L’esecuzione processuale indiretta nel processo civile: stato dell’arte (e prevedibili tendenze evolutive)
di Carlo Vittorio Giabardo Scarica in PDF
- – Tra i molteplici (e, mi si passi il termine, sparpagliati) interventi che la legge 6 agosto 2015, n. 132 ha effettuato sul processo civile, particolare importanza pratica riveste quello compiuto sull’art. 614 bisp.c.: disposizione, quest’ultima, giustamente salutata con grande entusiasmo all’indomani della sua prima introduzione (con la legge 69/2009), ma la cui originaria formulazione non si può certo dire avesse meritato – sul versante strettamente operativo – l’attenzione spesso esagerata riservatagli dalla dottrina. Come noto, infatti, il testo inziale prevedeva – al di là delle altre limitazioni (v. infra, punto 3) – che il giudice potesse pronunciare la sanzione pecuniaria prevista solo ove condannasse il soccombente a tenere un comportamento di fare infungibile o di non fare. Ed è in questo che va ravvisata la ragione principale, ancorché non l’unica, del suo insuccesso: nonostante, infatti, gli apprezzabili sforzi da parte sia della giurisprudenza di merito, sia della dottrina tesi ad allargare le strette maglie della norma leggendo in maniera estensiva il requisito dell’infungibilità (Trib. Santa Maria Capua Vetere (ord.), 21 aprile 2015, in www.ilcaso.it; Trib. Terni, 6 agosto 2009, in Giur. It., 2010, 644 e seg.; Mazzamuto, La comminatoria di cui all’art. 614 bis c.p.c. e il concetto di infungibilità processuale, in Eur. e Dir. Priv., 2009, 947 e seg.), fino a non tenerne pressoché conto (Trib. Siena, 11 novembre 2013 e Trib. Livorno – sez. dist. di Cecina – 4 aprile 2011, in Foro It., 2014, I, 1980 con nota di Mondini), l’istituto ha avuto scarsa applicazione nelle aule di giustizia. A rimedio, il nuovo testo in vigore stabilisce ora che le misure coercitive siano applicabili in tutti i casi in cui il giudice pronunci un provvedimento di condanna «all’adempimento di obblighi diversi dal pagamento di somme di denaro», aprendo la strada a un impiego, questa volta sì, veramente “generalizzato” dell’esecuzione processuale indiretta (per una primissima applicazione a una condanna a rilasciare l’immobile in un caso di sfratto per finita locazione – attività fungibile par exellence ex art. 657 c.p.c. e seg. – cfr. Trib. Busto Arsizio, 17 dicembre 2015, in www.ilcaso.it.).
- – La menzionata modifica legislativa ha portato una serie di conseguenze che vale la pena passare in rassegna.
Appurato che il riferimento testuale al «provvedimento di condanna» va inteso in senso lato, e quindi comprensivo delle ordinanze pronunciate al termine del processo sommario di cognizione ex art. 702 bis c.p.c. (da ultimo, Trib. Avezzano, 1 marzo 2016), e dei provvedimenti cautelari (per tutti, cfr. Trib. Reggio Emilia, 15 aprile 2015 (ord.) in Giur. It., 2015, 2382 e seg. con nota di Frus, La coercibilità indiretta della misura cautelare ed i rimedi a disposizione di chi la subisce), va ora aggiunto che, per effetto della recente modifica del 2015, possono essere assistiti da misure coercitive anche i decreti ingiuntivi e le ordinanze anticipatorie di condanna ex artt. 186 bis e seg., ma solo in quanto abbiano ad oggetto «una determinata quantità di cose fungibili» o la «consegna di una cosa mobile determinata», secondo la dicitura dell’art. 633 c.p.c. (così anche Rampazzi, Attuazione degli obblighi di fare infungibile o di non fare, in Besso, Frus, Rampazzi, Ronco (a cura di), Trasformazioni e riforme del processo civile, Bologna, 2015, 359 e seg.).
Dubbi sussistono circa l’applicabilità di misure coercitive alla sentenza con la quale il giudice tiene luogo del consenso mancante in caso di inadempimento del contratto preliminare, ai sensi dell’art. 2932 c.c. Se la risposta sotto il vecchio testo dell’art. 614 bis c.p.c. non poteva che essere negativa, stante la chiara fungibilità dell’obbligo in questione (dato che l’attività della parte è palesemente surrogabile dall’opera del giudice per espressa voluntas legis), dopo la cancellazione del requisito dell’infungibilità potrebbe ora recuperarsi la suggestiva opinione di chi, fin dall’inizio, ipotizzava una pronuncia giudiziale a due capi, cumulati e in via non alternativa tra loro: uno “classico” costitutivo, e l’altro di condanna della parte a “firmare” il contratto, sotto minaccia di misure coercitive (Consolo, Una buona “novella” al cod. proc. civ.: la riforma del 2009 (con i suoi artt. 360 bis e 614 bis) va ben al di là della sola dimensione processuale, in Corr. Giur., 2009, 741). Con l’evidente vantaggio, in quest’ultimo caso, di non dover più attendere il passaggio in giudicato della sentenza che produca gli effetti del contratto non concluso, necessario – come da insegnamento tradizionale – per il prodursi di effetti delle pronunce costitutive (Cass., 3 settembre 2007, n. 18512, in Giur. It., 2008, 947 con nota di Conte).
Parimenti dovrebbe negarsi ogni dubbio, ora, anche in merito all’estensione delle misure coercitive ai provvedimenti aventi ad oggetto la consegna e l’affidamento dei minori. Non è questa la sede per ripercorrere la ricca elaborazione teorica e pratica sul delicatissimo tema (per approfondimenti, cfr. Consales, L’attuazione dell’obbligo di consegna dei minori: orientamenti dottrinali e giurisprudenziali, in Riv. Es. Forz., 2002, 484 e seg.). Basti ricordare che laddove si intendeva negare l’applicabilità dell’art. 614 bis c.p.c. a tali tipologie di comandi, lo si faceva – ancora una volta – argomentando la fungibilità dell’obbligo di consegna del minore, con le varie forme esecutive già previste dal codice di rito; caduto questo requisito, le conseguenze non possono che essere opposte: con il beneficio “psicologico” dell’evitare il trauma dell’esecuzione su una persona, secondo le forme concepite, invece, per i beni (per convincenti argomenti a favore già sotto la vecchia formulazione, Ronco, L’art. 614 bis c.p.c. e le controversie in materia di famiglia, in Giur. It., 2014, 758 e seg., spec. 762 e seg.).
Un breve cenno merita anche la questione dell’estensione dell’art. 614 bis c.p.c. ai lodi arbitrali rituali (esclusi quelli irrituali, così come gli accordi di mediazione o negoziazione, comunque intesi, aventi natura sostanzialmente contrattuale). A questo proposito, il riferimento testuale al «giudice» non parrebbe dirimente, e andrebbe valorizzato, piuttosto, il fatto che il nostro ordinamento, come altri, va nella direzione di una sempre più completa equiparazione tra giurisdizione statale ed extrastatuale, con conseguente estensibilità dell’articolo in questione, purché le parti non l’abbiano espressamente esclusa (Besso, L’art. 614 bis c.p.c. e l’arbitrato, in Giur. It., 2014, 763 e seg. Più dubbioso, invece, Chiarloni, L’esecuzione indiretta ai sensi dell’art. 614 bis c.p.c., ibidem, 736, per il quale tale facoltà, invece, spetterebbe solo ove previsto dalla convenzione).
- – Il giudice – fatti salvi tutti gli altri requisiti – è tenuto a pronunciare misure coercitive solo ove ciò non sia manifestamente iniquo.
Al di là delle definizioni in astratto (e al netto della critica “linguistica” dell’uso dell’avverbio, dato che non pare sensatamente possibile distinguere ciò che è iniquo da ciò che lo è, ma non manifestamente), ritengo che si possano ricomprendere in questa categoria essenzialmente tre tipologie di comportamenti: (i) l’imposizione di prestazioni di natura strettamente personale, che coinvolgano, cioè, le qualità più intime del soggetto, come si evince dal riferimento alla «natura della prestazione» (gli esempi di scuola riguardano il dipingere un quadro, lo scrivere un romanzo, il cantare a teatro); (ii) l’imposizione di comportamenti sui quali la parte non ha, o non ha più, il controllo (si pensi al ritardo nell’esecuzione per fatto del terzo o per fatto dell’autorità); (iii) ogniqualvolta sussista un’eccessiva sproporzione tra l’interesse del creditore e il sacrificio imposto al debitore, ossia quando quest’ultimo sia di una “eccessiva durezza” (undue hardship, come si dice in questi precisi casi Oltremanica), valutato caso per caso (ed è in questo senso che andrebbe letto il riferimento al «valore della controversia»). Si pensi al provvedimento di convalida di sfratto che imponga la liberazione dell’immobile sotto minaccia di dover pagare una somma sempre più consistente al debitore che versa già in gravi difficoltà economiche. Mi sembra, d’altronde, che lo sfavor verso l’imposizione di oneri eccessivi nell’ottenimento della tutela in forma specifica sia uno dei principi generali dell’ordinamento italiano, come si deduce chiaramente dall’art. 2058 c.c., che dà facoltà al giudice di ‘convertire’ la richiesta di risarcimento in natura nel risarcimento monetario, qualora il primo risulti, appunto, eccessivamente oneroso.
Si ricordi, inoltre, che dal punto di vista delle conseguenze operative, imporre un giudizio di equità (nel senso di «non iniquità») significa per ciò stesso imporre l’onere di relativa motivazione. Nel caso in cui il giudice respinga la richiesta, egli dovrà quindi spiegare il perché, e la parte potrà contestare la decisione in sede di appello (ma non, chiaramente, in Cassazione, se non nei limiti consentiti dall’attuale art. 360, n. 5, c.p.c.), e, viceversa, la parte condannata potrà sostenere nella stessa sede la (manifesta) iniquità della stessa. Nel caso, invece, in cui il giudice accolga la richiesta, pare sensato sostener che egli dovrà motivare solo nel caso in cui vi sia contestazione ad opera della controparte (così Costantino, Tutela di condanna e misure coercitive, in Giur. It., 2014, 742).
Doppiamente criticabile, infine, è l’esclusione dall’alveo di operatività dell’art. 614 bis c.p.c. di ogni obbligazione derivante da contratti di lavoro subordinato o di collaborazione continuativa: da un lato, infatti, non si capisce perché escludere dal divieto tutto l’universo del lavoro autonomo; dall’altro non è chiaro perché sono state comprese nel divieto tutte quelle obbligazioni non caratterizzate da elementi di “personalità” e che avrebbero potuto essere più facilmente eseguibili per via indiretta (si pensi, da parte datoriale, ai comportamenti di mobbing, o da parte del lavoratore, alla violazione dell’obbligo di non concorrenza).
- Tra i profili più strettamente procedimentali, merita attenzione quello relativo al momento preclusivo della necessaria richiesta di parte. Pur ritenendo che questa richiesta non integri gli estremi di una vera e propria domanda (e quindi non andrebbe articolata negli atti introduttivi del giudizio a pena di decadenza), nondimeno non mi pare nemmeno liberamente formulabile fino all’udienza di precisazione delle conclusioni, in quanto – come è stato fatto giustamente notare – in seguito alla richiesta potrebbe porsi l’esigenza di istruttoria sul punto, cosicché il termine andrebbe individuato con riferimento alla prima delle tre “appendici scritte” che seguono l’udienza di trattazione, ex 183, comma 6, n. 1, c.p.c. (Merlin, Prime note sul sistema delle misure coercitive pecuniarie per l’attuazione degli obblighi infungibili nella L. 69/2009, in Riv. Dir. Proc., 2009, 1548).
Poiché il provvedimento è espressamente qualificato come titolo esecutivo per la riscossione delle somme indicate, il creditore procederà senz’altro all’auto-liquidazione della somma in via autonoma, nell’atto di precetto. La quantificazione avviene, quindi, a cura del beneficiario stesso, il quale non dovrà far altro che allegare i fatti alla base del proprio diritto di credito, senza dover materialmente provare tali affermazioni. Starà poi al debitore esecutato contestare, attraverso lo strumento dell’opposizione all’esecuzione o a precetto ex art. 615 c.p.c., sia l’an dell’inadempimento (o del ritardo) sia eventuali errori di calcolo e, sempre in tale sede, egli potrà chiedere la sospensione dell’efficacia esecutiva o dell’esecuzione se già iniziata. Va aggiunto che la più recente giurisprudenza di merito ha precisato che il giudizio di opposizione a precetto notificato per la riscossione del credito derivante dall’art. 614 bis c.p.c. accessorio a un provvedimento cautelare deve essere proposto dinnanzi al giudice che ha disposto la misura cautelare qualora si contesti la sussistenza dei presupposti per richiedere la sanzione, mentre va proposta innanzi al giudice dell’esecuzione qualora si contestino i vizi del precetto stesso: Trib. Genova (ord.), 28 ottobre 2015, in www.ilcaso.it. All’interno del procedimento di opposizione, occorre poi distinguere. Se spetta al debitore opponente fornire la prova dell’avvenuto adempimento dell’obbligo di fare (o, ora, anche di dare), sarà, invece, il creditore convenuto a dover provare la violazione dell’obbligo di non fare, secondo i principi per i quali negativa non sunt probanda e della vicinanza della prova (Merlin, op. cit.).
- Concludendo, va ricordato come, da ultimo, il d.d.l. delega al Governo (legge n. 2953-A) recante disposizioni per l’efficienza del processo civile, approvato dalla Camera il 10 marzo 2016 e trasmesso al Senato l’11 marzo 2016 (atto n. 2284), prevede al punto 2.d. l’estensione dell’614 bis p.c. «in presenza di qualunque provvedimento di condanna, a prescindere dal carattere fungibile o infungibile dell’obbligazione a cui esso si riferisce». Ora, delle due l’una. O i legislatori non si sono accorti che questa è già la disciplina attuale, nel senso che già adesso non rileva più il carattere infungibile o meno della prestazione, oppure – a quanto risulta – nella prossima stagione del nostro processo civile italiano assisteremo all’utilizzo di misure coercitive anche per assicurare l’adempimento “spontaneo” di condanne aventi ad oggetto mere somme di denaro, con gli inevitabili problemi che si porranno in termini di cumulo del risarcimento del danno, interessi e misure coercitive, e, in definitiva, di ingiustificato arricchimento del creditore.