, “con questo intervento referendario l’eutanasia attiva, previa valutazione del giudice in sede processuale, potrà essere consentita nelle forme previste dalla legge sul consenso informato e il testamento biologico, e in presenza dei requisiti introdotti dalla Consulta sul “Caso Cappato”, ma rimarrà punita se il fatto è commesso contro una persona il cui consenso sia stato estorto con violenza, minaccia, o contro un minore di diciotto anni. Dunque, l’esito abrogativo del referendum farebbe venir meno il divieto assoluto dell’eutanasia e le consentirebbe limitatamente alle forme previste dalla legge 219/2017 in materia di consenso informato”[2].
In effetti, incidendo sul dato letterale dell’art. 579 c.p., che prevede e punisce l’omicidio del consenziente, all’esito della manifestazione referendaria la norma incriminatrice rimarrebbe applicabile ai soli casi di cui al comma II, formulati per tutelare, per l’appunto, quella variegata e per certi sensi “difficilmente perimetrabile” gamma di soggetti la cui manifestazione del consenso a farsi uccidere non può essere, ad avviso del Legislatore, considerata integrale, consapevole, conscia o libera da condizionamenti esterni. Detto in altre parole, pur in termini esemplificativi, rimarrebbe punibile l’omicidio del consenziente c.d. “vulnerabile”, mentre sarebbe espunto dalla previsione normativa l’omicidio del consenziente teoricamente “capace” di esprimere la volontà di morire per mano altrui.
E’ chiaro il comprensibile proposito di chi promuove la campagna referendaria: superare l’anacronismo dell’impostazione per certi versi retrograda che connota l’art. 579 c.p. e suggellare la prevalenza, anche nel contesto della tutela penale del “bene vita”, di una visione personalistica della salute e dell’esistenza, probabilmente più conforme all’assetto costituzionale del nostro ordinamento, rispetto alla robusta impostazione codicistica data dal fascismo, secondo la quale salute e vita sarebbero beni collettivi, di fatto sottratti alla disponibilità del titolare[3].
Si riapre così – ed è questo forse il primo vero risultato apprezzabile dell’iniziativa referendaria – il mai sopito dibattito sull’esistenza di un diritto a morire, declinato secondo i canoni del diritto ad una “buona morte”, come fosse una conseguenza necessaria della c.d. utopia della perfetta salute, che accompagna la sincronica evoluzione della società occidentale e della scienza ivi applicata[4].
Tale dibattito, che in passato ha visto formulare le più diverse interpretazioni dell’art. 5 c.c., dell’art. 32 Cost., degli artt. 50 e 51 c.p. e, talvolta, delle letture combinate delle predette norme, oggi deve muovere da alcune novità legislative e giurisprudenziali, che riconducono a parametri prettamente giuridici quella che a lungo è apparsa agli occhi del cittadino una diatriba fondamentalmente confinata nei paradigmi della bioetica[5].
Lo status attuale del dibattito impone di tenere a mente le seguenti “novità”: la Legge 219 del 2017 sulle DAT (disposizioni anticipate di trattamento); la sentenza 242 del 2019 della Corte Costituzionale, intervenuta sul caso “DJ Fabo – Cappato”; il testo normativo base sul c.d. “suicidio assistito” approvato dalle Commissioni Giustizia e Affari Sociali della Camera; l’odierno quesito referendario.
Provando a tracciare una sintesi dello “stato dell’arte”, al netto delle predette “novità”: l’eutanasia attiva, caratterizzata da un’azione positiva che determina causalmente il decesso dell’individuo, è ad oggi vietata tanto nella versione diretta (il medico somministra il farmaco letale al paziente che ne faccia richiesta, secondo i canoni dell’omicidio del consenziente), quanto nella forma indiretta (il medico prepara il farmaco eutanasico, che viene assunto autonomamente dal paziente, che di fatto diventa un “suicida assistito”). In quest’ultimo caso, come si vedrà, esulano dal perimetro dell’illiceità penale le sole fattispecie rientranti nella casistica delineata dalla sentenza della Consulta sul caso “Dj Fabo – Cappato”[6].
L’eutanasia passiva, ricorrente quando il medico si astiene dal somministrare le cure necessarie per tenere in vita il paziente (sofferente) non è penalmente rilevante in presenza delle condizioni richiamate dalla Legge 219 del 2017; tale Legge riconosce ormai il diritto di morire rifiutando le cure e vieta qualunque tipo di accanimento terapeutico, aderendo alla tesi della scriminante proceduralizzata da applicare al medico che, nell’adempiere il dovere di rispettare la manifesta volontà del paziente, non promuova trattamenti terapeutici o li interrompa[7].
Senza mettere mano agli artt. 579 e 580 c.p., baluardi intatti (soprattutto all’epoca della novella) della criminalizzazione delle procedure eutanasiche e, in generale, delle scelte anticipate o permanenti rivolte al consensuale decesso per mano di terzi, la Legge del 2017, mediante le disposizioni degli artt. 1 e 2, introduce principi ed istituti tanto discussi, quanto apparentemente rivoluzionari, in uno Stato fortemente ancorato al dogma cattolico, muovendo dal presupposto secondo il quale nessuna cura può essere imposta contro la volontà del malato, che deve avere sempre la possibilità di rifiutare i trattamenti sanitari e di ricevere, se necessario, solo le cure palliative per alleviare le sue sofferenze[8].
In sintesi, la legge citata, oltre a introdurre un istituto “nuovo” (le DAT), ha confermato qualcosa che dottrina e giurisprudenza già avevano intravisto ed ammesso nel nostro ordinamento, alla luce dei principi costituzionali, ossia il diritto di rifiutare cure anche se necessarie quoad vitam[9].
Non appare però trascurabile che il Legislatore, nonostante l’apprezzabile intento, peccava e pecca sotto il profilo sistematico, autorizzando a certe condizioni l’eutanasia passiva, senza modificare direttamente l’art. 580 c.p.
L’intervento della Corte Costituzionale, originato dal “caso Cappato – Dj Fabo” è apparso pertanto necessario ed opportuno per comporre la crisi derivata dall’esistenza di una legge che introduceva principi potenzialmente contrastanti con l’impostazione e il tenore letterale dell’art. 580 c.p.[10]
La sentenza della Consulta, rientrante nell’alveo dei provvedimenti “normativi”, indica quattro condizioni in base alle quali una procedura eutanasica non integra il delitto di cui all’art. 580 c.p.: il paziente deve essere affetto da una malattia grave ed incurabile; il morbo non può essere superato con alcun trattamento terapeutico; il paziente è afflitto, in ragione della malattia, da tormenti e dolori intollerabili; il paziente medesimo, seppur in condizioni di grave tormento, è in grado naturalmente di intendere e volere e, pertanto, di autodeterminarsi prendendo decisioni libere e consapevoli[11].
L’intervento della Consulta è stato pertanto descritto ed identificato alla stregua di una parziale “depenalizzazione” del delitto di aiuto al suicidio[12]. In concreto: resta in vita l’art. 580 c.p. ma, alla luce dell’introduzione dei principi di cui alla Legge del 2017, deve essere esclusa la punibilità di chi, con le modalità previste dagli articoli 1 e 2 (o equipollenti condotte che risalgono a data anteriore alla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale), agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, formatosi in modo libero e autonomo, alle suddette condizioni.
La Corte Costituzionale ed il Legislatore del 2017 hanno pertanto tracciato la linea che conduce al possibile accesso alle procedure eutanasiche, entro certi limiti, ma a livello applicativo le incertezze sussistono ancora oggi, complice un Parlamento mai solerte nel legiferare per colmare i vuoti normativi e fugare i dubbi applicativi, su concrete modalità, oneri deontologici ed iter burocratici che separano il paziente sofferente dal decesso.
Ed invero, alcuni effetti tangibili del quadro da ultimo delineato, anche recenti, si sono intravisti nella (tuttora) complessa, vischiosa e quanto mai incerta dinamica amministrativa e giudiziaria concernente le scelte di fine vita del paziente destinato irreversibilmente a morire sofferente.
Da ultimo, il noto caso di “Mario” (nome di fantasia utilizzato mediaticamente nella narrazione della fattispecie), paziente di 43 anni, immobilizzato da 10 anni, che ha raccolto il primo storico “si” del competente Comitato etico per l’accesso legale al suicidio assistito, nonostante un iter travagliato: il paziente, versando nelle condizioni declinate dalla sentenza della Consulta (è tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale, è affetto da patologia irreversibile fonte di sofferenze intollerabili, è in grado di assumere decisioni libere e consapevoli, non intende avvalersi di trattamenti alternativi per il dolore e la sedazione profonda) ha chiesto a più riprese all’azienda sanitaria locale di accedere al suicidio assistito, ricevendo un primo diniego, confermato inizialmente dal Tribunale di Ancona, il quale, a marzo del 2021, aveva statuito che “non sussistono […] motivi per ritenere che, individuando le ipotesi in cui l’aiuto al suicidio può oggi ritenersi lecito, la Corte abbia fondato anche il diritto del paziente, ove ricorrano tali ipotesi, ad ottenere la collaborazione dei sanitari nell’attuare la sua decisione di porre fine alla propria esistenza; né può ritenersi che il riconoscimento dell’ invocato diritto sia diretta conseguenza dell’individuazione della nuova ipotesi di non punibilità, tenuto conto della natura polifunzionale delle scriminanti non sempre strumentali all’esercizio di un diritto”.
Il medesimo Tribunale, in composizione collegiale, solo all’esito di una seconda “fase giudiziale”, ha emesso una pronuncia di segno contrario, in data 9.6.2021, a seguito di ricorso ex art. 700 c.p.c., con la quale ha ordinato “all’ASUR Marche … di provvedere, previa acquisizione del relativo parere del Comitato etico territorialmente competente, ad accertare: a) se il reclamante … sia persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che egli reputa intollerabili; b) se lo stesso sia pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli; c) le modalità, la metodica e il farmaco … prescelti siano idonei a garantirgli la morte più rapida, indolore e dignitosa possibile (rispetto all’alternativa del rifiuto delle cure con sedazione profonda continua e ad ogni altra soluzione in concreto praticabile, compresa la somministrazione di un farmaco diverso)”[13].
A seguito della pronuncia, giunto il parere positivo del Comitato etico, mancava e manca – ad ogni modo – la definizione del processo di somministrazione del farmaco eutanasico. Si versa pertanto in una condizione parzialmente statica, una sorta di impasse. E il paziente continua ad attendere e a soffrire.
Appare tangibile, anche e soprattutto alla luce di quanto detto, ed in ragione di questo chiaro esempio pratico, che sarebbe auspicabile un intervento legislativo organico che modifichi (in senso estensivo) le norme del codice penale coinvolte in materia (art. 579 e, chiaramente, art. 580 c.p.) e le coordini con la predetta Legge 219, creando, da ultimo, un raccordo con l’iter normativo, ancora in fase embrionale, che riguarda la possibile modifica dell’art. 580 c.p.
Proprio in merito alla possibile modifica legislativa dell’art. 580 c.p. si rammenta che, come precedentemente accennato, dalla storica pronuncia della Consulta è germinato l’intento legislativo concretizzatosi nella proposta di legge, il cui testo è stato assunto nel luglio 2021 dalla Commissioni Giustizia e Affari Sociali, che riguarda – in particolare modo – la possibile modifica dell’art. 580 c.p. nei termini delineati dalla Consulta[14].
Al netto di questo auspicato intervento organico, unitario, che dovrebbe essere preceduto da una sostanziale presa di coscienza del Parlamento, come già premesso giurisprudenza e Legislatore sono intervenuti in modo inevitabilmente discontinuo e disorganico sull’art. 580 e sull’istituto delle DAT, cercando di porre rimedio alla globale inerzia parlamentare nell’abito del complesso universo del “fine vita”. Ed ecco allora che l’ultimo ostacolo non ancora coinvolto in questa tentata rivoluzione verso la personalizzazione del bene vita e dell’accesso alle procedure eutanasiche è stato individuato dai promotori della campagna referendaria nell’art. 579 c.p.
Ben venga, in tal senso, una riflessione sull’attuale coerenza costituzionale e sull’effettiva obsolescenza della norma in esame, ma dubbi permangono sul fatto che il Referendum analizzato possa contribuire a fugare i tanti dubbi pendenti in materia, piuttosto che aumentarli, o comunque ad acuirne alcuni profili.
In effetti, sarebbe stato forse opportuno – se non altro per coerenza sistematica – ridimensionare la portata applicativa dell’art. 579 c.p., non punendo genericamente “chi cagiona la morte di un uomo, col consenso di lui”, ma creando un esplicito e positivo discrimen tra i casi in cui il consenziente sia un uomo che versa in condizioni normali, non afflitto da particolari patologie e sofferenze e quelli inerenti una situazione patologica compromessa, particolarmente dolorosa, come quella disciplinata dall’ultima novella legislativa. In concreto, tale esplicito discrimen si sarebbe potuto ottenere con l’innesto nell’originario impianto precettivo di un nuovo comma avente ad oggetto tale situazione meritevole di andare esente da pena, tramite l’apposita previsione di una causa di giustificazione proceduralizzata[15]. All’atto pratico: non un referendum parzialmente abrogativo, ma un’introduzione normativa positiva ed esplicita sul medesimo art. 579 c.p.
Certo è che l’innesto normativo suindicato rappresenterebbe un’opzione tecnicamente praticabile anche se indubbiamente più complessa dell’espunzione voluta dai promotori del Referendum.
Senza avere la presunzione di disquisire in modo assertivo sulla maggiore “efficacia”, o comunque sull’opportunità, di introdurre un nuovo comma all’art. 579 c.p., piuttosto che promuovere il suddetto quesito referendario, appare possibile ritenere che, se per una qualsiasi ragione (anche di ammissibilità del quesito) la campagna referendaria dovesse naufragare, dovrebbe aprirsi una riflessione sulla possibilità e sull’urgenza di intervenire direttamente sugli articoli 579 e 580 c.p., ritagliando uno spazio di irrilevanza penale che, vista la presenza nell’ordinamento della Legge n. 219 del 2017, con quest’ultima dovrebbe necessariamente “coordinarsi”.
Ad ogni modo, la strada referendaria, seppur celebrata e stimabile sotto il profilo degli intenti, rischia – almeno in astratto – di scontrarsi con due tipi di problemi.
Il primo attiene all’ammissibilità del quesito referendario, in merito al quale si sono già espressi alcuni esperti del settore[16].
Il secondo attiene al rischio di estendere ingiustificatamente la liceità dell’omicidio del consenziente a casi che non hanno nulla a che vedere con l’esigenza di introdurre e legiferare in materia di eutanasia, con il rischio di paradossali antinomie tra l’art. 579 e l’art. 580 c.p.
In concreto: in primis, ad oggi, l’esito favorevole della campagna referendaria rischierebbe – almeno in termini sistematici – di creare una rischiosa discrasia tra la norma (tuttora vigente) di cui all’art. 580 c.p. e l’art. 579 c.p. “rimodulato”. L’omicidio consensuale del soggetto libero ed in grado di autodeterminarsi, che non è affetto da patologie, verrebbe depenalizzato, mentre – paradossalmente – continuerebbe ad essere penalmente perseguibile il medico che agevoli il suicidio del malato, se quest’ultimo non si trova nelle quattro condizioni delineate dalla Corte Costituzionale. Vista da altra prospettiva, il rischio di contraddizioni sistematiche sembrerebbe potersi riassumere nei seguenti termini: il soggetto sano e consapevole potrebbe essere lecitamente ucciso su sua richiesta, ma non potrebbe essere agevolato nel proposito suicida[17].
Peraltro, resterebbe, in questo prospettico assetto normativo, dopo aver eventualmente falcidiato l’art. 579 c.p., un problema tanto semplice nella sua ipotesi, quanto complesso nella sua risoluzione: se, come, e in che modo, si debba acquisire o comunque verificare l’effettiva autodeterminazione nell’aiuto a morire. In altre parole: realizzato l’omicidio, o la pratica di eutanasia, laddove sorgesse un dubbio in ordine al consenso prestato, quale inclinazione dovrebbe assumere il piano probatorio? Come e fino a che punto potrebbe darsi per assunto che il consenso può essere oggetto di testimonianza da parte di terzi? E come si potrebbe eventualmente sopperire a questo rischio utilizzando istituti di tipo documentale, come una scrittura redatta dal defunto?
Il problema appare quasi irrisolvibile se si pensa che il consenso, per sua definizione, deve essere prestato fino all’istante che precede l’atto che arreca nocumento e questo vale in ogni ganglio dell’ordinamento giuridico. Trattasi in altre parole di affrontare anche in questa sede il nodo cruciale dell’attualità e certezza del consenso. Ci si interroga allora su come si possa considerare certo e documentabile il consenso reso fino all’istante che precede il decesso, posto che – per definizione – in questa dinamica il diretto interessato non potrà mai confermare o negare di averlo consapevolmente prestato fino all’ultimo momento in cui ha potuto manifestare le proprie intenzioni.
E se si verificasse un errore sul consenso – dissenso, si rischierebbe forse di integrare un errore inescusabile sulla legge penale, posto che, nella struttura dell’art. 579 c.p. il consenso è elemento costitutivo della fattispecie. Insomma, il consenso dell’avente diritto come panacea dei problemi legati al drammatico quesito sul se e come interrompere le sofferenze irreversibili del malato appare quasi utopico.
E qui si interseca un ulteriore sviluppo del medesimo profilo problematico. Chi si assumerebbe la responsabilità di uccidere e di asserire di aver ucciso con il consenso del defunto, consapevole del rischio (quanto meno in senso potenziale) che un domani questo consenso possa essere messo in dubbio? Si pensi – a titolo esemplificativo – al rischio di trovarsi dinanzi ai cari del defunto che magari asseriscono che il parente non avesse espresso consapevolmente la propria facoltà di autodeterminarsi in merito al non banale quesito avente ad oggetto “vivere o morire”. Trattasi di casi difficilmente prospettabili? Forse, ma appare evidente, ancora una volta, che è quanto mai opportuno intervenire con una “proceduralizzazione” il più possibile chiara ed esaustiva che coinvolga anche i profili legati all’acquisizione e alla verifica del consenso. Difficile, chiaramente, che questo livello di “certezza” si raggiunga con la sola campagna referendaria.
Da ultimo si pone una riflessione necessaria in ordine a quello che può essere il punto di vista di chi esercita le professioni sanitarie, posto che – al netto di ogni eventuale ed ulteriore disquisizione teorica – il ruolo del medico appare incontrovertibilmente centrale ed ineludibile in materia di eutanasia (attiva o passiva che sia la sua forma). Ed invero, non si dimentichi l’insuperabilità dell’istituto dell’obiezione di coscienza (cardine dell’art. 19 del codice deontologia medica) e la sua attualità, anche nell’ambito dell’iter legislativo avente ad oggetto l’art. 580 c.p. E ancora, considerata altresì la prospettiva di dover considerare la libera coscienza del medico, attesa la depenalizzazione dell’omicidio del paziente che chiede di morire, quali oneri, quali obblighi e quali profili deontologici investirebbero la categoria dei sanitari?
Nell’apprezzare intenti ed entusiasmi di chi ha promosso la campagna referendaria, condividendone peraltro quel politico mantra radicato nelle parole del vate ideologico dei promotori, imperniato sul principio dell’ hic et nunc, al cospetto di un’ingiustificabile inerzia del sornione consesso parlamentare, resta il dubbio che le questioni concernenti il fine vita si possano esaustivamente affrontare all’interno della piattezza dicotomica di un si o di un no, soprattutto se le due alternative abbiano ad oggetto la disciplina dell’omicidio del consenziente, non già, in senso specifico, la volontà di morire del malato sofferente.
La palla passa a chi dovrà valutare l’ammissibilità del quesito, con un occhio e un orecchio rivolti all’Aula.
[1] Il quesito referendario è così formulato: volete che sia abrogato l’art. 579 c.p. (omicidio del consenziente) approvato con regio decreto 19 ottobre 1930, n. 1398, comma 1, limitatamente alle seguenti parole: “la reclusione da sei a quindici anni”; comma 2 integralmente; comma 3 limitatamente alle seguenti parole “si applicano“?
[2] https://referendum.eutanasialegale.it/il-quesito-referendario/
[3] Sul prevalere del principio di autodeterminazione in caso di “vittoria del referendum” si veda anche D. Pulitanò, Problemi del fine vita, diritto penale, laicità politica. A proposito di un referendum abrogativo, in Sistema Penale Web, 19.10.2021
[4] L. D’Avack, Verso un antidestino, biotecnologie e scelte di vita, Torino 2004, 177
[5] F. Mantovani, I trapianti e la sperimentazione umana nel diritto italiano e straniero, Milano 1974, p. 144
[6] P. Bernardoni, Ancora sul caso Cappato: qualche considerazione sulla “non puniblità” dell’aiuto al suicidio introdotta dalla Corte costituzionale, in Sistema Penale Web, 26.2.2020
[7] F. Scariato, Diritto penale e fine vita: la legge 219 tra sensatezza e illogicità, in Giurisprudenza Penale Web, 2019, 1-bis
[8] Secondo la Legge 219 del 2017 il consenso informato in merito al trattamento sanitario può essere revocato anche quando la revoca comporti l’interruzione della nutrizione e l’idratazione artificiali (per i minori ed incapaci i quali non sono in grado di autodeterminarsi viene prevista la possibilità di lasciare decidere un genitore o il tutore). Inoltre la Legge introduce il testamento biologico ovverosia la “dichiarazione anticipata di trattamento di fine vita”. Quest’ultimo si pone come strumento volto ad anticipare la volontà del soggetto non altrimenti manifestabile in caso di incapacità. Le Disposizioni Anticipate di Trattamento consentono ad ogni persona capace di intendere e di volere, in previsione di una eventuale e futura incapacità di autodeterminarsi e di esprimere le proprie convinzioni e preferenze in materia di trattamenti sanitari. Inoltre un paziente a cui è stato diagnosticato un esito infausto deve essere correttamente informato e può concordare con il proprio medico le cure a cui sottoporsi, pianificando le cure in modo condiviso. Cfr. sul punto, E. Demasi, Eutanasia, questioni di fine vita, in Altalex web, 2.4.2021, in cui l’Autrice pone a confronto normativa italiane e spagnola in materia di procedure eutanasiche.
[9] D. Pulitanò, A prima lettura. L’aiuto al suicidio dall’ordinanza n. 207/2018 alla sentenza n. 242/2019, in Giurisprudenza Penale Web, 2019, 12
[10] Testualmente, la Corte “dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 580 del codice penale, nella parte in cui non esclude la punibilità di chi, con le modalità previste dagli artt. 1 e 2 della legge 22 dicembre 2017, n. 219 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento) – ovvero, quanto ai fatti anteriori alla pubblicazione della presente sentenza nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, con modalità equivalenti nei sensi di cui in motivazione –, agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente”.
[11] Cfr. sul punto l’intervista di Giorgio Fiore per Il Mattino del 19.06.2021 al Prof. Michele Ainis
[12] A. Pugiotto, La mia vita appartiene a me, ecco perché ho firmato, in Il Riformista, 15.7.2021
[13]https://www.associazionelucacoscioni.it/wp-content/uploads/2021/06/Tribunale-Ancona-Ordinanza-Collegio.pdf
[14] Non è agevole tracciare una sintesi dell’eventuale novella, al cospetto di un burrascoso iter legis, che ha visto, come prevedibile, un continuo dibattito tra le forze politiche coinvolte, ancor prima che il testo andasse in Aula. Ancorché in modo esemplificativo, può solo osservarsi che la proposta di legge reca le disposizioni in materia di “morte volontaria medicalmente assistista” (e quindi, in concreto, in materia di eutanasia). La proposta è composta da talune disposizioni che tracciano le finalità della legge, i presupposti e le condizioni, i requisiti, la forma della richiesta e le modalità. Inoltre, prevede l’esclusione di punibilità per il personale sanitario che “applica” la procedura e l’istituzione di Comitati per l’etica nella clinica. L’obiettivo della legge sembrerebbe consistere nel consentire ad una persona, in determinati casi e a specifiche condizioni, di chiedere assistenza medica per porre fine alla propria vita. La normativa è diretta ai soggetti che siano affetti da una patologia irreversibile o da una prognosi infausta (art. 1). La proposta di legge definisce la “morte volontaria medicalmente assistita” come il decesso determinato da un atto autonomo con il quale, in esito al percorso disciplinato dalla legge, “si pone fine alla propria vita in modo volontario, dignitoso e consapevole, con il supporto e la supervisione del Servizio Sanitario Nazionale” (art. 2).
Nella prospettiva della nuovo assetto normativo, la morte volontaria medicalmente assistita sarebbe equiparabile al decesso per cause naturali. Nel testo in discussione al momento della redazione del presente contributo viene specificato che la richiesta di suicidio assistito deve “essere informata, consapevole, libera ed esplicita”, fatta per iscritto nelle forme dell’atto pubblico o della scrittura privata autenticata, e indirizzata al medico di medicina generale o al medico che ha in cura la persona. Nei casi in cui le condizioni della persona non permettano il ricorso alla richiesta scritta, verrà accettata anche la videoregistrazione alla presenza di due testimoni. Il testo unificato “disciplina la facoltà della persona affetta da una patologia irreversibile e con prognosi infausta o da una condizione clinica irreversibile di richiedere assistenza medica, al fine di porre fine volontariamente ed autonomamente alla propria vita”. Nel testo si definisce la morte volontaria medicalmente assistita come “il decesso cagionato da un atto autonomo con il quale […] si pone fine alla propria vita in modo volontario, dignitoso e consapevole, con il supporto e sotto il controllo del Servizio Sanitario Nazionale”
[15] A. Esposito, Trattamento di fine vita e sistema penale. Prospettive di riforma, Napoli, 2015, pp. 213 ss.
[16] Cfr. sul punto, l’intervista di R. Conti ad A. Pugiotto, in www.giustiziainsieme.it., 29.09.2021
[17] Cfr. in tal senso, l’intervista di M. Ievasoli a G. M. Flick, in Avvenire, 21.08.2021
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