Le regole per una corretta proposizione del giudizio d’appello
di Michele Ciccarè Scarica in PDFNel presente approfondimento si intende dare sistematicamente conto delle principali norme, legislativamente previste nonché ulteriormente ricavate in via interpretativa, per introdurre in maniera corretta il giudizio di secondo grado sotto il profilo dell’ammissibilità e della procedibilità. Nel corso della trattazione, inoltre, verranno indicati i più importanti orientamenti di legittimità intervenuti sul tema.
- Rilievi introduttivi sul piano generale.
Come noto, nel nostro sistema processuale è prevista la possibilità di appellare la decisione di primo grado, al fine di ottenerne l’invalidazione nonché la riforma (sul tema, tutt’ora valevoli le considerazioni di Calamandrei P., Sopravvivenza della querela di nullità nel processo civile vigente, in Riv. Dir. Proc., 1951, p. 112 ss.).
Tuttavia, la parte, al fine di raggiungere tale risultato, è onerata di esercitare in modo corretto il potere d’impugnazione, pena la dichiarazione d’inammissibilità e/o improcedibilità dell’appello proposto, con conseguenze pregiudizievoli sul piano delle spese processuali (da ultimo cfr. l’art. 13, co. 1 quater, D.P.R. 115/2002 per il pagamento in misura doppia del contributo unificato dovuto).
Inoltre, il rispetto di suddette regole, rilevabile d’ufficio dal giudice, assume valenza ancor più pregnante per la tutelabilità in giudizio della situazione controversa, in quanto in base all’art. 348 c.p.c., «l’appello dichiarato inammissibile o improcedibile non può essere riproposto, anche se non è decorso il termine fissato dalla legge», con conseguente passaggio in giudicato della sentenza impugnata.
Peraltro, a tal proposito e sul piano generale, la giurisprudenza pressoché unanime ha precisato che è comunque consentita la riproposizione dell’impugnazione in tesi inammissibile o improcedibile sino a che non sia intervenuta la relativa pronuncia, sempreché non siano ancora decorsi i termini per impugnare la decisione (ad es. Cass., 23 maggio 2011, n. 11308; Cass., 16 novembre 2005, n. 23220).
Sotto quest’ultimo punto di vista, va segnalato l’indirizzo ermeneutico da ultimo confermato dalle sezioni unite della Suprema Corte, per cui la seconda impugnazione deve essere effettuata entro 30 giorni dalla notifica della prima, posta l’equipollenza fra questa fattispecie e la notificazione della sentenza ex art. 326 c.p.c. ai fini della decorrenza del termine breve per appellare (Cass., 13 giugno 2016, n. 12084).
Da segnalare, infine, l’orientamento ormai dominante della giurisprudenza di legittimità, stando al quale la parte non può essere pregiudicata dall’imprevedibile mutamento di giurisprudenza intervenuto su norme processuali sopra le quali essa aveva fatto incolpevole affidamento per il corretto esercizio del potere d’impugnazione (ex multis Cass., 25 ottobre 2011, n. 22282; Cass., 18 novembre 2015, n. 23585; Cass., 11 luglio 2011, n. 15144; Cass., 7 febbraio 2011, n. 3030). Da ciò, dunque, consegue che:
- a) il nuovo orientamento non verrà applicato nella controversia da cui è scaturito;
- b) con riferimento agli altri giudizi di gravame instaurati prima della pubblicazione della sentenza con cui si è realizzato il revirement, la parte può essere rimessa in termini per riproporre l’impugnazione, anche in assenza di una sua apposita istanza (quest’ultima precisazione è di Cass., 17 giugno 2010, n. 14627).
- Le fattispecie d’inammissibilità.
L’inammissibilità può essere intesa quale impedimento affinché possa aversi una decisione nel merito dell’impugnazione proposta, nei casi in cui l’atto di parte «difetta di un presupposto o comunque di un elemento indispensabile per inserirsi validamente nel procedimento» (così Poli R., Invalidità ed equipollenza degli atti processuali, Torino, 2012, p. 320, cui si rinvia per approfondimenti sul tema).
Sulla scorta di tali deduzioni, oltre alle fattispecie d’inammissibilità espressamente previste dal codice di rito, sono state ricavate in via ermeneutica ulteriori ipotesi, c.d. extratestuali, nelle quali l’illegittimo esercizio del potere d’impugnazione complessivamente inteso conduce, del pari, alla chiusura in rito del procedimento d’impugnazione instaurato.
Innanzitutto, le inammissibilità c.d. testuali sono le seguenti.
- a) Violazione dell’art. 342 c.p.c., concernente le regole di redazione dell’atto di appello.
Sul tema sono stati registrati interessanti interventi da parte della giurisprudenza di merito, già segnalati in passato su questa rivista (App. Potenza, 19 Aprile 2016, nonché App. Firenze, 8 aprile 2015 ed App. Potenza, 20 maggio 2015,
- b) Proposizione, in violazione dell’art. 345 c.p.c., di domande nuove nel giudizio d’appello, con la conseguenza che esso, in parte qua, dovrà essere dichiarato inammissibile.
È viceversa consentito richiedere il pagamento di interessi, frutti o accessori maturati, ovvero il risarcimento per i danni medio tempore sofferti, quando ciò sia relativo alla domanda già avanzata in primo grado (Cass., 11 gennaio 2007, n. 383, nonché Cass., 17 ottobre 2003, n. 15547).
- c) In base all’art. 331 c.p.c., la mancata proposizione dell’appello nei confronti di tutte le parti del giudizio di primo grado in cause inscindibili o dipendenti nel termine perentorio di integrazione del contraddittorio ordinato dal giudice.
Peraltro, in giurisprudenza è ravvisabile un contrasto nel caso di spontanea costituzione della parte estromessa dal giudizio d’impugnazione: stando ad un primo indirizzo, la costituzione della parte estromessa sana per raggiungimento dello scopo il difetto iniziale di contraddittorio, purché tale intervento si verifichi entro l’udienza di trattazione fissata (in questo senso Cass., 4 settembre 2014, n. 18694; Cass., 20 dicembre 2013, n. 28585; Cass., 30 maggio 2013, n. 13629; Cass., 11 luglio 2006, n. 15686 Cass., 26 gennaio 2004, n. 1326; Cass., 13 aprile 1987, nn. 3676 e 3677); viceversa, un secondo indirizzo nega che tale situazione possa comportare la sanatoria del vizio in questione (così Cass., 27 marzo 2007, n. 7528; Cass., 7 marzo 2006, n. 4861; Cass., 29 aprile 2003, n. 6652; Cass., 26 novembre 2008, n. 28223; nonché recentemente in motivazione Cass., 25 maggio 2016, n. 10818).
Ad ogni modo, viene unanimemente fatta salva la facoltà, per l’appellante, di ottenere la rimessione in termini per integrare il contraddittorio in appello, qualora ne sussistano i presupposti ex art. 153 c.p.c. (ad es. Cass., 23 luglio 2010, n. 17416; Cass., 1 febbraio 2006, n. 2197; Cass., 9 ottobre 2014, n. 21345).
- d) In virtù dell’art. 348 bisp.c., l’appello che non ha una ragionevole probabilità di essere accolto.
Si tratta di una fattispecie del tutto peculiare in quanto conseguenza di una manifesta infondatezza nel merito dell’appello proposto (sul tema v. il recente intervento a sezioni unite di Cass., 2 febbraio 2016, n. 1914, nonché in precedenza Cass., 27 marzo 2014, n. 7273; per la giurisprudenza di merito cfr. Trib. Vasto, ord. 20 febbraio 2013, in Giur. It., 2013, 7, 1629; App. Bari, 18 febbraio 2013, in Foro It., 2013, I, 969; App. Milano, ord. 14 febbraio 2013, in Foro It., 2013, I, 2630; App. Milano, ord. 8 febbraio 2013, in Giur. It., 2013, 7, 1629; App. Napoli, ord. 30 gennaio 2013, in Foro It., 2013, I, 2630; App. Roma, ord. 23 gennaio e 30 gennaio 2013, in Riv. Dir. Proc., 2013, 711; App. Bologna, ord. 21 gennaio 2013, in Nuova Proc. Civ., 2013, II, 162; App. Torino, ord. 17 gennaio 2013, in www.osservatoriogiustizia.re.it).
Viceversa, per quanto concerne le ipotesi tradizionalmente ricondotte nell’alveo delle inammissibilità c.d. innominate, esse sono state individuate nei casi che seguono (per riferimenti v. Mandrioli C. – Carratta A., Diritto processuale civile, Torino, 2016, p. 438 ss.; Di Lalla L., Sui limiti esterni della inammissibilità dell’appello, in Foro it., 2013, V, p. 277).
- a) Decorrenza del termine indicato all’art. 326 c.p.c., ovvero decadenza dal potere d’impugnazione ex 327 c.p.c.
Innanzitutto, va posto all’attenzione che il termine lungo di 6 mesi, da computarsi secondo il calendario comune (v. Cass., 29 marzo 1989, n. 1547), a partire dal 2015 è soggetto alla sospensione feriale dal 1° al 31 agosto, in virtù del d.l. 134/2014, convertito in l. 162/2014 (in precedenza, da 1° agosto al 15 settembre).
Inoltre, preme ribadire in questa sede l’orientamento di legittimità sulla decorrenza del termine breve ex art. 326 c.p.c. nel caso di proposizione di una nuova impugnazione dopo che essa era già stata in precedenza notificata.
- b) Proposizione dell’appello ad opera della parte che aveva già fatto acquiescenza, esplicita o implicita, alla sentenza di primo grado.
Sotto questo punto di vista, in particolare, non comporta acquiescenza ex art. 329, co. 1, c.p.c., né la spontanea esecuzione di una sentenza di primo grado provvisoriamente esecutiva (Cass., 1 aprile 2016, n. 6334; Cass., 11 giugno 2014, n. 13293; Cass., 1 dicembre 2000, n. 1242), né l’avanzamento di una proposta transattiva al fine di evitare la proposizione dell’appello (Cass., 14 marzo 1997, n. 2312).
- c) Proposizione dell’appello in luogo di altro mezzo d’impugnazione esperibile avverso la decisione.
A tal proposito, ex art. 339 c.p.c., può essere appellata ogni sentenza di primo grado purché l’appello non sia escluso dalla legge (ad esempio per le sentenze di equità ex art. 114 c.p.c., oppure per la sentenza resa ex art. 618 c.p.c.), ovvero dall’accordo delle parti (come nel caso dell’omissio medio ex art. 360, co. 2, c.p.c.).
Eppure, la scelta del corretto mezzo d’impugnazione risulta assai problematica nei casi di errore del giudice nella scelta della forma con cui emanare la decisione: volendo limitare l’esemplificazione alle vicende del processo ordinario di cognizione, si pensi all’emanazione di ordinanza in luogo di sentenza non definitiva ex art. 279, n. 4, c.p.c., oppure, invertendo i termini dell’equazione, alla sentenza resa in materia istruttoria.
La giurisprudenza dominante, per risolvere tale impasse, ha nel tempo elaborato il c.d. principio della prevalenza della sostanza sulla forma: in sintesi, per esigenze di giustizia sostanziale, prevale il regime giuridico astrattamente previsto dalla legge rispetto a quello applicabile sula scorta della forma concretamente utilizzata dal giudice: sarà dunque appellabile l’ordinanza emanata su questioni pregiudiziali di rito (ex multis Cass., 19 dicembre 2014, n. 27127 e Cass., 28 febbraio 2011, n. 4986; ma contra, in motivazione Cass., 16 aprile 2007, n. 8949), nonché sarà revocabile o modificabile la c.d. sentenza istruttoria (Cass., 15 dicembre 1987, n. 9286 e Cass., 18 gennaio 1962, n. 82).
Il principio, mutatis mutandis, trova applicazione anche nei procedimenti speciali: ad esempio, se il giudice emana l’ordinanza per la convalida dello sfratto nonostante la carenza dei presupposti per accedere a quel determinato rito, essa dovrà essere sostanzialmente considerata come una sentenza appellabile (così ex multis Cass., 23 gennaio 2006, n. 1222; per il giudizio decisorio v. invece Cass., 2 ottobre 2012, n. 16727).
Da queste evenienze, la giurisprudenza distingue le ipotesi in cui l’errore del giudice risiede nella qualificazione dell’azione proposta dalla parte, dovendo ivi trovare spazio il diverso principio c.d. dell’apparenza per ragioni di certezza giuridica.
Per questo secondo gruppo di ipotesi, dunque, il risultato consiste nell’applicazione del regime giuridico ricavabile dal tipo di decisione concretamente emanata, anche se erroneo (per il procedimento di liquidazione degli onorari di avvocato v. Cass., 11 gennaio 2011, n. 390; per la qualifica delle azioni di opposizione endoesecutive v. Cass., 11 giugno 2015, n. 12142, nonché Cass., 14 dicembre 2007, n. 26294; per le vicende legate alla qualificazione del procedimento arbitrale come rituale o irrituale v. Cass., 24 marzo 2011, n. 6842; per la qualifica delle azioni proposte dinanzi al giudice di pace v. Cass., 19 maggio 2009, n. 11590).
- d) Proposizione dell’appello ad opera di chi non ha assunto la qualità di parte in primo grado (per riferimenti Cass., 9 luglio 1996, n. 6249), salve le eccezioni espressamente previste dalla legge (come la previsione dell’art. 111 c.p.c.).
A tal fine, per la corretta individuazione del soggetto appellante, v. da ultimo Cass., 16 maggio 2016, n. 9986.
- e) Proposizione dell’appello da parte di chi non era rimasto soccombente nel giudizio di primo grado.
In particolare, qualora una soccombenza ci sia stata, ma sia riferibile solo ad una questione pregiudiziale che non ha poi influito sull’esito del giudizio, comunque positivo nel merito, sussisterà l’onere, in capo alla parte appellata, d’impugnare in via incidentale la pronuncia su tali questioni, pena fa formazione del giudicato interno sulle stesse (sul punto Cass., 9 agosto 2013, n. 19136; Cass., 7 giugno 2011, n. 12346; Cass., 2 luglio 2004, n. 12138; nonché, per il processo tributario, Cass., 11 maggio 2016, n. 9543).
- f) Proposizione dell’appello, avverso la sentenza non definitiva emanata dal giudice ex 279, co. 4, c.p.c., solo all’esito del giudizio di primo grado, nelle ipotesi di omessa o irrituale riserva ex art. 340 c.p.c. (Cass., 25 agosto 2014, n. 18188; Cass., 11 giugno 2003, n. 9387).
Del pari, è reputato inammissibile l’appello proposto in via immediata avverso una sentenza non definitiva dopo che la parte aveva già formulato istanza di riserva, con la particolarità che esso – in deroga all’art. 358 c.p.c. – potrà comunque essere riproposto all’esito del giudizio di primo grado (così Cass., 2 febbraio 2016, n. 1992; Cass., 12 aprile 2002, n. 5282; Cass., 22 novembre 1991, n. 12577; Cass., 10 novembre 1989, n. 4777).
- g) Nel rito del lavoro e con specifico riferimento all’appello con riserva dei motivi ex 433, co. 2, c.p.c., la mancata presentazione dei motivi d’appello nel termine d’impugnazione che decorre, a seconda delle ipotesi, dal momento di pubblicazione o notificazione della sentenza.
Peraltro, la giurisprudenza ritiene inammissibile la proposizione di tale peculiare appello se l’esecuzione forzata sulla base del dispositivo della sentenza non sia ancora stata avviata, salvo il potere – anche in questo caso in deroga all’art. 358 c.p.c. – di riproporre successivamente l’ordinario appello ex art. 433, co. 1, c.p.c., nei termini previsti per legge (sul punto Cass., 31 maggio 2006, n. 13005).
Autonoma riflessione merita invece il fenomeno della proposizione dell’appello al giudice territorialmente incompetente.
Sulla questione sussistevano opinioni contrastanti nella giurisprudenza di legittimità.
Stando ad un primo indirizzo, infatti, essa veniva considerata come causa d’inammissibilità; mentre per un secondo orientamento, l’errore nella scelta del giudice competente ex art. 341 c.p.c. comportava, anche in appello, l’applicazione dell’istituto della translatio iudicii, con salvezza degli effetti processuali e sostanziali dell’impugnazione proposta (così Cass., 9 giugno 2015, n. 11969).
Sul punto, in virtù d’ordinanza interlocutoria del 9 dicembre 2015, n. 24856, in Riv. Dir. Proc., 2016, 2, p. 396, con nota di Poli R., Impugnazione proposta al giudice incompetente e translatio iudicii, è recentemente intervenuta la Suprema Corte a sezioni unite, la quale, per un verso ed in accoglimento del secondo orientamento, ha affermato l’applicazione della translatio iudicii ai casi d’incompetenza territoriale del giudice d’appello adito, nonché, per un altro, ne ha esteso l’applicazione anche «nell’ipotesi di appello proposto dinanzi a un giudice di grado diverso rispetto a quello dinanzi al quale avrebbe dovuto essere proposto il gravame» (Cass., 14 settembre 2016, n. 18121).
- Le fattispecie d’improcedibilità.
Volendo precisare l’ambito entro cui muove l’improcedibilità (su cui v. ancora Poli R., Invalidità ed equipollenza, cit., p. 341 ss.), può affermarsi che tale sanzione è stata tassativamente prevista dal legislatore all’art. 348 c.p.c. per determinate ipotesi di inattività delle parti nel giudizio d’appello (per conferme Cass., 30 luglio 2013, n. 18244).
Più distesamente, l’improcedibilità deriva:
- a) dalla mancata costituzione dell’appellante nei termini, coincidenti con quelli previsti per il procedimento di primo grado (arg. ex 347 c.p.c.);
- b) dalla mancata comparizione dell’appellante alla prima udienza nonché a quella successiva appositamente fissata dal giudice.
Preme in particolare rilevare, con riferimento alla prima fattispecie, l’aspetto problematico rappresentato dalla costituzione in giudizio tramite c.d. velina, sul quale è recentemente intervenuta la Suprema Corte a sezioni unite (dopo l’ordinanza di rimessione di Cass., 18 dicembre 2015, n. 25529). Sul punto, i giudici di legittimità hanno affermato che la costituzione dell’appellante, avvenuta nei termini dell’art. 165 c.p.c. ma senza contestuale deposito dell’originale di citazione notificato, non determina l’improcedibilità dell’impugnazione proposta se l’originale di notifica venga poi depositato dall’appellante entro la prima udienza, ovvero quando l’appellato compaia in detta udienza, in quanto la sua costituzione è comunque idonea a sanare ogni vizio (così Cass., 5 agosto 2016, n. 16598).