Quando l’approvazione dei creditori non basta: la storia di un concordato preventivo trasformatosi in fallimento
di Gian Luca Grossi - Studio Pirola Pennuto Zei & AssociatiMassimo Di Terlizzi - Studio Pirola Pennuto Zei e Associati Scarica in PDFCorte di Cassazione civile, Sez. I, Sentenza n. 31478 del 9 novembre 2018 (dep. 5 dicembre 2018)
Parole chiave: concordato preventivo – inammissibilità – approvazione proposta – maggioranza dei creditori – sindacato del tribunale – fattibilità giuridica della proposta – valutazione positiva dell’attestatore
Massima: “In tema di concordato preventivo, il giudice ha il dovere di esercitare il controllo di legittimità sul giudizio di fattibilità della proposta di concordato, non restando questo escluso dall’attestazione del professionista, mentre rimane riservata ai creditori la valutazione in ordine al merito del detto giudizio, che ha ad oggetto la probabilità di successo economico del piano ed i rischi inerenti. II menzionato controllo di legittimità, peraltro, si realizza facendo applicazione di un unico e medesimo parametro nelle diverse fasi di ammissibilità, revoca ed omologazione in cui si articola la procedura concordataria”
Disposizioni applicate: 18, 160, 161, 171, 173, 176, 180, 186 l.f.
La sentenza emessa dalla Prima Sezione della Corte di Cassazione offre l’occasione per riflettere sul tema del sindacato da parte del Tribunale in merito alla “fattibilità” della proposta concordataria, all’esito della votazione favorevole dei creditori ed in assenza di opposizioni di quelli dissenzienti.
Ci si domanda infatti fino a che punto il Giudicante possa valutare in termini giuridici e fattuali la domanda di concordato nella fase di omologa (artt. 174-178 l.f.).
In particolare, la vicenda traeva origine dalla pronuncia del Tribunale di Messina che aveva dichiarato il fallimento di una società in liquidazione revocando, ai sensi dell’art. 173 l.f., l’ammissione di quest’ultima alla procedura concordataria (nella fattispecie concordato preventivo “in continuità”).
E’ bene subito evidenziare come il Commissario Giudiziale, all’uopo designato dal Giudice adito, avesse rilevato nella propria relazione particolareggiata (art. 172 l.f.) la violazione dell’art. 160 l.f., per mancato rispetto delle cause legittime di prelazione, contestando altresì il risultato economico di talune operazioni immobiliari previste nel piano concordatario; ciò nonostante la proposta otteneva il voto favorevole della maggioranza dei creditori ammessi al voto, nonché analogo risultato nel maggior numero di classi (art. 177 l.f.). Ciò nonostante il Tribunale disponeva udienza di comparizione della società, del Pubblico Ministero, del Commissario Giudiziale e dei creditori all’esito della quale revocava il provvedimento di ammissione alla procedura, dichiarando il fallimento della società (art. 173 l.f.).
Avverso detta pronuncia la società proponeva reclamo, ex art. 18 l.f., innanzi alla Corte d’Appello, evidenziando come la sentenza fosse errata nella misura in cui il Tribunale i) aveva ritenuto inammissibile la proposta concordataria successivamente all’approvazione da parte della maggioranza dei creditori e ii) aveva compiuto valutazioni circa la “fattibilità economica della proposta concordataria”, seppure in presenza delle attestazioni di legge e iii) aveva considerato l’operazione “giuridicamente non fattibile” e iv) aveva rideterminato ex post il valore di cessione (periziato) di alcuni immobili, e infine v) aveva ritenuto la proposta concordataria giuridicamente ed economicamente non fattibile. Ma anche il reclamo della società veniva respinto dalla Corte di Appello di Messina.
Il Decreto di revoca, dunque, non si sarebbe fondato su di una valutazione di merito e/o di adeguatezza economica della proposta in sé, quanto su di un “controllo di legalità demandato al tribunale in ogni fase della procedura concordataria”.
La società, in persona del proprio liquidatore, ricorreva pertanto per Cassazione sulla base di quattro articolati motivi.
La Prima Sezione civile della Suprema Corte analizzando congiuntamente i quattro motivi poiché avvinti “dal comune denominatore della individuazione dei poteri di controllo del tribunale sulla proposta” evidenzia immediatamente come le doglianze “non sono meritevoli di accoglimento”.
La Prima Sezione ricorda infatti come in seno alla stessa Corte (Cassazione, SS. UU., n. 1521/2013) sia consolidato l’orientamento in base al quale “il giudice ha il dovere di esercitare il controllo di legittimità sul giudizio di fattibilità della proposta di concordato, non restando questo escluso dall’attestazione del professionista, mentre rimane riservata ai creditori la valutazione in ordine al merito del detto giudizio, che ha ad oggetto la probabilità di successo economico del piano ed i rischi inerenti”.
Inoltre, la Prima Sezione, evidenzia come “il controllo della regolarità della procedura, proprio della tipica funzione dell’omologa, di imprimere giuridica efficacia al consenso espresso sulla proposta, comporta necessariamente la verifica della persistenza sino a quel momento, delle medesime condizioni di ammissibilità della procedura stessa, seppure già scrutinate nella fase iniziale, dell’assenza di atti o fatti di frode che potrebbero dare impulso al procedimento di revoca ex art. 173 L. Fall. e, in caso di riscontro positivo di tali condizioni, del rispetto delle regole che impongono che la formazione del consenso dei creditori sulla proposta concordataria sia stata improntata alla più consapevole ed adeguata informazione” (cfr., in senso analogo, le più recenti Cass. n. 10778 del 2014 e Cass. n. 2234 del 2017).
Ma la Cassazione osserva anche come il Giudice fallimentare ben possa scrutinare finanche la fattibilità economica del piano laddove quest’ultimo risulti “irrealizzabile prima facie”
Ruolo precipuo del Giudice, ricorda la Prima Sezione, è quello di “garantire il rispetto della legalità nello svolgimento della procedura e, in tale prospettiva, spetta a lui esercitare, sulla relazione del professionista attestatore, un controllo specifico, concernente la congruità e la logicità della motivazione ed il profilo del collegamento effettivo fra i dati riscontrati ed il conseguente giudizio” (in tal senso Cassazione, SS. UU., n. 1521/2013, citata).
A ben vedere infatti la verifica di regolarità dell’andamento della procedura “è presupposto indispensabile al fine della garanzia della corretta formazione del consenso” (cfr., in tal senso, Cassazione n. 5825 del 20189.
Come conferma anche l’insegnamento delle Sezioni Unite “non è dubbio che spetti al giudice verificare la fattibilità giuridica del concordato e, quindi, esprimere un giudizio negativo in ordine all’ammissibilità quando le modalità attuative risultino incompatibili con norme inderogabili” (cfr. Cassazione, SS. UU., n. 1521/2013, più volte citata).
Tale potere di indagine e controllo è tanto penetrante da attraversare le diverse fasi della procedura concordataria, sino a quella dell’omologa, tanto da ravvisare nella relativa disciplina concordataria “evidenti manifestazioni di riflessi pubblicistici … a presidio della legalità del procedimento”. Dunque, la Corte territoriale ha “correttamente confermato il decreto di revoca del Tribunale di Messina … il quale, non verificò affatto, dopo l’approvazione della proposta concordataria da parte dei creditori, la fattibilità economica/probabilità di successo del concordato, bensì sindacò la “fattibilità giuridica dell’operazione” nel suo complesso”.
Il dettato dell’art. 173 l.f. lascia infatti in capo al Giudice il potere di riesaminare la permanenza delle condizioni di ammissibilità della proposta concordataria una volta ottenuta l’approvazione dei creditori, anche nella fase di omologazione. Non esisterebbe quindi una “preclusione” in capo al Tribunale circa una nuova e diversa valutazione delle circostanze fattuali esistenti al momento della domanda di concordato, potendo quest’ultimo revocare l’ammissione alla procedura in ogni momento.
Una limitazione ai poteri del Tribunale Fallimentare sarebbe invero non conforme alla salvaguardia degli interessi pubblicistici sottesi al sindacato di legittimità.
Alla luce di tali principi la Suprema Corte ha dunque respinto il ricorso e condannato la società ricorrente alla rifusione delle spese di lite.