L’auto attribuzione di compensi congrui da parte del liquidatore, di società poi dichiarata fallita, configura bancarotta patrimoniale per distrazione o bancarotta preferenziale?
di Gian Luca Grossi - Studio Pirola Pennuto Zei & AssociatiMarcello Guerzoni - Studio Pirola Pennuto Zei & Associati Scarica in PDFCorte di Cassazione Penale Sez. V sentenza 13 luglio 2018 n. 32378
Parole chiave: bancarotta fraudolenta per distrazione – bancarotta preferenziale – liquidatore della società – congruità compensi del liquidatore
“Risponde di bancarotta preferenziale e non di bancarotta fraudolenta per distrazione l’amministratore o il liquidatore della società che in assenza di una delibera ad hoc si liquida compensi congrui rispetto alla qualità e alla quantità di lavoro svolto dovendosi osservare che l’amministratore, come il liquidatore, è un creditore della società, che ha diritto ad un adeguato compenso per l’attività svolta: ne consegue che l’autoliquidazione di somme a proprio favore altera la par condicio creditorum, ma non depaupera la società.”
Disposizioni applicate: art. 216 comma 1 l.f. – art. 216 comma 3 l.f. – 223 l.f.
La Quinta Sezione Penale della Corte di Cassazione con la pronuncia in commento offre lo spunto per una ulteriore riflessione sul tema del delitto di bancarotta consumato dal liquidatore della società mediante attribuzione del proprio compenso, in assenza di specifica delibera assembleare. Il tema è di grande interesse dato il sempre crescente numero di procedure concorsuali alle quali accedono le imprese in stato di dissesto nonché per il numero ingente di professionisti coinvolti che assistono l’imprenditore prima dello stato di decozione ovvero che dopo l’apertura della procedura rivestono la qualifica di “organi” (di liquidatore, curatore e così via).
Nella fattispecie la società era evidentemente stata posta in liquidazione volontaria e la dichiarazione di fallimento era intervenuta durante la fase liquidatoria nella quale il liquidatore si era pagato i propri compensi per l’attività svolta in assenza di una previa delibera assembleare autorizzativa.
Si discute infatti se tale condotta al momento della dichiarazione di fallimento della società (in cui si cristallizzano eventuali ipotesi distrattive ovvero di violazione della par condicio) integri un caso di bancarotta per distrazione ovvero una (più tenue) bancarotta preferenziale.
Il problema è tutt’altro che indifferente anche per l’amministratore ovvero il professionista imputato poiché, com’è noto, diversa è la durata della pena a seconda che si tratti dell’una o dell’altra figura di reato. Da uno a cinque anni in caso di bancarotta preferenziale; da tre a dieci anni in caso di bancarotta per distrazione.
La Corte, con la sentenza in commento – di portata a dire il vero non particolarmente innovativa – rinviene il discrimen fra le due figure nella congruità o meno dell’emolumento del liquidatore che deve essere apprezzata in riferimento alla natura, qualità e quantità dell’attività concretamente svolta in favore della società.
In particolare la Suprema Corte, consolidando il proprio orientamento espresso in numerosi altri pronunciati ha statuito che l’amministratore “che si ripaghi dei suoi crediti verso la società fallita relativi a compensi per il lavoro prestato, prelevando ovvero ottenendo dalla cassa sociale una somma congrua rispetto a tale lavoro, risponde non di bancarotta fraudolenta patrimoniale per distrazione, ma di bancarotta preferenziale, grazie alla presenza dell’elemento caratterizzante di tale tipo di bancarotta rispetto alla fraudolenta patrimoniale, rappresentato dalla alterazione della par condicio creditorum”.
Si tratterebbe quindi di bancarotta preferenziale e non già di bancarotta patrimoniale per distrazione, in ragione dell’assenza di un concreto e reale depauperamento del patrimonio sociale.
Infatti, un compenso sproporzionato all’attività effettivamente prestata in favore della società integrerebbe il reato di bancarotta patrimoniale per distrazione, in quanto una attribuzione siffatta configurerebbe, ex se, un decremento del patrimonio sociale. Tale ultimo elemento oggettivo non è, al contrario, ravvisabile ove il compenso sia ritenuto proporzionato, seppur in assenza di una specifica delibera assembleare.
Orbene, la presenza di tale elemento di equità e congruità fa sì che il liquidatore ovvero l’amministratore, con la propria condotta, abbia violato (solamente) la par condicio creditorum, mediante autoliquidazione di somme sulle quali altrimenti avrebbe potuto concorrere la massa degli altri creditori sociali.
La Corte ha così annullato la sentenza e rinviato al Giudice del merito ai fini dell’accertamento della congruità o meno di tali compensi e conseguentemente di riqualificazione della fattispecie in termini di bancarotta preferenziale.