Lavoro a termine: onere della prova
di Evangelista Basile Scarica in PDFCorte di Cassazione, Sezione Lavoro, 8 marzo 2018, n. 5512
Termine – Causale – Astrattamente idonea – Assenza prova – Conversione contratto a tempo indeterminato
MASSIMA
È onere del datore di lavoro convenuto in giudizio dimostrare la sussistenza nel caso concreto della causale apposta al contratto a termine, la quale può anche essere legittima in astratto. Deve essere dimostrato che il lavoratore assunto a termine sia stato effettivamente destinato a mansioni direttamente riconducibili all’attività indicata nel contratto individuale e non anche ad attività ordinarie espletate dai colleghi assunti con contratto a tempo indeterminato.
COMMENTO
Due lavoratori, tecnici di assistenza al cliente in un call center, impugnavano il contratto di lavoro a termine disciplinato dal D.lgs. 368/2001, sostenendo l’illegittimità dei termini apposti. La domanda trovava il favore sia del Tribunale, sia della Corte d’Appello. Quest’ultima affermava che la Società datrice di lavoro non aveva offerto la prova che i ricorrenti erano stati destinati, per tutta la durata del contratto, a mansioni direttamente riconducibili alla gestione delle promozioni dei nuovi prodotti e servizi previsti dal piano commerciale; al contrario, era risultato che i due lavoratori erano stati assunti per far fronte a carenze strutturali degli organici. La causale apposta ai contratti individuali impugnati, dunque, pur non essendo di per sé illegittima, non aveva trovato riscontro nei fatti di causa provati nel corso di giudizio. A fronte di tale constatazione, il Giudice concludeva che nel caso di specie non si erano verificate le ragioni per le quali il datore di lavoro aveva fatto ricorso alle assunzioni a termine. La Società impugnava la sentenza innanzi alla Cassazione, la quale, tuttavia, respingeva il ricorso e confermava la pronuncia di merito. Secondo la Società ricorrente, era priva di rilievo la non conformità dei fatti di causa alla previsione contrattuale, posto che nel settore in cui operava non era possibile procedere ad una quantificazione in anticipo del reale impatto della promozione commerciale – ragione per la quale i lavoratori erano stati assunti –: il datore doveva, quindi, solo dimostrare che la previsione sia stata compiuta su basi fondate. La censura è ritenuta inammissibile: pur denunciando una pretesa violazione di legge, si sostanzia nella richiesta di una diversa valutazione delle risultanze istruttorie, non consentita al Giudice di legittimità. Ciò premesso, la Suprema Corte richiama quanto già affermato dal Giudice del merito: ai sensi dell’art. 1 D.lgs. 368/2001, le ragioni oggettive che giustificano l’apposizione del termine devono essere esattamente individuate, presentare connotati di strutturale temporaneità e risultare direttamente o indirettamente da un atto scritto, ciò al fine di consentire al lavoratore la verifica della loro fondatezza. A parere della Corte di Cassazione, nel giudizio di secondo grado i principi giurisprudenziali in materia sono stati correttamente applicati: è stata, infatti, esaminata nel concreto la sussistenza delle causali addotte nel contratto individuale e, a fronte della verificata non corrispondenza, non poteva ritenersi legittimo il termine apposto. All’esito dell’ampia ricostruzione degli elementi di prova acquisiti, il Giudice dell’appello aveva, infatti, accertato che non vi era prova delle ragioni organizzative che avevano determinato il datore di lavoro all’apposizione dei termini al contratto: i lavoratori ricorrenti erano stati occupati solo in misura limitata nel lancio delle nuove promozioni e, principalmente, erano stati assegnati ad attività ordinarie, al pari dei colleghi assunti con contratto a tempo indeterminato.
Articolo tratto dalla Rivista Euroconference “IL GIURISTA DEL LAVORO”